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Full text of "Bollettino dell' Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato n. 89 2022"

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ISSN 2281-521X 


772281"521000 


9 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI 
SELLA CITTÀ DI SAN MINIATO AL TEDESCO 


BOLLETTINO N. 89 


in sovraccoperta: 
Corrispondenze, Senza titolo#14, 2021 
Luca Lupi 


CA 


AZIONI@NSSAWOI RISPARMIO DI SAN MINIATO 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI 


AKENTHTOX PEPENIKOY 


9 


77228 


SSN 2. 


128 
1 


1-521X 
INI 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI - BOLLETTINO N. 89 


ANNO XCX - 2022 N. 89 


BOLLETTINO 


DELLA 


DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO 


x 


Rivista di Storia — Lettere — Scienze ed Arti 


Direzione ed Amministrazione Palazzo Migliorati - San Miniato al Tedesco 


$, 
de 


La direzione del Bollettino dell’Accademia degli Euteleti 
esprime la sua gratitudine 
alla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato 
che, con il suo contributo, 
sostiene la pubblicazione del presente volume. 


Con il contributo della 
Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali 
Ministero della Cultura 


BOLLETTINO 


DELLA 


DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO 


Rivista di Storia — Lettere — Scienze ed Arti 


n. 89 


SAN MINIATO AL TEDESCO - DICEMBRE 2022 


Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 
Piazza XX Settembre, 21, 56027, San Miniato (PI). 


accademiacuteleti@gmail.com 


Accademia fondata il 2 ottobre 1822 con Reale e Imperiale Rescritto Sovrano 
del Granduca di Toscana 

Accademia istituita il 10 Luglio 1947 con Decreto di riconoscimento 

della personalità giuridica 

Decreto del Presidente della Repubblica Italiana del 10 Luglio 1947, 
Presidente De Nicola. 


Bollettino dell’Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato n° 89/2022 


Il Bollettino è edito con il contributo 
della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato — anno 2022 


L'Accademia degli Euteleti riceve il contributo della Direzione Generale 
per i Beni Librari e gli Istituti Culturali del Ministero della Cultura 


Comitato scientifico 

Saverio Mecca, presidente 

Luca Macchi 

Roberta Roani 

Il programma editoriale di ciascun numero della rivista è elaborato dal Comitato Scientifico 
che applica una procedura di selezione, valutazione e miglioramento editoriale. 

La selezione degli autori avviene su invito. 


Stampato in 400 copie non numerate su carta Fedrigoni Arcoset, 90 gr, usomano, di pura 
cellulosa ecologica 

Finito di stampare a San Miniato presso la Tipografia Bongi, Via Augusto Conti 10, 

San Miniato, Pisa 


Progetto grafico: Saverio Mecca 
Fotografia sovracoperta: Luca Lupi 
Messa in pagina: Photochrome - Empoli 


Iscritto nel Registro dei Periodici presso la Cancelleria del Tribunale di Pisa in data 2 settembre 1958, n° 11 


ISSN 2281-521X 
Bollettino della Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 
[Testo stampato] 


Diritti di riproduzione 2022: Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 


Ai lettori del Bollettino 


Gli effetti della crisi pandemica ancora condizionano le attività dell’Acca- 
demia degli Euteleti: la sede che la ospita ha delle criticità per ospitare più perso- 
ne, criticità che la clausura ha reso più evidenti, rendendo più difficile organizzare 
conferenze, incontri e mostre di arte. La pubblicazione dio Bollettino annua- 
le, il suo più importante contributo continua e il n° 89 è presentato e diffuso il 
16 dicembre 2022. 

Questo anno 2022 è il duecentesimo anno della fondazione dell’Accademia 
degli Euteleti della Città di San Miniato con Reale e Imperiale Rescritto Sovrano 
de Grida di Toscana. E in preparazione la pubblicazione di un volume che 
ne racconta la lunga e intensa storia e il contributo alla crescita della comunità e 
del territorio: un lungo lavoro di 89 bollettini per sostenere la crescita civile, cul- 
turale ed economica e del territorio di san Miniato e della Toscana, una missione 
storica dell’Accademia onorata fin dalla sua fondazione, secondo la illuminata 
visione dei fondatori. 

È in questa prospettiva che il Bollettino n° 89 dell’anno 2022 propone 
un'ampia e ui selezione di articoli dei Soci e degli studiosi invitati alla 
collaborazione. 

I contributi trattano temi di riflessione sul periodo che stiamo vivendo, sto- 
ria, storia dell’arte e dell’architettura in Toscana e del territorio; la qualità dei 
contributi lo rendono non solo uno dei più importanti bollettini delle accademie 
toscane, ma anche uno strumento per la costruzione della storia dei nostri luoghi. 

La varietà e diversità dei li appropriata al carattere di miscellanea nel 
sommarsi negli anni come tessere di un mosaico compone un ritratto continua- 
mente arricchito del territorio di San Miniato, del Valdarno e della Toscana: una 
risposta alle esigenze di conoscenza critica della comunità mediante un costante 
impegno culturale e scientifico dell’Accademia e degli autori. 

Rivolgiamo di nuovo un appello a tutti i soci, gli amici e i sostenitori dell’Ac- 
cademia, alle Istituzioni del territorio perché ne sostengano, anche economica- 
mente, le attività e le pubblicazioni a beneficio dell'intera comunità. 

Un particolare ringraziamento va rivolto alla Fondazione Cassa di Risparmio 
di San Miniato e al Ministero della Cultura. 


San Miniato, lì 16 dicembre 2022 


Il Presidente dell’Accademia degli Euteleti 
Saverio Mecca 


INDICE 


MARIA FANCELLI 


In margine al romanzo Le Ricorrenze di Franco Brogi Taviani 


ANGELO FABRIZI 
L’ombra di Anna 


MARZIO GABBANINI 
Un medaglione per don Nello Micheletti presidente dell’Accademia degli 
Euteleti e tra i fondatori dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato 


ANGELO FABRIZI 
Omaggio ad Antonio Gamucci 


LUCA MACCHI 
Considerazioni intorno ad alcune immagini che ritraggono la città 
di San Miniato realizzate nel tempo 


SAVERIO MECCA 
Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni 
e diseguaglianze 


ALESSANDRO MIANI 


Biofilia: un legame innato tra uomo e natura 


FRANCESCO FERRINI 
Città “biofiliche”: sfide e opportunità nella politica della pianificazione 
del verde urbano 


LAURA BALDINI 
È questa la scuola che gi 
Riflessioni a margine della scuola delle competenze 


GIOVANNI COPPOLA 
La Tapisserie de Bayeux e pe alla conoscenza della Storia 
dell’architettura militare dell'XI secolo 


LAMIA HADDA 
Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


MICHELE FEO 
Francesco d'Assisi, le allodole e Federico II 


ROSSANO NISTRI 
Se hai marito fallo morire! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


MARIO BRUSCHI 
Donatello e la città e il territorio di Pistoia 


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17 


20 
29 


47 


65 


71 


77 


85 


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127 


161 


191 


RICCARDO SPINELLI 
Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell'Archivio di Stato di Firenze 


ELISABETTA MALVALDI 
Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane del Novecento: 
«Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell’Italia» 


ROBERTA ROANI 
La “bella romana”. Teresa Benincampi letterata e scultrice 


STEFANO RENZONI 
Prima del San Carlo. Antonio Niccolini: un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


FABIO SOTTILI 
La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


COSTANTINO CECCANTI 
La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


CARLOTTA LENZI IACOMELLI 
Spigolature biografiche sui Gricci e, infine, una data 


FRANCESCA RUTA 
Villa Bardelli Capoquadri, Monteboro, Empoli, 
luogo natio di Andrea Corsali, navigatore cinquecentesco 


CLAUDIA MARIA BUCELLI 
In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


MICHELE FIASCHI 
Curiosità araldiche della Diocesi di San Miniato 


FEDERICO CECCANTI 
12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa 
nella villa di Montebuono presso Pistoia 


FRANCESCO FIUMALBI 
Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa 
e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


ANTONELLA BERTINI 
La “Grande Mostra Campionaria Nazionale” del 1907 a Empoli 


ANGELO FABRIZI 
Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


CLAUDIO BISCARINI 
Il cavaliere della Chiecina 


Vita dell’Accademia nell’anno 2022 


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233 


261 


269 


299 


323 


345 


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DI 


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385 


425 


449 


459 


485 


503 


In margine al romanzo Le Ricorrenze 
di Franco Brogi Taviani 


MARIA FANCELLI 


La famiglia Taviani era nota in casa mia ben prima che io arrivassi a conoscere 
Franco e Giovanna, i figli minori dell'Avvocato e della Signora Jolanda Brogi. 
Quando ci siamo conosciuti, studenti del Ginnasio-Liceo ‘Virgilio’ di Empoli, i 
figli maggiori, Vittorio e Paolo, erano già partiti per Roma. 

Se mi chiedo come e perché in casa mia si conoscesse la famiglia Taviani, la 
prima risposta è ovvia perché si trattava di una delle famiglie più eminenti di 
San Miniato. Per la quale, a dire il vero, noi avevamo una die interna: ovvero 
i racconti di mia zia, la maestra Aladina Fancelli che frequentava assiduamente 
la Direzione Didattica di San Miniato e ci informava sulla vita della città, al cui 
centro c'era molto spesso l’Avvocato Taviani. Ricordo solo vagamente altre figure 
sanminiatesi che rendevano vivi quei racconti: la maestra Paolina Neri, il geome- 
tra Benvenuti, la signorina Giacinta Fassetta, mentre la persona più 1: era 
senza dubbio, e da ogni punto di vista, il medico Ariberto Braschi che percorreva 
le campagne con la sua Balilla nera. Accanto a questi resoconti c'era un canale di- 
retto e di carattere amministrativo, perché lo zio dell’Avvocato, il ragioniere Vit- 
torio, amministrava gli affitti di alcune nostre proprietà. Con Giovanna e Franco 
avevamo molte amicizie comuni tant'è vero che quando i nostri padri morirono 
e per puro caso i funerali furono lo stesso giorno nel giugno del 1974, ci fu un 
grande andirivieni di persone amiche tra La Catena e San Miniato, e molti erano 
incerti a quale cerimonia partecipare. Di questa singolare coincidenza abbiamo 
più volte affettuosamente sorriso con Giovanna. 

Ripensando con l'occasione il mio rapporto con la famiglia Taviani, devo dire 
che io l’ho vissuto dalla prospettiva di un borgo di pianura e di un territorio che, 
tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, era ancora tutto agricolo, mentre si 
profilava ormai come inevitabile il passaggio del potere economico dalla piccola 
nobiltà di campagna a quello della nascente imprenditoria di pianura. Erano anni 
in cui le uniche industrie vicine erano quelle di Ponte a Egola (a Santa Croce 
esistevano da fine Ottocento), dove le conce nascevano dentro le case e le pelli si 
asciugavano in soffitta, e più tardi si passavano ai ciabattini di Cigoli e a Castel- 
franco per farne fare suola, giunte e scarpe. La legge Merli sarebbe venuta una 
ventina di anni dopo, nel 1976, a portare un po’ ordine e a separare la casa dalla 
concia. Ma nella disordinata urbanistica della frazione di Ponte a Egola questa 
interessante fase della storia industriale è ancora oggi leggibile nelle parti alte di 
numerose abitazioni. 

Vista dalla pianura, negli anni del dopoguerra, San Miniato era la città delle 
tasse, dei preti, del vescovo e del seminario, della pretura, della piccola nobiltà di 
campagna e della Direzione Didattica; quest'ultima una vera costruzione kafkia- 


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Maria Fancelli 


na cui facevano capo tutte le maestre del Comune. Naturalmente San Miniato 
era anche la città scuola e aveva ancora un primato di cultura e di storia che nes- 
suno si sognava di contestare. A questa San Miniato abitata da ceti impiegatizi 
e riflessivi, apparteneva, in posizione centrale, la numerosa famiglia Taviani cir- 
condata da un alone di grande rispetto. L'Avvocato Ermanno, la signora Jolanda 
maestra, i figli Maria Grazia Vittorio Paolo Giovanna e Franco. 

L'incontro con Giovanna e Franco sull’autobus che ci portava a Empoli fu 
in realtà un fatto tutto nostro, indipendente dalle nostre famiglie e dall’aura che 
circondava l’Avvocato. Molti sono i ricordi di quel periodo. Per lo più riguardano 
Giovanna di cui divenni amica e con la quale c'è stato a lungo un filo più dura- 
turo. La vita cambia e si evolve per tutti, ma feci in tempo a conoscere anche suo 
marito, l'ottimo scenografo Gianni Sbarra. Il cui compleanno fu festeggiato sul 
set di Villa Saletta alla presenza di Isabelle Huppert già in abito di velluto verde 
e nelle vesti di Charlotte, la protagonista de Le affinità elettive. La torta di com- 
pleanno era singolare: aveva la forma di una grande matita appuntita ed era stata 
disegnata probabilmente proprio dallo stesso Gianni. Con Giovanna seguimmo 
anche la scena del ‘La Notte di San Lorenzo’ in Piazza Buonaparte a San Minia- 
to, quella che i due registi fecero ripetere più volte per l'incapacità dell’attore di 
pronunciare una breve battuta con il corretto accento toscano. 

Ma non voglio andare oltre nella catena di ricordi che il libro di Franco a San 
Miniato ha messo in moto. Il fatto che lui abbia aggiunto in seguito al cognome 
Taviani anche quello della madre Brogi ha un significato evidente che me lo ren- 
de ancora più caro, appartenendo la madre a una comunità di pianura, la Scala 
appunto. I Brogi della Scala erano numerosi, basta pensare che al cimitero ci sono 
tre cappelle con questo nome. Dal momento che anche noi Fancelli eravamo 
imparentati con i Brogi (zia Ilide aveva sposato Emilio Brogi), mi pare quasi che 
si possa aggiungere un altro sottile filo ai molti che ci legano. 

Com'era Franco al tempo del liceo? Capelli folti, neri come la pece, lisci, 
piuttosto disordinati; dominante nelle discussioni, eloquio fluente e torrentizio, 
parlava animatamente con tutti ma guardava da sempre oltre l'orizzonte del per- 
corso San Miniato-Empoli e ritorno. AI Liceo sarebbe rimasto un triennio, dal 
‘57 al ‘60, come risulta dall’Annuario dell'Istituto Liceo classico Virgilio (Empo- 
li, Caparrini 1972); la maturità, come tutti quelli del Virgilio, Franco l’ha fatta a 
Firenze a Liceo Galileo. 

Ma il ricordo più intenso di Franco è fuori dal liceo Virgilio: è il ragazzo che 
faceva parte di un sodalizio indivisibile: Franco, Pier Luigi Manetti e Giorgio 
Giolli, tutti abitatori dello Scida. Sono portata a pensare che nel romanzo di 
Franco ci sia una sorta di ritratto involontario di Pier Luigi sia pur dietro ad 
alterazioni, camuffamenti e contaminazioni; un ritratto sullo sfondo lontano di 
un’altra san Miniato, quella dei ceti medi poveri, come era il padre fornaio di Pier 
Luigi. In ogni caso nel libro emerge bene un lungo sodalizio d’arte e di amicizie, 
il mondo delle immagini e della pittura, della rappresentazione visiva del mondo. 
Il triangolo degli artisti Franco Pier Luigi Manetti e Giorgio Giolli potrebbe es- 
sere visto in vari passaggi del libro da chi li ha conosciuti in quegli anni. In ogni 
caso l’arte figurativa e la storia dell’arte hanno una parte i nel romanzo, 
con racconti a latere molto suggestivi come l’episodio della ricerca della Madon- 
na del parto di Piero della Francesca. 

Dopo la maturità Franco partì subito per Roma, l’eldorado del cinema italia- 


10 


Il margine al romanzo Le Ricorrenze di Franco Brogi Taviani 


no nella sua fase più gloriosa. Più tardi sarebbe partito anche Pier Luigi Manetti 
e nessuno dei due sarebbe più tornato. Ho poi rivisto Franco a Roma, qualche 
volta a l’Eau vive, un ristorante gestito da suore di Capoverde; lì ci siamo visti 
qualche volta insieme a Giovanna che lavorava non lontano, alla Fondazione 
Lelio Basso. Poi le vicende della vita, i reciproci spostamenti e viaggi hanno fatto 
sì che i nostri contatti rallentassero fatalmente. Ma il filo non si interruppe mai, 
anche quello attraverso gli amici rimasti tra i quali Giorgio Giolli, Gianni Taviani 
e una compagna di liceo, Luisella Cerrai. Ho rivisto Franco tanti anni dopo a un 
cinema che forse era il Portico a Firenze quando fu rappresentato un suo bellis- 
simo documentario sull’Africa, Forse Dio è malato, al quale portai con me anche 
Francesco e Giovanna Gurrieri. Del documentario ricordo le immense discari- 
che, ma anche il doloroso splendore delle rovine coloniali, la vita che continuava 
nelle condizioni più umilianti. Anche di questa esperienza africana ci sono a mio 
parere molti riflessi nel libro e precisamente nel capitolo decimo. 

Fatte queste lunghe premesse, si capirà perché sa letto il romanzo di Franco 
scrutando ogni riga alla ricerca di persone, episodi, oggetti e fatti reali. Senz'altro 
il modo più sbagliato di leggere un libro, ma l’ho fatto quasi sapendo di sbagliare 
e abbandonandomi in un certo senso all’errore. Sapendo di Lal fino a un 
certo punto, perché oggi anche la critica più conservatrice ammette da tempo - 
basta pensare a Umberto Eco e al suo Lector in fabula - che i libri esistono nella 
molteplicità delle letture possibili, che sono organismi mutanti, e che il lettore 
ha la capacità e la libertà di mutarli, e quasi di lan a seconda dei gradi di 
lettura, un secondo autore. Ho letto di recente che Giovanni Gentile, nel lontano 
14 novembre 1914, in occasione della sua prolusione a Pisa L'esperienza pura e la 
realtà storica sorprese i presenti affermando che «la Divina Commedia, nella cui 
lettura ci esaltiamo, non è quella scritta sette secoli fa, ma quella che scriviamo 
noi leggendola». 

Con la presunzione dunque di una lettrice che pensa di poter leggere in libertà 
e perfino di poter trasformare le pagine che legge, vengo finalmente al romanzo di 
Franco Brogi Taviani, intitolato Le Ricorrenze. Un titolo molto felice, originale, 
semplice rispetto alla complessità della storia narrata; esplicativo, dichiara diret- 
tamente l’oggetto del narrare. 

Mi sono trovata davanti un libro che non lusinga il lettore e non ricorre ad 
artifici di benevolenza e di seduzione. Che ha anche una costruzione molto ela- 
borata, elementi autobiografici di autofiction, elementi storici di una possibile 
saga dinastica, alcuni elementi di scrittura e di immaginazione filmica quali, ad 
esempio, il tempo costantemente al presente. Non è un libro qualunque, non 
assomiglia ai molti romanzi che circolano oggi nel tempo del computer, né alle 
nuove saghe. Somiglia forse piuttosto al genere del romanzo di formazione, ma 
mentre il cosiddetto romanzo di formazione accompagna un eroe dall’uscita dalla 
casa paterna fino alle soglie della società, questo, accompagnando il protagonista 
dagli inizi alla morte, si configura piuttosto come la storia integrale della vita di 
un uomo. L'elemento unificante (non solo sul piano formale) sono appunto le 
ricorrenze: ricorrenze pubbliche e private, feste religiose e feste laiche, attorno 
alle quali si costruiscono e si dipanano grandi e piccoli eventi, passioni, amori, 
nascite, spezzoni e fasi della vita professionale del protagonista. Non può sfuggire 
a nessuno il senso di questa scelta da parte dell’autore, quella cioè di ripensare 
la propria vita secondo gli eventi rituali della vasta di non può sfuggire il 


11 


Maria Fancelli 


senso stesso della ritualità, l’idea del tempo scandito dalle feste e dalle riunioni 
di famiglia, come meccanismo che frena e ferma il gorgo inesorabile della vita e 
del vivente. C'è un'idea del tempo che ritorna e che si intreccia con lo spazio e 
con la stanzialità. In realtà sulle date storiche ogni tanto mi pare ci sia qualche 
incongruenza, in ogni caso c'è un continuo trapasso dal tempo storico che sem- 
bra dominante verso il tempo ciclico e qualche volta anche verso il tempo mitico 
del ricordo. 

Il protagonista si chiama Gugliemo Aspesi, figlio minore dell’eminente inge- 
gnere Aldemaro Aspesi che vive in una cittadina che è, sempre secondo la mia 
ottica, piuttosto somigliante a San Miniato. I nomi Guglielmo e Aldemaro sono, 
in singolare continuità, gli stessi dei protagonisti nel romanzo di esordio dell’au- 
tore // tesoro. Case iii e persone delle vicende narrate ne Le ricorrenze, sono 
naturalmente dislocate e rese irriconoscibili. Nonostante i camuffamenti credo di 
avervi rivisto tracce infinitesimali di abitudini e di avere sentito risuonare nomi a 
me noti: le feste in casa, una famiglia Nardini, la serva dei conti Briccoli, il con- 
vento di Santa Chiara, Don Nello, il campanone. Di Aldo Vacca ovvero di quel 
a che potrebbe avere inconsapevoli tratti di Pier Luigi Manetti ho già 

atto cenno. 

Nel quadro familiare, mi sembra molto importante il rapporto tra fratello e 
sorella, qui Tecla e Guglielmo. Il protagonista mi sembra una figura multipla che 
ingloba varie persone a cominciare dal padre senza dubbio dominante. La sua 
intensa vita attraversa esperienze professionali, politiche ed umane molto diverse. 
Guglielmo Aspesi è un uomo antico e moderno; di antico ci sono le pulsioni, gli 
amori e le scoperte adolescenziali, c'è un episodio cronologicamente i... 
della guerra partigiana, quindi una temporanea avventura politica come consi- 
gliere provinciale; ex- docente di storia dell’arte a un certo punto è inserito in una 
grande azienda di comunicazione, all’interno della quale compie una interessante 
missione e trasferta in Africa. Con un'apertura sul colonialismo che ricorda il già 
citato reportage del 2007. 

Nella sua vita sentimentale ci sono varie relazioni femminili, alcune burrasco- 
se, ci sono una figlia e un figlio amatissimi, ci sono molte relazioni sociali. C'è 
nelle sue esperienze amorose e di vita una visione a mio parere prevalentemente 
maschile e patriarcale. Tuttavia Guglielmo non è solo un uomo antico ma a suo 
modo anche un contemporaneo del proprio tempo. La sua è una personalità 
complessa, piuttosto sofisticata e per certi aspetti fragile: ha sperimentato qualche 
spinello, conosce la psicanalisi, ha letto Freud e soprattutto Lacan, conosce l’arte 
moderna e i maestri dell’arte pop. Formato sulla storia dell’arte insegue capola- 
vori dispersi come la Madonna del parto di Piero della Francesca. La capacità di 
analisi introspettiva mi fa pensare, ma è forse un’altra connessione impropria, al 
lungometraggio che Franco Brogi Taviani aveva girato nel 1980 su Wanda von 
Sacher- Masoch. 

Ma la vera sorpresa per me è stata la componente tedesca del mondo di Gu- 
gliemo/Franco. Non solo i nomi dichiarati: Heine Goethe Heidegger Diirer, ma 
anche i versi e le numerose citazioni in tedesco. Una figura non minore del ro- 
manzo, una potente temuta manager con tre segretarie, è tedesca e porta il nome 
un po arcaicizzante di Hildegunde. Soprattutto mi ha colpito che il romanzo 
cominci e finisca con una nota favola dei Grimm Der goldene Schliissel (La chiave 
d'oro) che si pone probabilmente anche come chiave dell'intero romanzo. I fratel- 


12 


Il margine al romanzo Le Ricorrenze di Franco Brogi Taviani 


li Jacob e Wilhelm Grimm la collocarono alla fine della raccolta di fiabe, anche 
loro con l’intenzione di dare un finale aperto. 

Che cosa ci racconta l’ultima fiaba dei Kinder- und Hausmdrchen? Ci raccon- 
ta di un ragazzo povero che in un gelidissimo giorno d’inverno esce di casa per 
cercare un po di legna per scaldarsi. La trova. Ma alla fine le sue mani sono così 
fredde che deve accendersi un fuoco; il fuoco scioglie la neve e sul terreno brilla 
di colpo una piccola chiave d’oro. Il ragazzo scava ancora un po’ finché appare 
una cassettina, con la chiave cerca la serratura, funziona, lo scrigno si apre. Ma 
i Grimm non ci raccontano che cosa vede il ragazzo, che cosa c'è nello scrigno, 
lasciando il lettore libero di pensare al contenuto. 

Nel romanzo Le ricorrenze una piccola chiave d’oro viene deposta nel luogo in 
cui sono disperse le ceneri del protagonista, e sotto al cumulo di sassi che copre 
la sepoltura del cane di nome Scrigno. Qui la chiave d’oro è più vicina alla terra, 
al nulla e alla finitudine rispetto alla chiave del racconto dei Grimm che non si 
apre sul mistero. 

Franco Brogi Taviani è tornato a San Miniato per la presentazione di questo 
romanzo. Un'opera che ci dà la misura del suo spessore umano, intellettuale ed 
artistico, che sigilla un'attività di narratore cominciata con // tesoro (Marsilio, 
Venezia 2005) e continuata con Porte segrete (Gremese, Roma 2015). Per questo 
romanzo che corona una vita ricca di esperienze, che parla di noi tutti, della vita, 
di tante vite, che tocca e sfiora i temi ultimi, per questa sua chiave d’oro che riluce 
anche sul nostro limite, mi sento di esprimere l’auspicio che l’attività di Franco 
Brogi Taviani scrittore possa venire ricostruita nella sua totalità e studiata con 
adeguati strumenti critici; in particolare che possa essere ripensata come parte 
viva e integrante del lavoro registico che evidentemente si è sempre nutrito di 
passione narrativa e di un lungo esercizio di scrittura. 


13 


L'ombra di Anna 


ANGELO FABRIZI 


È appena uscito di Anna Braschi, Stridono piccole voci. Versi leggeri dell’ultim'o- 
ra, Prefazione di Ernestina Pellegrini, San Miniato (Pi), La conchiglia di Santia- 
go, 2022, pp. 208, raccolta di poesie. 

Dopo L Prefazione di Ernestina Pellegrini, // diario in versi di Anna Braschi 
(pp. 5-10) la raccolta ha tre sezioni: Amici (pp. [11]-80), Cavoli Bollecaldaie (pp. 
[81]-97), San Miniato (pp. [99]-145), Storie, pensieri, affetti, gioie e dolori (pp. 
[147]-197). Chiude il La una breve biografia di Anna Braschi, dovuta ad 
A[ndrea] M[ancini]. 

Le poesie si situano negli anni cha vanno dal 2006 al 2021. Esse sono popo- 
late da amici, amiche, luoghi e paesaggi amati, ricordi e incanti di ieri e di oggi. 

Sintetizzando si potrebbe dire che Anna pensa, sente, soffre. Anna avverte 
tutta la bellezza e il mirabile manifestarsi del vivere, il suo fascino lacerante, con- 
templa come sbigottita il suo misterioso affievolirsi, svanire, il perdersi di tutto. 
Cosa resta? Risponde con ostinazione Anna: la freschezza degli affetti. La vecchia- 
ia è respinta dalla volontà di durare giovani eternamente. Lei sa che il tempo è 
inarrestabile. Al tempo oppone l’eterna bellezza della natura. La morte non è mai 
nominata. Chi ne è colpito lascia «un segno profondo / di accettazione e fiducia». 

Una sua eroina è la indimenticabile Clorinda tassiana «pronta a dar battaglia». 
O Maddalena «dalla parola / che non risparmiava». O la Nena, per «L'eterna gio- 
vinezza» del suo cuore. Il bilancio del vivere certo è un «gramo intreccio» e con- 
statarlo è una «deprimente litania». Il sogno nascosto di Anna: essere «La regina 
del mare», ricca «di ricordi / di sogni e di dolcezze assaporate». Cos'è la vita? Una 
valigia piena d’allegria, ricordi, speranze, sogni. L'importante è rimanere sempre 
le stesse ora e sempre, soddisfatte «di una vita trascorsa in dolce compagnia». E 
rivedersi, sia pure per dirsi ogni volta addio. L'estate è il regno delle fate: di ieri, 
di oggi, di sempre. Esse custodiscono la memoria della felicità. 

La felicità è il tema della raccolta: felicità raggiunta, felicità scomparsa, felicità 
come dovere. E la vita è un arbusto frondoso, ma ripieno di un succo meraviglio- 
so. La felicità è giovinezza: passo sciolto, capelli al vento, pelle luminosa. La feli- 
cità è il mare, gli scogli, le onde, i rari fiori di spiaggia, il sole lucente, la corrente, 
nuotare insieme. E il mondo dell’infanzia a San Miniato: sentieri, piazze, brusii 
mattutini, prati, alberi, stelle, la nonna, le rondini, voci di acqua e di giunchi. 
San Miniato è «bello e ostile», ma è sempre lo stesso, dominato dall’alta rocca, 
immerso nel verde. 

Un certo pessimismo sulla San Miniato moderna: «si studia molto senza fare 
niente, / grandi discorsi solo da una parte, / se fai qualcosa e te la paghi anche, / 
dai comunque un fastidio sconvolgente». Alcune poesie di Anna evocano il suo 
lavoro di cura e riscoperta degli antichi vicoli di San Miniato. Ai nipoti è dedicata 


15 


Angelo Fabrizi 


l’ultima parte della raccolta. Belli i consigli che Anna dà loro: «Cammina diritto 
fischiettando, / guarda il cielo, pensa con la tua testa». Si affaccia come un lampo 
minaccioso la coscienza della propria caducità: «della vita / che si spezza in due, / 
poca ne resta». Ma c'è la libertà, l'attesa: come un profumo. I problemi del mon- 
do moderno, le gigantesche migrazioni di popoli. 

Anna si sente in colpa per l'esclusione sociale cui sono condannati i migranti. 
Ma bisogna «Trovare con fatica / una strada comune / che ci porti, forse chi sa, 
/ soltanto un poco avanti». La sua vita è «una disperata sfida, / contro il tempo e 
l'ignoto», il non voler cedere a nulla. Anzi la sua natura la porta a perdere le staffe 
(come spesso fanno le fiere donne toscane). Anna non ama il lamento, l'eterno 
brontolare di tanti, anche se è faticoso vivere «pieni di colpe / privi di speranze». 
Forse un giorno i nostri discendenti si stupiranno della nostra indifferenza a tanto 
dolore, a tanti morti, a tante stragi in mare. Ma gli errori che si fanno nella vita 
si rifarebbero uguali se potessimo rivivere. 

E «Ci stiamo riducendo a degli schiavi». Schiavi di che? Del progresso che ci 
circonda e controlla e soffoca? Troppo pessimista qui Anna. E rimpianti: per ciò 
che poteva essere e non è stato. Ma in fine: ricordi e tenerezze passate non devono 
impedire di volare ancora, di vivere assaporando felicità possibili sempre. Anna, 
dicevo, pensa, sente, soffre. E tutta la raccolta è un inno alla vita felice a contatto 
col mare: non c'è altro, il resto è contorno. 

Un contorno affollato: di amici, di amiche, di nipoti, di sirene, di fate, di far- 
falle, di antiche vie e angoli di una città magica quale è San Miniato, di studioso 
raccoglimento, di ricordi. Questo volume ha una sua bellezza, leggerlo fa bene, 
così arioso, ameno, solare, luminoso. Ci sono anche le ombre, a cominciare da 
quella della foto di copertina, che ritrae l'ombra di Anna, che il sole stampa sulla 
terra, un'ombra che ci guarda, un'ombra pronta a svanire, un'ombra appunto. 


16 


Un medaglione per don Nello Micheletti presidente 
dell’Accademia degli Euteleti e tra i fondatori 
dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato 


MARZIO GABBANINI 


Non è facile realizzare in poche pagine un medaglione biografico su don Nello 
Micheletti (Fucecchio 1894 — San Miniato 1969), per varie ragioni che vorrei 
enucleare sin dall'inizio. Innanzitutto perché di don Nello Micheletti si sono 
perse quasi tutte le tracce archivistiche. Dei numerosi impegni e incarichi che 
egli rivestì, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, ci restano pochissime 
testimonianze “di suo pugno”. La strada potrebbe essere quindi quella di raccon- 
tare l’esperienza umana di don Nello, attraverso il ricordo personale, ancora vivo, 
del tempo trascorso a San Miniato Basso. Questa strada ha il rischio di scendere 
nell’intimo ma al contempo può restituire un punto di vista sulla persona davve- 
ro autentico perché derivante dall'esperienza personale. 

I motivi per parlare di don Nello Micheletti sono svariati. Innanzitutto per- 
ché egli è stato uno dei fondatori dell’associazione Istituto del Dramma Popolare 
nel lontano 1947. L'attuale Fondazione IDP, che ho l’onore di guidare -e che è 
intimamente connessa all'Accademia degli Euteleti di San Miniato in quanto sin 
dall’inizio gli accademici dichiararono il totale appoggio verso le iniziative del 
“Teatro sanminiatese dello Spirito” - ha avuto proprio tra i suoi primi promotori 
il sacerdote di San Miniato Basso, e oggi la Fondazione, sul solco della tradizione 
degli inizi, persegue gli stessi obiettivi che don Nello Micheletti insieme ad altri 
Euteleti come l’avvocato Giuseppe Gazzini e Dilvo Lotti, e la professoressa Laura 
Mori, avevano indicato nell’atto costitutivo all'articolo 3: 

L'Istituto del Dramma aa si propone, soprattutto, in relazione all'ormai 
tradizionale Festa del Teatro che ha luogo in San Miniato in onore di San Genesio, di 
riprendere e far rivivere la tradizione si sacre Sa del Medio Evo, non 
già attraverso semplici esumazioni o ricostruzioni di testi dell’epoca, ma creando una 
“Sacra Rappresentazione” che appaia tale per il popolo di oggi con i suoi problemi di 
oggi, e, quindi, nuova nel senso più ampio della parola, sia come spirito informatore, 
sia come tecnica di realizzazione. 

In secondo luogo mi pare opportuno parlare di un sacerdote che ha fatto par- 
te dell’Accademia degli Euteleti in un momento particolare della storia italiana, 
quella della ricostruzione successiva al secondo conflitto mondiale, vissuta a San 
Miniato con particolare energia ed entusiasmo dopo i lutti e le distruzioni. Al 
sacerdote di San Miniato Basso era stata infatti affidata la ripartenza dell’Accade- 


1 Inventario dell'archivio storico della Fondazione Istituto del Dramma Popolare (d’ora in poi 


ASFIDP), a cura di A. di Bartolo, Fondazione IDPSM, San Miniato 2022: A.I.1, fascicolo 1.1 


17 


Marzio Gabbanini 


mia dopo la sosta forzata dovuta al secondo conflitto mondiale. Don Nello guidò 
l'Accademia, prima come commissario straordinario e poi come Presidente fino 
al 1967. Nel 2022, anno giubilare della più antica società scientifico letteraria di 
San Miniato, uno schizzo biografico su un sacerdote che è stato per vent'anni alla 
guida degli Euteleti, può apportare quindi un piccolo contributo anche alla storia 
di questo ente culturale che compie duecento anni. 

Sfogliando l’archivio storico della Fondazione Istituto del Dramma Popolare, 
in particolare la serie Statuti e documenti fondativi, Organi amministrativi, Elen- 
chi di soci e Carteggio generale, la figura e il ruolo di ; Micheletti sono quasi 
nascosti. Lui, che era stato tra i promotori, sembra quasi rifuggire il palcoscenico 
e stare invece “dietro le quinte” dei primi anni di vita associativa e organizzativa. 
Don Micheletti è presente nel Direttivo del Dramma a partire già dalla prima 
manifestazione del luglio 1947 con l'avvocato Giuseppe Gazzini, il pittore Dilvo 
Lotti, il maestro Giovanni Bagagli e il professor Concilio Salvadori (vedi foto do- 
cumento 1). Nel 1949 inizierà infatti a collaborare un altro sacerdote, don Gian- 
carlo Ruggini, che invece vivrà le vicende del Dramma in prima persona curan- 
do rapporti epistolari con autori, registi e istituzioni, e incidendo notevolmente 
come direttore artistico nella scelta dei testi del comitato di lettura.* Due anni 
dopo, in un elenco dettagliato dei collaboratori dell’associazione, con la specifica 
dei vari ruoli, don Micheletti appare come “consigliere” (vedi foto documento 2), 
mentre nell’organizzazione interna dell'Istituto, a tre anni dalla nascita, il nome 
del sacerdote è affiancato a don Ruggini e ai coniugi Gazzini nella Direzione (vedi 
foto documento 3). Ufficialmente rn nel Consiglio Direttivo era avvenuto 
solo il 21 agosto del 1950, per effetto delle dimissioni dell'avvocato Giovanni 
Manetti, sostituito all'unanimità con il sacerdote fucecchiese domiciliato nella 
frazione di San Miniato Basso.? 

L'impegno civico di quegli anni è molto incisivo. Don Micheletti è infatti 
chiamato a collaborare come assessore al personale nella prima giunta comunale 
dopo la liberazione di San Miniato. Si trattava di un incarico ana per il qua- 
le era stato necessario un permesso dell’Ordinario. Era stata la prima volta, ed è 
tuttora l’unica, che un membro del clero sanminiatese ricopriva una carica pub- 
blica. Ma il suo nome ricorre spesso anche in altre pratiche come quelle relative 
alla nascita della Pro Loco o nell’organizzazione del Comitato per la ricostruzione 
della Rocca. Spirito libero e coscienzioso durante il Ventennio fascista mostrò 
spesso atteggiamenti contrari al regime, a tal punto da essere sospeso dalla dire- 
zione dell’organo ufficiale della Diocesi, il settimanale La Domenica, che aveva 
fondato nel 1937 con il sacerdote Pietro Stacchini. Non mancò di esternare le 
proprie critiche anche con il locale Partito comunista contro il quale condusse 


2 Idocumenti citati e riprodotti fanno riferimento alla collocazione nell'inventario dell’archivio 


disponibile nella sede dell’Istituto e presto on-line nel nuovo sito internet in fase di costruzione. 

3. L'attore Gianni Lotti, in una lettera del 17 agosto 1976 diretta ad Aldredo Merlini, non indica 
invece il nome del sacerdote sanminiatese tra coloro che per primi si riunirono nella sua abitazione. Cfr. 
Dramma popolare. Nuovi spazi cristiani, «Quaderno 1/1980», Istituto del Dramma Popolare 1980, p. 21. 

4 A far entrare don Ruggini nel Dramma Popolare era stato proprio don Micheletti, come ben 
spiega Laura Baldini nel suo volume // Dramma Popolare di San Miniato. Le ragioni della speranza. Fon- 
dazione Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, San Miniato 2013, p. 36. 

© ASFIDP, A.IL.1, Libro verbali del Consiglio. 


18 


Un medaglione per don Nello Micheletti presidente dell’Accademia degli Euteleti 
e tra i fondatori dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato 


aspre polemiche sempre dalla colonne della Domenica, alla cui direzione era stato 
richiamato nell’immediato dopoguerra.‘ 

Nel triennio iniziale delle attività del Dramma popolare, insieme a tutti gli 
incarichi pubblici che abbiamo ricordato, don Nello Micheletti è impegnato in 
molti fronti, il primo dei quali è certamente quello parrocchiale. Dal 1926 era 
infatti titolare del beneficio parrocchiale dei Santi Martino e Stefano a San Mi- 
niato Basso, dopo che era stato cappellano nella pieve di Cigoli e nella parrocchia 
di Ponsacco. Il suo percorso ecclesiastico lo aveva portato a ricevere la “sacra ton- 
sura” il 20 marzo del 1920 per mano del cardinal Alfonso Mistrangelo a Firenze, 
poi l’Ostiariato e il Lettorato il 29 maggio dello stesso anno. Il Rettore del Semi- 
nario arcivescovile fiorentino, dove don Micheletti si era iscritto al ritorno dalla 
prima guerra mondiale, aveva potuto attestare “in fede” che “il Chierico Nello 
Micheletti di Luigi della Diocesi di S. Miniato, alunno di questo seminario, ha 
continuato anche dopo il ricevimento della S. Tonsura a tener sempre lodevolis- 
sima condotta, frequenza agli esercizi di pietà, e mostrar sempre venerazione allo 
Stato Ecclesiastico””. Di conseguenza il giovane chierico era descritto dai suoi ret- 
tori come ragazzo di buone promesse e meritevole di ricevere gli ordini superiori. 
Il 18 luglio da 1920 aveva ricevuto il grado dell’Esorcistato e quello dell’Accoli- 
tato. L’ordinazione sacerdotale, ultima tappa del percorso sacerdotale che fino al 
Concilio Vaticano II si divideva ancora tra “ordini minori” e “ordini maggiori”, 
era avvenuta il 31 ottobre del 1920, sempre a Firenze, dove studiava. Pochi anni 
dopo arriverà la nomina a parroco di San Miniato Basso in un periodo particolare 
per la storia della comunità che verrà riconosciuta come frazione. All’impegno 
parrocchiale don Micheletti aveva affiancato quello di insegnante, dapprima di 
italiano e latino presso l’Istituto Magistrale di Montopoli, poi nel Seminario ve- 
scovile di San Miniato, e infine l'insegnamento di religione alle magistrali di San 
Miniato. “Dantista e latinista di pregio” — come Li Laura Baldini — non era 
passato inosservata la sua preparazione culturale, tanto che al termine del secon- 
do conflitto mondiale era stato nominato alla guida dell’Accademia degli Euteleti 
di cui già faceva parte come socio ordinario dal 1930. 

Nell’Accademia degli Euteleti il ruolo di don Micheletti, di pari passo con 

uello al Dramma Popolare, è ancora più incisivo. A lui viene affidata la ripresa 
delle attività, prima come presidente provvisorio poi come effettivo fino al 1967. 
All’interno degli Euteleti la sua attività si concentra soprattutto nella collabora- 
zione alla redazione del Bollettino, nel quale compare per tre volte come autore, 
con un articolo sul numero 24 del 1947 dal titolo Ne/ / centenario della morte 
del poeta Pietro Bagnoli, e le presentazioni dei bollettini 33 e 34 degli anni 1961 
e 1962. Come Presidente dell’Accademia era stato lui a conferire all’illustre filo- 
sofo Maritain, Ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, il diploma di socio 
onorario in occasione della prima rappresentazione assoluta che si svolgeva in 


È Cfr. R. BOLDRINI (a cura di ), Dizionario biografico dei sanminiatesi (secoli X-XX), Pacini 
Editore, Pisa 2001, p. 196 ad vocem. 

7. ASDSM, Sacre ordinazioni, 1920, fascicolo don Nello Micheletti, carte non numerate. Si 
ringrazia il dott. Di Bartolo Alexander per aver fornito le notizie ecclesiastiche su don Nello Micheletti 
dai documenti d’archivio diocesano. 

8 Cfr. Il Dramma Popolare di San Miniato. Le ragioni della speranza, cit., p. 36. 


19 


Marzio Gabbanini 


San Miniato? de La maschera e la grazia di Henri Gheon. Il momento delle sue 
dimissioni sono considerate un vero e proprio “scossone” per l'Accademia, come 


si evince dal Bo//ettino del 1968 (n. 40): 


Dopo tanti anni, quasi venti, il Can. Prof. Don Nello Micheletti ha lasciato 
la Presidenza dell’Accademia! Contro la sua ferma decisione si sono spuntante 
tutte le buone ragioni, che indistintamente da ogni parte sono state apportate per 
indurlo a recedere dal suo proposito. Superfluo quindi dichiarare che il generale 
rammarico è stato profondamente vivo, è facile intuirlo, ma noi vorremmo che 
ogni nostra affermazione fosse svuotata di ogni retorica, sia quando ricordiamo 
che Don Micheletti (ci scusiamo l'appellativo più familiare) fu il Presidente Com- 
missionario della ripresa dopo la sosta bellica, sia quando pensiamo che a Don 
Micheletti Presidente sono legati, fra tante altre cose, l’atto di nascita dell’Istituto 
del Dramma Popolare, e la nuova serie dei Bollettini. Non sarà facile esprimere 
adeguata gratitudine per quanto è legato alla sua attività pro Accademia. 

La rinuncia irrevocabile di don Micheletti aveva portato alle dimissioni in 
massa dell'intero consiglio accademico, rinnovato l’anno successivo con la presi- 
denza del professor Enrico Coturri, la vicepresidenza del ragionier Pietro Bertini 
e i consiglieri dottor Antonio Aquilini, l'avvocato Crescenzio Franci, il professor 
Dilvo Lotti, la nobil donna Emilia Morali-Stoia, la professoressa Anna Matteoli, 
la professoressa Elettra Rondoni Anhalt e lo stesso Micheletti. 

Nel 1969, la sera del 7 dicembre, veniva a mancare. A don Micheletti uomo e 
sacerdote nella San Miniato Basso che è stata luogo della mia infanzia vorrei quin- 
di dedicare alcune parole conclusive. Per chi -come lo scrivente- era cresciuto “al 
campino della parrocchia e all'ombra del campanile” la figura di don Micheletti, 
“il canonico Micheletti”, si erge oggi a grande riferimento culturale, che forse un 
tempo non comprendevamo appieno. Giovani, appassionati di sport e corse all’a- 
ria aperta, consideravamo la parrocchia come punto di riferimento fondamentale 
per lo svago ma anche per l'istruzione cristiana. Non posso dimenticare il sorriso, 
delineato in un volto austero, del canonico Michelenti quando rispondevamo 
correttamente a una delle domande che un tempo, a mo' di interrogazione, ci ve- 
nivano fatta “a dottrina”. Anche nel servizio sull'altare pretendeva da noi ragazzi 
la massima serietà e compostezza, ma non dimenticherò mai la sua commozione 
quando alle sei del mattino mi trovò, un giorno di primavera, già sulla soglia del 
portone ad attendere l’inizio della celebrazione nella quale avrei dovuto fare il 
chirichetto. Mi regalò un sorriso, quasi commosso della mia presenza, e mi invitò 
ad entrare in chiesa per ripararmi dalla frescura delle albe primaverili. Rivedo la 
sua commozione negli occhi, in quel viso austero ma con un cuore di vero padre, 
che soccorreva i bisognosi nella carità silenziosa. Ricordo le sue parole di oratore 
persuasivo e di di spessore culturale, sacerdote di schiettezza dei sentimenti 
e chiarezza espositiva come pochi altri. 


2 D. LOTTI, Istituto del Dramma Popolare 1947-2004. Sacralità del Teatro, in «Annali della Pon- 
tificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon», Città del Vaticano, Pontificia 
Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon Editrice, 2005, p. 163 


20 


Un medaglione per don Nello Micheletti presidente dell’Accademia degli Euteleti 
e tra i fondatori dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato 


Abbreviazioni Archivistiche 


ASFIDP = Archivio Storico Fondazione Istituto del Dramma Popolare 
ASDSM = Archivio Storico Diocesi di San Miniato 


Bibliografia minima 


BarpinI L., Il Dramma Popolare di San Miniato. Le ragioni della speranza. Fon- 
dazione Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, 2013, San Miniato. 

BoLprInI R. (a cura di), Dizionario biografico dei sanminiatesi (secoli X-XX), 
2001, Pacini Editore, Pisa. 

Dramma popolare. Nuovi spazi cristiani, «Quaderno 1/1980», Istituto del Dram- 
ma Popolare, San Miniato. 

Lotti D., Istituto del Dramma Popolare 1947-2004. Sacralità del Teatro, in «An- 
nali della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al 
Pantheon», 2005, Città del Vaticano, Pontificia Insigne Accademia di Belle 
Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon Editrice. 


21 


Marzio Gabbanini 


a 


MANIFESTAZIONE DI S,GENESIO IN SAN FA 
LUGLIO 1947 


ESECUTIVO Li GAZZINI Avv, Giuseppe 
i LOTTI Prof. Dilvo 
MICHELETTI Don Nello 
BAGAGLI Mo Giovanni 
4 SALVADORI « Prof .,Concilio 


INTERPRETAZIONE E REGIA = LOTTI Giovanni 


UFFICIO STAMPA = . SA To rassareno TARCIONI Nazzareno 
GIANNONI - Canco. Enrico 
MESSERINI Alessandro 
RONDONI Umberto 
CARBONCINI Rag. Wilfredo 
CATARCIONI Mario 


UFFICIO PROPAGANDA = BACCETTI Angelo 


UPPIBIO PINANZA 


LEPCRASE. Dr. Pietro 
GIUGNI dito 


inn tte 


Fig. 1: Manifestazione di S. Genesio in San Miniato/luglio 1947. Il terzo nome del gruppo esecutivo è 
quello del sacerdote sanminiatese. In ASFIDP, A.III.1, fasc. 1. 


22 


Un medaglione per don Nello Micheletti presidente dell’Accademia degli Euteleti 
e tra i fondatori dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato 


1144 
ELENOW DEI SOCI E BRGLI ADDETTI ALL'Istituto del Dramma Popolare 


________-_ 


1) MOri Marcello - addetto alla pubblicità e prop. 
2) Giannoni Rigoletto - addetto all'allestimento scenico, 
3) Petralli Franco - " " » 

4) Marrucci Marino - socio 

5) Bagagli Giovanni - socio 

6) Stefanini Mario - Tesoriere, 

7 | Rinsld$ Gastone - alla pubblicità, 

8) Gazzarrini Giuseppe + socio . % 


9) Rondoni Francesco - socio 
Llorgieri Bice - socio | 
Ì Enrico - Segretario 


sì coordinamento spettacolo. 


no! 


20) Gaetano o 
24) Mario Palagini-Socio bio ueni'e 


Cesare Cai-Socio adde 


32) Masoni Varo - socio addi 
33) Purleno - addetto alla si 
34) Gabtim Saverio 


Fig. 2: Elenco dei soci e degli addetti. Al numero 17 si legge il nome di don Nello Micheletti. In ASFIDB, 
A.III.1, fasc. 2. 


23 


Marzio Gabbanini 


| ORGANIZZAZIONE GRTERNA| DELL'ISTUTETO DEL Dana POPOLARE 
PER LE MANIFESTAZIONI de 1950 = 


| 


CONSIGLIO DIRRTTIVO 
Don Nello Micheletti + 


dii aneREto atetna ito” Odi 1 con part,rige are 
| Gianna pr E on part. rigua muto ca, 


tiene delle antorità, ica art. 


PUBBLICITA! TRASPORTI RS r1oS 
liaroello Meri — e Îlario Palagini Fetralli Ta a 
Stiffamatazialo e puMbi Raz 


Mario “atarcioni 
(diff.mmero unico, può. 
auparo unéco e locale) 


Fig. 3: Organizzazione interna dell'Istituto del Dina sun per le manifestazioni del 1950. Don 
Micheletti è il primo in elenco. In ASFIDP, A.II.1, fasc. 3 


Fig. 4: ritratto fotografico di don Micheletti nel 1960 circa 


24 


Omaggio ad Antonio Gamucci 


ANGELO FABRIZI 


Sono un lettore appassionato dei volumi del «Bollettino della Accademia degli 
Euteleti della città di San Miniato» usciti negli anni passati. Me li regalò mio suo- 
cero Angiolo Cheli. Li ho sempre tenuti vicini e a portata di mano. Me ne sono 
nutrito. Ho concepito stima grande per gli autori che vi hanno collaborato. La 
lettura e rilettura continua dei tantissimi preziosi loro contributi che contengo- 
no mi sono state motivo di arricchimento culturale e umano. Molti autori li ho 
conosciuti di persona, e ne ho un vivo e affettuoso ricordo. Voglio citare almeno 
gli indimenticabili saggi di Dilvo Lotti, Anna Matteoli, Lelio Mannari, Enrico 
Coturri, Antonio Gamucci, Aristodemo Viviani, Giancarlo Ruggini, Francesco 
M. Galli, Attilio Castelvecchi, Elettra Anhalt Rondoni e le poesie di Augusto 
Marrucci. Non che non abbia presenti i Bollettini degli ultimi anni, resi splendidi 
da valorosi studiosi. Il discorso sarebbe troppo lungo. 

Ma ora in particolare intendo esprimere la mia gratitudine ad Antonio Ga- 
mucci (2.1I.1921-18.XI.1972) (e aggiungo un saluto al figlio Renzo). Ho parlato 
poche volte con lui. Sempre mi colpì la sua gentilezza non affettata, la sua bontà 
naturale, la sua passione per la ricerca, la premurosa cura del suo lavoro si inse- 
gnante e poi di preside di Scuola Media!. 

Sembra di averlo ancora accanto a noi nel leggere le commemorazioni che ne 
fecero il 18 dicembre 1972 Enrico Coturri durante una seduta accademica, Gio- 
vanni Messerini il 27 novembre 1972 in una seduta del Consiglio Comunale, il 
ricordo anonimo che ne uscì su «La Domenica» del 26 novembre 1972, le parole 
di Dilvo Lotti. Vi si insisteva sulla bontà, sulla gentilezza, sulla disponibilità, sulla 
cultura, sull’impegno civico e religioso di Antonio Gamucci. 

La mia gratitudine si riferisce al suo saggio intitolato Giacobini e Conservatori 
a San Miniato nel 1799. Gamucci Rn da un fascicolo conservato in 
casa della famiglia Morali di San Miniato, le lettere che Filippo Morali diresse al 
fratello Niccolò in aprile, maggio, luglio, agosto, settembre 1799, e in dicembre 
1800. In esse Filippo raccontava che il 13 maggio 1799 furono presi in ostaggio 
dai francesi lui, il congiunto Giuseppe Morali (11835), Simone Caponi, il parro- 
co Antonio Migliorati (1742-1825). Filippo Morali apparteneva a una famiglia 
nobile di San Miniato. Nel 1786 aveva meno di trent'anni, e in un documento 
ufficiale è detto ignorante, di scarse risorse, dedito al divertimento e a far debiti. 
Non so fino a che punto debba considerarsi veritiero questo severissimo giudizio, 
espresso dal vicario regio Ranieri Tozzi. Lo stesso invece aveva parole iL per 
Simone Caponi*. Quanto all’ignoranza del Morali osservo che nelle nove lettere 


! Tutti pubblicati sul «Bollettino» n. 43, 1974, pp. [5]-16. 
2. «Bollettino della Accademia degli Euteleti della città di San Miniato», n. 42, marzo 1972, pp. [53]-105. 
3. Paolo Morelli, Aspetti dell'economia e della società di San Miniato durante il regno di Pietro Leo- 


25 


Angelo Fabrizi 


adr dal Gamucci egli si dimostra perfetto padrone della lingua italiana. Le 
ettere spirano avversione totale contro i francesi, contro la «democratico-mania» 
dilagante e contro i giacobini italiani. Non mancano nella disavventura momenti 
comici, che il Moni coglie divertito. Nel 1799 Filippo Morali doveva aver su- 
perato di poco i quarant'anni‘. Il Morali dà l'elenco degli ostaggi. Tra i fiorentini 
nomina due volte l’«abate Gavard» (lettera da Monaco del 29 luglio 1799). 

Questa notizia per me è stata oro. Perché ho scritto già due articoli sulla famiglia 
Gavard e su Carlo Emanuelle Gavard, amici fiorentini di Vittorio Alfieri. Ma la 
notizia del suo arresto non mi veniva da altre parti. In casa Gavard negli anni 1776- 
1777 fu costituita una scherzosa Accademia letteraria, di cui Alfieri fu segretario. 

L’«abate Gavard», nominato da Filippo Morali, era sicuramente Carlo Ema- 
nuelle Gavard (1751-1820), abate Gio vallombrosano dal 1767, figlio di 
Joseph Gavard des Pivets (Giuseppe Maria Gavard) (1730-1805), amministratore 
delle Finanze del granducato. Altri arrestati a Firenze furono il cav. Alessandri, Mar- 
ratti, Fabbracci, capitano Paur. Per ordine del generale Paul-Louis Gaultier de Ker- 
veguen (1737-1834), comandante militare della Toscana, furono portati a Livorno, 
e di qui per nave a Genova. Da Genova ripartirono per Nizza, Lu: arrivarono il 
20 maggio. Da Nizza andarono a Monaco. Qui il 22 luglio giunsero da San Mi- 
niato pg due ostaggi, il cav. Federigo Guglielmo Jackson (1737-1806) (livornese, 
discendente di consoli inglesi, ascritto alla nobiltà sanminiatese, dal 1768 abitante 
a San Miniato, oggetto anche lui, da parte del vicario regio Ranieri Tozzi, di un 
giudizio negativo)® e il barone Vincenzo de Cerrapico, console di Malta a Livorno 
e costretto dai francesi a stare San Miniato.” Il 30 luglio pervennero ad Antibo, poi 
all'isola di Santa Margherita, poi a Cannes. Il 25 agosto giunsero a Digione®. 

In appendice alle lettere Filippo Morali dà l'elenco degli ostaggi toscani se- 
condo È città di provenienza: Firenze, Pisa, Livorno, Prato, Pistoia, Pescia, San 
Miniato, Pietrasanta, Pontremoli, Siena, Lucca, Camaiore. Elenca poi gli ostaggi 
piemontesi, provenienti da Torino, Bra, Vercelli, Biella. 

Nell’elenco dei piemontesi trovo il marchese Carlo Amedeo di Valperga di Caluso 
brigadiere ed aiutante generale di cavalleria?, il conte Agostino Maillard de Tournon 
maggiore di cavalleria, il cavalier Arduino Tana brigadiere di cavalleria, comandante 
della città di Torino!°. Carlo Amedeo probabilmente è uno dei dieci figli di Amedeo 
Valperga conte di Masino, marchese di Caluso e di Albarey (1674-1744) e della con- 
tessa Emilia Doria di Dolceacqua (1710-1752). Sarebbe dunque fratello di Tomaso 
Valperga di Caluso (1737-1815), abate e dotto in ogni scienza e grande amico di 


poldo, in: San Miniato nel Settecento. Economia, Società, Arte, a cura di Paolo Morelli, Cassa di Risparmio 
di San Miniato / Pisa, Pacini, 2003, pp. [15]-45: 26-27. 

4 Ibidem. 

?. Gamucci cit., p. 87. 

© Vedi: Roberto Boldrini, La nobiltà di San Miniato nell'epoca delle riforme, in: San Miniato nel 
Settecento. Economia, Società, Arte cit., pp. [47]-105: 49, 69, 93, 104; Paolo Morelli, Aspetti dell’econo- 
mia e della società di San Miniato durante il regno di Pietro Leopoldo, ivi, p. 26. 

7. Ivi, p. 87. Vedi anche Dilvo Lotti, San Miniato. Vita di un'antica città, Cassa di Risparmio di 
San Miniato / Genova, Sagep Editrice, 1980, pp. 131-133. Gamucci lo nomina come baron Cerrapico, 
Lotti come marchese De Cerapico. 

8 Gamucci cit., pp. 71-99. 

° Ivi, p.97. 

10 Ivi, p. 98. 


26 


Omaggio ad Antonio Gamucci 


Alferi"!. Agostino Maillard de Tournon appartiene alla stirpe della madre di Alfieri, 
Monica Maillard de Tournon (1721-1792). Forse era figlio di un fratello di Monica. 
Lei ebbe tre sorelle e due fratelli. Padre di Agostino dovette essere Carlo Giuseppe 
Maria Antonio Agostino (1716-1778). In famiglia era viva la professione delle armi. 
Il padre di Monica, Vittorio Amedeo Maria Felice Maillard de Tournon o Vittorio 
Amedeo II (1685-1754) giunse ad essere luogotenente generale della Cavalleria'?. 

Arduino Tana (1748-1828), nato a Torino, amico in gioventù di Alfieri, giun- 
se al grado di maggiore generale". 

Il bello viene ora. Il 22 febbraio 2008 il grande amico e grande italianista di 
Milano Franco Longoni (1949-2014)!* mi spediva in regalo un opuscolo a stam- 
pa anonimo di 20 pagine, intitolato: Lettera / di un amico della patria / a un amico 
/ della religione / o sia / Lettera / di un fiorentino fuggito / dalla Francia. / A comune 
utilità / Non collocare le tue speranze negli Uomini, nei quali non vi è salute, nè 
pace. Beato sarai, se ti fiderai solo di Dio, e impetrerai opportunamente da Lui 
gli aiuti a’ tuoi bisogni. Salmo 145. V. 3.5., Firenze 1800. / Nella Stamperlia] da 

. Mar[ia] in Campo / Con Approvazione. Né Longoni né io trovammo allora 
l’autore dell’opuscolo. E in questi 14 anni trascorsi dal giorno del dono non ci 
avevo più pensato. Senonché da qualche tempo, come ho detto, mi sono messo 
a indagare sui Gavard, amici di Alfieri. Ho rivolto particolare attenzione a Carlo 
Emanuelle Gavard, autore di molti scritti. Notizie su di lui mi ha dato Torello 
Sala. E fornisce anche un elenco delle sue opere. 

Carlo Gavard entra nel 1767 nell’ordine vallombrosano e si guadagnò fama di 
letterato. Studiò in S. Trinita a Firenze e in Passignano sul Trasimeno. 

Do un elenco provvisorio delle sue opere: 

«Tempo di salute | opera / del molto reverendo padre / D.Carlo Emanuelle / 
Gavard / monaco Ladio vallombrosano / dedicata al merito singolarissimo / 
di Sua Eminenza Reverendissima / il Signor Cardinale / D. Andrea Giovannetti / 
degno Arcivescovo di Bologna / e gran Principe del Sacro Romano Impero. / Libro 
Primo [-e secondo]. / In Firenze MDCCLXXXII. / Nella stamperia di Giuseppe 
Tofani / all'insegna della Concezione. / Con licenza de’ Superiori.» (reperibile su 
internet). Nel vol. II p. 246 sono elencate «Opere composte da D[on] Clarlo] 
Glavard] La Ragion Custode delle Umane Azioni. Tomi II- Pratica di ben morire 
sull’esempio di Nostro Signore. Tomi I. Trattenimento Utile. Tomi V». 

Nel gennaio 1786 viene rappresenta con successo a Vienna la sua tragicom- 
media Le furie del re Saulle, o sia il Trionfo dell'Amicizia nelle Persone di David, e 
Gionata. 


!! Vedi Il diario di Emilia Doria di Dolceacqua. Un inedito documento su cultura e società nel 


Piemonte settecentesco conservato nell'Archivio Valperga di Masino di Milena Contini, Accademia delle 
Scienze di Torino, 2016. 

Vedi Willem Jan Van Neck, / nonni materni di Vittorio Alfieri in due ritratti della Clementina, 
«Annali Alfieriani», IV, 1985, pp. [247]-254. 

13. Su di lui vedi Vittorio Alfieri, Epistolario, a cura di Lanfranco Caretti, I (1767-1788), Asti, Casa 
d’Alfieri, 1963, pp. 30-31, 52-58. 

1 Vedi al riguardo il mio articolo Tre cammei: Filippo Di Benedetto, Franco Longoni e Marco Ster- 
pos, «La parola del testo», XXV, 1-2, 2021, pp. 181-197. 

!5 Vedi Torello Sala, Dizionario storico biografico di scrittori, letterati ed artisti dell'Ordine di Val- 
lombrosa, compilato dal p. Abate Torello Sala e pubblicato per la stampa da p. Abate D. Federigo Fedele 
Tarani monaco del medesimo Ordine, Firenze, Tipografia dell'Istituto Gualandi Sordomuti, 1929, 2 voll., 


vol. I, pp. 247-248. 


27 


Angelo Fabrizi 


Nel 1788 esce il terzo tomo della sua opera // Disinganno Comune. 

Avvertimento al popolo cristiano nelle presenti circostanze, 1798. 

Presentò domanda per ottenere (ma non lo ebbe) il canonicato della cattedra- 
le di Santa Maria del Fiore, e la stampò: Argomento d’evidenza in Florentina Cano- 
nicatus De Medicis l'abate Carlo Gavard agl'illustrissimi signori giudici del Supremo, 
Firenze, Nella stamperia di Pietro Allegrini alla Croce Rossa, 1798, pp. 20. 

La Settimana di un Filosofo ragionevole Cristiano, Firenze, Stamperia Moiicke, 
1799, deciso attacco ai principi rivoluzionari di libertà e uguaglianza. 

Orazione al popolo cani sulla venuta di Lodovico di Borbone in re d’Etruria, 
Firenze, 1801. 

La corrispondenza della verità colla politica, 0 siano letture istruttive o famigliari 
relative ai caratteri dell'uomo. A Sua Maestà Lodovico Primo, Re dell'Etruria, ÎInfan- 
te di Spagna ecc., Firenze, MDCCCI, presso Ciardetti, Volumi Tre. 

Torello Sala elenca solo quattro di queste opere, cui aggiunge l'opuscolo ano- 
nimo donatomi da Longoni. Ecco risolto il mistero. Nell’opuscolo l’autore ano- 
nimo si firma (a p. 20) C. G. e si definisce toscano (per la precisione fiorentino). 
E le sue sono appunto le iniziali di Carlo (Emanuelle) Gavard. Racconta di avere 
peregrinato per la Francia, Savoia, Piemonte prima di essere arrestato e strappato 
alla a lia. Il 9 settembre 1799 fu liberato per intercessione dei signori «SM. M. 
di Ca.» della città di Cu. [neo?]. La narrazione è avvolta in una continua esalta- 
zione di un Dio provvidenziale che aiuta i suoi fedeli. La sua colpa aver difeso 
il sacerdozio e il trono da tanti «libercoli infamatorj, scritti satirici, lingue sacri- 
leghe». I francesi non sono mai nominati, ma ad essi si allude come «quegli che 
fanno piangere tuttora gli uomini sensati sulla cecità di tanti miseri, che si tirano 
addosso i mali di un traviamento irragionevole». Egli fu strappato dalla famiglia. 
Divenne vittima dei nemici della patria. Ha affrontato pericoli in mare e ha sa 
mito sulla nuda terra. Scrive con sdegno che i toscani si son lasciati pervertire 
da un popolo pervertito. Abbiamo dunque un'altra testimonianza della dolorosa 
esperienza narrata nelle lettere di Filippo Morali, pubblicate da Antonio Gamuc- 
ci. Gavard racconta di aver vagato per la Franca Contea, la Savoia, il Delfinato, il 
Nizzardo il Piemonte, nutrendosi di latte, uova e acqua, e dormendo nelle stalle. 

Ci son voluti 222 anni prima che fosse identificato l’autore dell’opuscolo ano- 
nimo. Si può dire che ho chiuso il circolo muovendo da Antonio Gamucci e 
incontrando il Dizionario di Torello Sala!. La mia gratitudine per entrambi è 
dunque pienamente giustificata. 

In fine aggiungo una testimonianza del 1799. Sul «Corriere di Europa» (Na- 
poli), n. 21, 7 aprile 1799, p. 169 leggo un proclama di Reinard, commissario 
francese nell’ex granducato di Toscana: «La bandiera tricolore ondeggia sulle no- 
stre mura, e il sacro albero della Libertà adorna le nostre contrade. Pisa, Livorno, 
Portoferrajo, Siena, Arezzo, Pescia, S. Miniato, Patria dei Progenitori dell’im- 
mortale BONAPARTE, aveano già dato alla Centrale [la Repubblica francese] 


3 ) 
l'esempio dell’entusiasmo» ecc. 


16 L'opuscolo è segnalato da Raffaello Uccelli, Contributo alla bibliografia della Toscana, Firenze, 


Successori B. Seeber Libreria Internazionale, 1922, p. 3, n. 57 (rist. anastatica di Arnaldo Forni, Sala 


Bolognese, 1980). In tutto il mondo esiste in unica copia nella sola Biblioteca Nazionale Sagarriga- 
Visconti-Volpi di Bari (collocaz. Busta A. 142/12, inv. 109775) 


28 


Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


LUCA MACCHI 


L'insediamento di San Miniato prima di assumere l’aspetto e le dimensioni che 
oggi conosciamo, prima ancora di assumere il nome attuale e di essere dichiarata 
città, è stata un villaggio etrusco e poi romano. Di questa precedente fase ci parla- 
no i reperti provenienti dalla necropoli etrusca di Fontevivo, le iscrizioni lapidee, 
le monete, le sculture superstiti del periodo romano rinvenute sui colli dove si 
è sviluppata la città. In merito all'evoluzione architettonica e urbanistica di San 
Miniato esistono vari studi tra i quali è di fondamentale importanza quello della 
professoressa Maria Laura Cristiani Testi dal titolo “San Miniato al Tedesco”!. 
La studiosa ricostruisce la crescita della cittadina a partire dall'VIII secolo con 
lo sviluppo degli insediamenti umani sul “Monte Sancti Miniati” attraverso una 
serie di piantine che mostrano la progressiva estensione dell’abitato e del circuito 
delle mura difensive?. Attraverso queste ricostruzioni grafiche vediamo l’abitato 
crescere e modellarsi seguendo l'andamento del crinale tufaceo fino ad assumere 
le dimensioni attuali. Grazie a questo tipo di ricerche abbiamo chiaro quale sia 
stato lo sviluppo della cittadina in pianta. Se lo sviluppo in pianta risulta più 
agevole da seguire più difficoltoso è avere immagini che mostrano l’aspetto di San 
Miniato quando, munita delle sue fortificazioni, era una delle principali fortezze 
del Sacro Romano Impero e poi della Repubblica Fiorentina. 

San Miniato ha dovuto la sua fortuna alla posizione geografica. Sorge infatti su 
una balza tufacea che si innalza, quasi improvvisa, sul margine sud della pianura 
dell'Arno raggiungendo l'altezza di quasi 200 metri di altitudine nella parte più 
alta, un punto di osservazione invidiabile che offre una visione a 360 gradi del ter- 
ritorio equidistante dalle principali città della Toscana. Lo sviluppo di San Miniato 
è avvenuto anche per il fatto di trovarsi in prossimità della confluenza di grandi vie 
di comunicazione dell’epoca: la via Francigena e la via Romea, senza dimenticare la 
via fluviale offerta dall’Arno. Una posizione che non sfuggì agli imperatori svevi che 
la scelsero come residenza dei loro Vicari Imperiali. Una capitale amministrativa, 
capace di offrire la possibilità di ospitare truppe militari, che viene dotata di mura 
e torri possenti. Intorno al castello imperiale, arroccato sulla parte più elevata del 
colle, si sviluppa una cittadina suddivisa in Terzieri e Contrade dove anche i grandi 
ordini religiosi hanno edificato importanti conventi. 


!  M.L. Cristiani Testi, San Miniato al Tedesco, ed. Marchi e Bertolli, Firenze 1967. 

2 Altri testi di riferimento sullo sviluppo degli insediamenti del nostro territorio e dell'abitato 
di San Miniato sono “Dietro i nostri secoli” di Francesco Dini, “San Miniato, vita di un'antica città” di 
Dilvo Lotti e più recentemente “San Miniato forma urbis” di Luigi Latini. 


29 


Luca Macchi 


Una delle vedute più antiche che probabilmente mostra il castello di San Mi- 
niato nel XIV secolo è quella che Maria Laura Cristiani Testi pubblica nel suo 
volume “San Miniato al Tedesco” indicando, senza mezzi termini, il titolo “Ve- 
duta di San Miniato” e usando questa immagine anche per la copertina del volu- 
me stesso. Il dipinto è attribuito ad Ambrogio Lorenzetti e ha per soggetto una 
veduta di città, che oggi si trova nella Pinacoteca di Siena. Anche Dilvo Lotti nel 
suo “San Miniato, vita di un'antica città” inserisce questa veduta come probabile 
rappresentazione della San Miniato trecentesca. Possiamo notare che, nella visio- 
ne astratta e poetica, che gli artisti medioevali ci restituiscono nelle raffigurazioni 
delle città, questa veduta ci sembra avere varie corrispondenze con il probabile 
aspetto della San Miniato dell’epoca. Il mare potrebbe essere messo come punto 
di orientamento, oppure potrebbe essere la sponda del fiume Arno. Su questa 
tavoletta dipinta conservata alla Pinacoteca di Siena non tutti sono concordi sul 
fatto che la città raffigurata possa essere San Miniato. Altri storici sostengono che 
sia la raffigurazione della città e porto di Talamone. Altri ancora attribuiscono 
questo dipinto a Stefano di Giovanni di Consolo detto “il Sassetta”. 

Una fonte, certo non proprio attendibile per le raffigurazioni di cittadine del 
Trecento, sono i codici che raccolgono fatti di cronaca. I fatti di cronaca sono 
spesso accompagnati da miniature che illustrano quanto riportato nei testi. Un 
testimone diretto delle vicende samminiatesi della seconda metà del XIV secolo 
fu il lucchese Giovanni Sercambi che le annotò nelle sue “Croriche”. La cronaca 
relativa all'episodio che vede Benedetto Mangiadori introdursi nel castello di San 
Miniato nel 1397 è accompagnata da una miniatura che mostra quei fatti sto- 
ricamente avvenuti a San Miniato. Nella miniatura il nome della città è scritto 
sulle mura del castello. L'immagine che viene resa di San Miniato è naturalmente 
simbolica, come avviene di solito in questi casi, ma ci sembra con una certa 
attinenza la raffigurazione dell'alto Palazzo dei Vicari e anche nella parte più 
fortificata sullo sfondo. Questa “cronaca” narra di quando Benedetto Mangiadori 
“con uno suo figliuolo, con circha XVIII compagni per suscitare romore” entrarono in 
San Miniato ‘per dare il dicto Saminiato” al duca di Milano. Raggiunto il Palazzo 
dei Vicari uccisero il vicario Davanzato Davanzati e lo gettarono dalla finestra?. 

Nel Museo Diocesano di San Miniato è conservata una bella tavola cuspidata 
raffigurante “San Gerolamo che traduce la Bibbia”, opera di Cenni di Francesco 
di Ser Cenni databile al 1411. La tavola con la sua predella proviene dalla chiesa 
dei Santi Jacopo e Lucia, annessa al convento dei domenicani, ed era parte di un 
grande polittico. E questa una delle opere più belle di Cenni di Francesco che 
a San Miniato ha lavorato anche nella Sala del Consiglio del Palazzo Comunale 
realizzando l'affresco raffigurante la Vergine, il Bambino e le Virtù nella Sala del 
Consiglio. Nella tavola del San Gerolamo il Cenni rappresenta il santo nel suo 
studio intento a tradurre la Bibbia. Rappresentato come un copista del tempo, 
il santo è seduto e impugna con la mano destra lo stilo per scrivere mentre nel- 
la sinistra ha una lama per cancellare gli eventuali errori. In basso, come vuole 
l'iconografia del santo, sta il leone ferito. Nella parte in alto del dipinto, corri- 
spondente alla cuspide, Cenni di Francesco dipinge alcune architetture. Queste 
architetture, come spesso si usava, rappresentavano il luogo per la quale l’opera 


Vedere anche Smartarc di Francesco Fiumalbi. 


30 


Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


era stata dipinta. Se osserviamo l’edificio sacro rappresentato vediamo che ha un 
ingresso laterale che tanto ci ricorda l’antico ingresso della chiesa dei Santi Jacopo 
e Lucia (comunemente detta San Domenico) quando questo si trovava all’inizio 
del percorso oggi chiamato Via Angelica. 

Il XIV secolo è il secolo dei grandi cantieri, degli ampliamenti di edifici con- 
ventuali sorti intorno al castello. In questo secolo il borgo raggiunge l'estensione 
che va dal fortilizio che comprendeva la chiesetta di Santa Maria al Fortino, in 
località “le colline”, fino alla chiesa di Santa Caterina annessa al convento degli 
Agostiniani in località Poggighisi. Praticamente la San Miniato di oggi. 

L'aspetto raggiunto dalle cittadina nel corso del XIV secolo si manterrà presso- 
ché inalterato .. al XVI secolo. Nel corso del XVI secolo le linee architettoniche 
dettate dal Rinascimento si diffondono anche a San Miniato e le famiglie nobili e 
facoltose costruivano o ammodernavano le loro dimore dando unitarietà alle loro 
proprietà con facciate unitarie e sostituendo le antiche bifore gotiche decorate da 
cotto stampato, con grandi finestre lunate circondate da bozze di pietra serena. 
Uniformavano le case di loro proprietà sotto un'unica facciata con marcapiani 
e logge dalle eleganti colonne in pietra serena secondo lo schema imponente 
dettato dal Palazzo di Ugolino Grifoni. E in questo periodo che l’antica fortezza 
imperiale inizia ad assumere, poco a poco, l'aspetto di una piccola capitale con 
palazzi dalle armoniche facciate. 

Un dipinto riferibile al terzo decennio del XVI secolo raffigura la Madonna 
con il Bambino dormiente, opera da sempre attribuita a Francesco d’Agnolo Lan- 
franchi, detto Lo Spillo, fratello di Andrea del Sarto. Al Lanfranchi si devono 
alcuni dei dipinti inseriti nell’altare ligneo della Cappella del Palazzo Comunale 
e lo sportello raffigurante Cristo Risorto oggi nel Santuario del SS.mo Crocifisso. 
Lo Spillo è anche autore della tavola raffigurante La Pietà nella Cattedrale”. Nella 
Madonna con il Bambino dormiente, custodita nel Museo della Arciconfraternita 
di Misericordia di San Miniato’, opera da studiare attentamente, è apprezzabile 
una certa morbidezza del modellato del Bambino e, particolarmente interessante, 
il paesaggio sullo sfondo che ci mostra una veduta di San Miniato con le sue for- 
tificazioni così come doveva apparire nei primi decenni del XVI secolo. Notiamo 
anche la presenza di un ponte che Dilvo Lotti identificava con un ponte romano 
poi andato perduto. 

Questa veduta di San Miniato attribuita allo “Spillo” è la prima, in ordine 
cronologico, delle vedute a noi giunte realizzate nel corso del XVI secolo. Il Lan- 
franchi esegue questo dipinto pochi anni prima dell’assedio spagnolo del 1529 
e quindi con le fortificazioni ancora in funzione. Di Francesco Lanfranchi non 
risultano più notizie dopo il duplice assedio spagnolo del 1529 e del 1530. 


4 G. Piombanti: “la cappella dove ora è il Santissimo, nella crociata, è sacra alla Vergine addolo- 


rata, ed ha sull'altare un quadro, nel quale, l’anno 1528, Francesco Lanfranchi colorì /a pietà. Nel 1851 
venne restaurata.” Guida della Città di San Miniato al Tedesco. Con notizie storiche antiche e moderne, 
Tipografia M. Ristori, San Miniato, 1894, pag. 88. Nel corso dell'ultimo restauro della tavola è stata 
scoperta sul retro la scritta autografa dello Spillo, in D. Lotti, “San Miniato, Vita di un'antica città”, 
Sagep, Genova 1980. 

© Un biglietto incollato sul retro del telaio riporta la scritta che ci informa della provenienza 
dell’opera nella collezione della Venerabile Arciconfraternita:“Questo giorno 28 ottobre 1861 alla Venera- 
bile Arciconfraternita della Misericordia Stanislao Pecchioli dona”. 


31 


Luca Macchi 


L'inizio del mutamento architettonico e urbanistico di San Miniato si ha a 
partire dal 1555 con la costruzione del Palazzo di Ugolino Grifoni ad opera di 
Giuliano di Baccio d’Agnolo e la creazione della piazza antistante’. Dalla docu- 
mentazione conservata nell'archivio della Famiglia Grifoni troviamo che il pa- 
lazzo era quasi completamente edificato nel 1554 ma che venne definitivamente 
ultimato nel 1573”. La costruzione subì interruzioni, ma poté proseguire grazie 
al permesso concesso da Cosimo I di usufruire del materiale edilizio tratto dalle 
vecchie fortificazioni. Le antiche mura del castello ormai in disuso non servivano 
più e dunque, sia pure in via eccezionale, vi si poteva attingere per la nuova co- 
struzione. È questo uno dei primi episodi in cui viene permesso di usare la grande 
quantità di materiale che potevano fornire le fortificazioni per nuove importanti 
costruzioni. Il modello dettato da Giuliano di Baccio d’Agnolo dal prospetto di 
Palazzo Grifoni viene ripreso, anche se in modo meno imponente, dalle altre 
famiglie nobili di San Miniato desiderose di ristrutturare le loro dimore secondo 
il nuovo stile architettonico. 

Negli stessi anni a Firenze Cosimo I sceglie Palazzo Vecchio come residenza 
della sua corte dando così inizio ad una serie di modifiche interne che si svolgono 
dal 1555 al 1572. 

Il Salone dei Cinquecento diviene il luogo di rappresentanza del governo del 
Granducato. Nei lavori di rifacimento delle decorazioni del Salone, diretti da 
Giorgio Vasari, è compresa anche la realizzazione del soffitto ligneo eseguito tra 
il 1563 e il 1565. La superficie dell'intero soffitto viene suddivisa con 42 riqua- 
dri. Giorgio Vasari si avvalse di una serie di pittori tra i più in vista della Firenze 
del tempo quali Giovanni Stradano, Jacopo Zucchi, Giovanni Battista Naldini, 
Santi di Tito, Ridolfo del Ghirlandaio solo per citarne alcuni. alcuni dei riquadri 
del grande soffitto hanno per soggetto le allegorie dei vari Vicariati nei quali era 
suddiviso il territorio del Granducato di Toscana. 

Nel riquadro dedicato al Vicariato di San Miniato viene dipinto lo stemma 
della comunità e il panorama della città dove sono raffigurate con estrema preci- 
sione le fortificazioni, le torri allora presenti e il convento di San Francesco. 

Lo stesso Vasari nei “Ragionamenti” scrive di aver dipinto l’ “Allegoria di San 
Miniato” nel soffitto del Salone dei Cinquecento. Il pannello dedicato a San Mi- 
niato è dunque opera di Vasari con la lode di Jan Van Der Straet meglio 
conosciuto come Giovanni Stradano. 

Nella monumentale chiesa di San Francesco a San Miniato il primo altare sul 
lato sinistro di chi entra è di patronato della famiglia Mercati. Sull’altare domina 
la tela, opera di Bartolomeo Sprangher (Anversa 1546 — Praga 1611) raffiguran- 
te San Michele Arcangelo che vince il demonio. Sullo sfondo della composizione, 
sulla parte sinistra di chi guarda, possiamo notare la rappresentazione del cassero 
federiciano di San Miniato ancora intatto così come doveva certamente apparire 


6... Monsignor Ugolino Grifoni, samminiatese, personaggio molto importante del suo tempo, fa 


costruire i suoi palazzi a Firenze e a San Miniato. Si deve a lui anche la costruzione della cappella di 
famiglia nella chiesa di San Domenico dove vorrà essere sepolto. Per l’altare della Cappella di famiglia 
commissiona la bella pala della Deposizione a Francesco Morandini, detto i/ Poppi (Poppi, 1544 — 1597) 
che viene collocata nel 1572. Commissiona il proprio ritratto a Scipione Pulzone, detto il Gaetano 
(1550-1598). 

7 D. Stiaffini, L. Macchi, “Il Palazzo Grifoni di San Miniato”, Edizioni ETS, Pisa 2007. 


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Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


nella seconda metà del XVI secolo. Bartolomeo Sprangher giunge a Roma nel 
1566, dove lavora per il cardinale Alessandro Farnese, che lo impegnò anche nella 
decorazione del Palazzo di Caprarola. Questa veduta di San Miniato nella pala 
di Bartolomeo Sprangher sull'altare della famiglia Mercati è collegata ad un’altra 
veduta, molto simile, presente nei Palazzi Vaticani. 

Quella che si trova nella Galleria delle Carte Geografiche nei Palazzi Vaticani 
a Roma è forse la più famosa delle vedute di San Miniato. 

La Galleria delle Carte Geografiche venne realizzata tra il 1580 e il 1585 per 
volere di Papa Gregorio XII de affidò la direzione dei lavori a Ignazio Danti, 
importante matematico, astronomo e cartografo del tempo. Le sue indicazioni 
furono messe in pratica da una serie di artisti quali: Girolamo Muziano, Cesare 
Nebbia, Giovanni Antonio Vanosino (da Varese), Antonio Danti. La volta della 
Galleria è dipinta da Antonio Tempesta da Firenze e dai fratelli Matthijs e Paul 
Bril. Il Danti concepisce il percorso della Galleria come se l'osservatore stesse 
camminando sul crinale dei Monti Appennini e dunque fa affrescare su di un lato 
del corridoio le regioni che si affacciano sul Mar Ligure e sul Mar Tirreno, mentre 
sull'altro lato le regioni bagnate dal Mar Adriatico. 

La rappresentazione di San Miniato si trova nell’affresco raffigurante la carta 
geografica della Toscana ed è certamente una dimostrazione della considerazione 
verso la città e verso i suoi illustri cittadini Pietro Mercati e suo figlio Michele che 
in quegli anni ricopriva importanti incarichi in Vaticano*. Mida era interessato 
alle scienze naturali, in particolare alla botanica ed alla mineralogia, oltre che alla 
paleontologia ed all'archeologia. Gregorio XIII gli affidò il compito di fondare la 
collezione naturalistica, soprattutto mineralogica, dei Musei Vaticani, allora una 
delle migliori d'Europa. A San Miniato Michele Mercati fondò il Monastero del- 
la SS.ma Trinità delle suore Agostiniane nel quale entrano due sue sorelle. Morì 
a Roma il 25 Giugno 1593. 

La veduta inserita nella pala di San Michele Arcangelo di Bartolomeo Spran- 
gher insieme a quella della Galleria delle Carte Geografiche dei Palazzi Vaticani 
ci confermano delle effettive condizioni delle fortificazioni di San Miniato alla 
fine del Cinquecento. Da questi esempi dell’epoca proviene anche la veduta nella 
attuale Sala del Consiglio del Palazzo Comunale di San Miniato, realizzata nei 
primi anni trenta del Novecento dal Canonico Francesco Maria Galli — Angelini. 

Ancora nella chiesa di San Francesco esiste un’altra veduta di San Miniato. Il 
secondo e il terzo altare alla sinistra di chi entra sono storicamente di patronato 
della Famiglia Buonaparte. Sul secondo altare, proprio dopo l’altare della Fami- 
glia Mercati, si trova una tela di Carlo Bambocci, eseguita nel 1691, che mostra 
un tema composito costituito da almeno tre piani. In primo piano stanno le figu- 


8. In breve possiamo riassumere che Michele Mercati nasce a San Miniato il 6 Aprile 1541 dal 


medico Pietro e da Alfonsina Fiamminga o Flaminga. Il nonno, che portava lo stesso nome, apparte- 
neva al circolo umanistico fiorentino di Marsilio Ficino. Il padre, Pietro Mercati, era stato archiatra 
pontificio di Pio V e Gregorio XIII. Seguendo le orme paterne e divenne dottore alla Facoltà delle Arti 
ed in Medicina presso l’Università di Pisa. Ad appena vent'anni fu chiamato alla corte papale da Pio 
V, probabilmente su suggerimento di Cesalpino, per ricoprire l’incarico di Prefetto dell’Orto botanico 
di Roma, incarico che mantenne fino alla morte, durante i papati di Pio V, Gregorio XIII, Sisto V e 
Clemente VIII. Sisto V lo nominò Protonotaro Apostolico ed in tale veste partecipò a due ambascerie, 
rispettivamente in Polonia e Boemia. 


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Luca Macchi 


re dei Santi Giovanni Battista e Miniato. In un piano successivo sta la scena della 
Visitazione e, in prospettiva, Il martirio di Miniato. La visitazione e il martirio 
sono le scene principali e Carlo Bambocci le dipinge una accanto all’altra nella 
parte centrale della tela. La parte alta del dipinto è dedicata ad una veduta di San 
Miniato e delle sue fortificazioni vista dalla contrada di Poggighisi così come do- 
veva ancora apparire nella seconda metà del Seicento. Nella tela dell’altare viene 
rappresentata la scena del martirio di Miniato perché l’altare segna, tradizional- 
mente secondo anche quanto scrive Dilvo Lotti, “l'ubicazione lui sacro 
sacello” della chiesetta dedicata al martire Miniato che venne donata a Francesco 
d’Assisi al suo passaggio dalla città. 

Il XVII secolo porta la grande novità della elevazione di San Miniato a sede 
vescovile. L'autonomia della quale godevano i Vicari del vescovo di Lucca presen- 
ti a San Miniato si traduceva adesso in dignità vescovile. Una prima assegnazione 
territoriale concedeva alla nuova diocesi samminiatese anche la cittadina di Alto- 
pascio, arrivando così alle porte della stessa Lucca. Fu Mons. Andrea Buonaparte, 
primo Amministratore Apostolico ad effettuare un ridimensionamento dei confi- 
ni al fine di una migliore organizzazione del territorio. L'istituzione della diocesi 
ha significato per ib capoluogo l’inizio di una nuova fase nel corso della quale 
l'abitato assunse un nuovo e definitivo aspetto. Nuovi edifici si resero necessari 
per assolvere a nuovi compiti. Nel 1660 si inizia la costruzione del Seminario Ve- 
scovile che seguirà l'andamento perimetrale delle mura della cittadella. Nel 1713 
si conclude la costruzione del Santuario del SS.mo Crocifisso: due importanti 
elementi architettonici nuovi che si inseriscono nel profilo della città. 

Ed è una bella veduta di San Miniato, vista da sud e incisa all’acquaforte, ad 
aprire il volume dedicato al VII Sinodo Diocesano del 1707. La città è rappresen- 
tata sullo sfondo, incorniciata da una architettura dove un tendaggio svolazzante 
è scostato da un putto che offre la vista della città che sta assumendo l’aspetto che 
noi oggi conosciamo. Molto interessante è il particolare del palazzo del Seminario 
Vescovile che sta prendendo il posto delle antiche mura merlate della cittadella. Il 
Santuario del SS.mo Crocifisso non corrisponde totalmente all'aspetto perché al 
momento dell’esecuzione dell’incisione era stato presentato un progetto a pianta 
centrale ma non ancora a croce greca. 

Da un disegno del 1710, allegato a una causa, conservato nell'Archivio Stori- 
co del Comune di San Miniato, ci proviene, ultimo riflesso di luce sulle antiche 
mura, la veduta della parte alta delle fortificazioni viste dal lato nord. È un dise- 
gno molto importante perché ci mostra ancora esistenti la torre delle Cornacchie 
e la disposizione delle mura del cassero federiciano. Molte vedute della cittadina 
privilegiano il lato sud, mentre da nord non ci sono immagini d’epoca che mo- 
strino chiaramente gli edifici presenti intorno alla piazza del Duomo. Questo 
disegno del 1710 ci offre un'ultima veduta di ciò che resta del castello dove è 
ancora possibile vedere le mura ancora esistenti, anche se sbrecciate, che univano 
la torre del Palazzo dei Vicari con la Torre delle Cornacchie?. 

Una veduta quanto mai precisa e minuziosa di San Miniato è quella conserva- 
ta dalla Accademia degli Euteleti. Anche questa veduta mostra la città vista da sud 


9 


Si tratta della “Veduta della frana sulla via del Poggio”, disegno allegato a una causa, ASCSM 
Cancelleria di San Miniato, Atti in causa, 3708, 105. 


34 


Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


e riporta con estrema precisione i principali edifici storici, le piazze e le cisterne, 
tanto da sembrarne un censimento. È un acquarello e da quanto è mostrato po- 
trebbe risalire al XVIII secolo. Gli elementi da notare sono il santuario del Croci- 
fisso con la scalinata già realizzata, il seminario vescovile ancora non completato, 
il monumento a Leopoldo II non ancora presente nella Piazza Buonaparte. 

Due vedute di San Miniato sono presenti nel “Viaggio pittorico della 
Toscana”!° dell'Abate Francesco Fontani, pubblicazione realizzata nel 1817. Il 
Viaggio pittorico della Toscana è un’opera in sei volumi, il cui scopo era quello di 
costituire un corpus delle principali città della Toscana. L'opera comprende la 
carta geografica della Toscana, le piante delle principali città e le vedute delle città 
nobili. Alla città di San Miniato sono dedicate due vedute. La prima è un panora- 
ma visto da sud che mostra parti ancora intatte di mura e torri nella sua parte più 
alta. L'altra veduta è dedicata alla Cattedrale con sullo sfondo la cupola, questa 
volta raffigurata fedelmente, del Santuario del SS.mo Crocifisso. Possiamo notare 
che mentre nella veduta della Cattedrale si vede benissimo la mole del Santuario, 
questo è assente nell’incisione che mostra il panorama della città. 

Nella Piazza oggi Buonaparte si svolge la scena rappresentata nel dipinto di 
Egisto Sarri dell’arrivo di Napoleone Buonaparte a San Miniato il 29 Giugno 
1796. Come sappiamo Napoleone salì a San Miniato a fare visita al Canonico 
Filippo Buonaparte . Il quadro venne eseguito dal Sarri in occasione dei cento 
anni dall’avvenimento. Esatta è la collocazione del pozzo al centro della piazza 
che verrà tolto nel 1844 per fare posto al monumento al Granduca Leopoldo II. 

Nel 1896, quando Egisto Sarri realizza questo dipinto, l’immagine di San 
Miniato inizia ad essere ll. non più soltanto attraverso l’interpretazione sog- 
gettiva di pittori e incisori bensì con un nuovo mezzo in grado di restituire una 
visione oggettiva e razionale della realtà: la fotografia. 

Le più antiche immagini fotografiche di San Miniato di cui oggi siamo a co- 
noscenza si devono a Filippo Del Campana — Guazzesi e riportano la data 1896. 
Un corpus di immagini in bianco e nero che rende evidente non solo l'aspetto 
della cittadina e dei suoi monumenti ma anche la vita che scorre nelle sue vie 
attraverso i mercati, le processioni, i volti dei sanminiatesi del tempo!!. 

Nel Novecento San Miniato continuerà ad essere fissata da dipinti e da fo- 
tografie con intenti diversi. Adesso la fotografia ne rende l’aspetto oggettivo e i 
pittori sono liberi di immergere il panorama e gli edifici della cittadina in mondi 
sognanti e senza tempo dove quello che conta non è tanto la resa somigliante 
delle cose quanto il racconto individuale. I Pittori la immaginano immersa nel 
loro mondo ora di favola, ora surreale, nel plasticismo, nell’astratto. Nel corso 
del Novecento gli artisti non si preoccuperanno più di mostrare l'aspetto corretto 
della cittadina ma si sentiranno liberi di coglierne gli aspetti più diversi, di im- 
mergerla nel loro mondo, di interiorizzarla e di interpretarla secondo il personale 
temperamento. Il Novecento è il secolo delle Avanguardie, è il secolo nel quale 
le arti visive si sono rigenerate in un alternarsi di nuove correnti e di riscoperte 


!0° Francesco Fontani “Viaggio Pittorico della Toscana” 1817 - incisioni di Antonio Terreni (Tomo 


4 pagina 229). 
!! Giuseppe Marcenaro, “Il silenzio del negativo — Filippo Del Campana Guazzesi fotografo in 
San Miniato”, Cassa di Risparmio di San Miniato, 1981 


35 


Luca Macchi 


della tradizione. Così la cittadina di San Miniato, con il suo profilo scolpito dalla 
storia, con i suoi monumenti, ha continuato ad essere soggetto di pittori, incisori, 
scultori con una apertura alle nuove arti come il cinema e il fumetto. A questo 
proposito in questa sede basta fare il nome dei registi Paolo e Vittorio Taviani e di 
Boll Benvenuti, mentre per il fumetto ricordiamo il numero di Topolino. 


Per concludere 

- Esiste una veduta di San Miniato che è pura illusione. L'ho guardata per anni. 
È un particolare dell’affresco di Antonio Domenico Bamberini nella ascensione 
di Cristo dipinto sulla cupola del santuario del SS.mo Crocifisso a San Miniato. 
Per anni mi sono seduto sulle panche del santuario e guardando la decorazione 
della cupola, a quindici — venti metri da terra, vedevo quel profilo con le due torri 
“E San Miniato. San Miniato nel secondo decennio del Settecento”, mi dicevo. Ma 
me lo tenevo per me. Controllavo la distanza tra le due torri, la loro diversa altez- 
za e mi ripetevo “E San Miniato”. A distanza di tempo ritornavo sulle panche del- 
la chiesa, cambiavo posto, e guardavo sempre in quel punto e la mia convinzione, 
volta dopo volta, aumentava. Il Bamberini ha realizzato tutta la decorazione del 
Santuario del SS.mo Crocifisso, ma ha lavorato anche nella cattedrale di San Mi- 
niato, e poi nelle chiese di San Domenico, di San Paolo, della SS.ma Annunziata, 
di Santa Chiara e in molte altre chiese della diocesi realizzando dipinti e affreschi. 
E mi convincevo che quel piccolo paesaggio nella cupola era un omaggio che 
lui dedica alla città che gli ha portato tanto lavoro. Ho pensato di andare lì con 
un cannocchiale, ma aspettavo. Qualcosa mi diceva che non poteva essere. Mi 
chiedevo: Quella scena dell’ascensione di Cristo in Paradiso tra gli angeli e con 
gli apostoli che osservavano poteva includere il panorama di una città precisa? Il 
panorama di San Miniato? Qualcosa mi diceva di no. Il Bamberini avrà pensato 
che dal pavimento nessuno ci avrebbe fatto caso, nessuno avrebbe fatto caso a 
quel profilo così lontano e così piccolo. Poi finalmente mi sono deciso e con 
Flavia e la sua macchina fotografica con teleobiettivo siamo andati al Santuario e 
scattato alcune foto. Le foto um mostrato che quelle che da terra sembravano 
le due torri sono in realtà due bellissimi ciuffi d'erba. Un po’ sono rimasto deluso. 
Anche se adesso sono convinto che Anton Domenico, con il suo virtuosismo, con 
la sua estrema conoscenza della prospettiva, in quell’immagine voleva effettiva- 
mente farci vedere San Miniato... vista da lontano... ma una volta arrivati vicini 
il miraggio svanisce, l’immagine si dissolve. 


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Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


1 - Ambrogio Lorenzetti, Veduta di città Tempera su tavola, cm. 22,5x32,5 Siena, Pinacoteca. 


TE e E re ren RSI LEVATE OLONA img 
Palucha che andonno uezfto fiminiaro «Come-benedto man 
entro inf ato cuafi-loviazo elfigluolo : 


2- Giovanni Sercambi, cronaca CCCCXVIII, “Come Benedecto Mangiadori entrò in Saminiato e uccise 
lo Vicario e *l figluolo”. 


37 


Luca Macchi 


i 


3- Cenni di Francesco, 1411 c. Sar Gerolamo nello studio che traduce la Bibbia, tempera su tavola cuspi- 
data, Museo Diocesano d’Arte Sacra di San Miniato (dalla chiesa dei Santi Jacopo e Lucia). 


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Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


+$S VA 


4- Francesco Lanfranchi, detto “Lo Spillo”, sec. XVI. Madonna con il Bambino Olio su tela, cm.118x86 
Museo della Arcicofraternita di Misericordia di San Miniato. 


39 


Luca Macchi 


Sl Lim inaunfi fp un ndo Dif sudo? na 
Rege posti Federicon ica per 
N Slim fees Afodcfcanune uulgowotitatum 


5- Veduia del Cassero di San Miniato, 1580 - 1585 Affresco, Galleria delle Carte Geografiche, Palioni 


Vaticani. 


6- Bartolomeo Spranger, (Anversa 1546 — Praga 1611) San Michele Arcangelo, (particolare con la veduta 
delle fortificazioni della Rocca) olio su tela, Altare Famiglia Mercati, Chiesa di San Francesco, San Mi- 
niato. Collocazione originale. 


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Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


7- Giorgio Vasari e Jan Van Der Straet (Giovanni Stradano), 1563 - 1565 Allegoria di San Miniato 
Olio su tavola, Soffitto del Salone dei Cinquecento, Palazzo Vecchio, Firenze. 


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Luca Macchi 


8- Carlo Bambocci, La Visitazione tra i santi Giovanni Battista e Miniato (particolare della veduta della 
Rocca) Olio su tela, altare Famiglia Buonaparte, 1691 collocazione originale, Chiesa dei Santi Francesco 
e Miniato, San Miniato. 


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Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


9 — Incisione per l’antiporta del volume del Sinodo del 17 


Luca Macchi 


10 — Veduta della frana sulla via del Poggio, 1710, disegno allegato a una causa ASCSM Cancelleria di 
San Miniato, Atti in causa, 3708, 105. 


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Considerazioni intorno ad alcune immagini 
che ritraggono la città di San Miniato realizzate nel tempo 


12 - Veduta della città di San Miniato, sec. XVIII Acquerello su carta riportato su tela, Accademia degli 
Euteleti, San Miniato. 


HST - 


-- - -- “ga a Pe de a _, rel 
13 — Egisto Sarri, 1896 Napoleone Buonaparte arriva dal Canonico Filippo Olio su tela, Credit Agricole. 


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Luca Macchi 


Mi, "an Rina == SLA 
- Renon pra ni ae» pi 


14 — Antonio Domenico Bamberini, L'Ascensione, 1717. Affresco, cupola del Santuario del Ss.mo 
Crocifisso, San Miniato. 


15 - Anton Domenico Bamberini. Particolare dell’affresco della cupola. 


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Diversità e prossimità per la generatività dei territori 
fra transizioni e diseguaglianze 


SAVERIO MECCA 


Premessa 

Queste note nascono da una esperienza recente: nel 2021 ho seguito, in rap- 
presentanza dell’Università di Firenze, la creazione dell’Osservatorio delle Politi- 
che Urbane e Territoriali presso il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavo- 
ro, CNEL; con il ruolo di coordinatore dell’Osservatorio, insieme al Consigliere 
CNEL Maurizio Savoncelli abbiamo organizzato sei seminari ai temi dei cambia- 
menti e transizioni dedicati alla filiera del legno e del bosco e alle diseguaglianze 
di genere, generazionali e territoriali in relazione al benessere e alla crescita equa 
e ea hile 

Abbiamo scelto il tema delle della riduzione delle diseguaglianze perché il Pia- 
no Nazionale di Ripresa e Resilienza (in seguito PNRR) lo pone come un obietti- 
vo generale e una priorità trasversale dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza 
(in seguito PNRR), e, sia pure implicitamente, individua nella prossimità e nella 
generatività due condizioni essenziali per la gestione delle transizioni ecologiche, 
digitali e demografiche dell’Italia. 

Il PNRR indica come priorità il recupero dei ritardi storici penalizzanti che 
riguardano /e persone con disabilità, i giovani, le donne e il Sud. L'assunto di base è 
che per essere efficace la ripresa dell’Italia, ovvero la crescita economica e sociale 
sostenibile, deve dare pari opportunità a tutti i cittadini, soprattutto quelli che 
non esprimono il loro potenziale, superando le diversità che generano disegua- 
glianze. Nel quadro delle sei missioni il PNRR indica come prioritarie le azioni 
trasversali relative alle pari opportunità generazionali, di genere e territoriali. Le 
missioni, si afferma, saranno ‘valutate sulla base dell'impatto che avranno nel recu- 
pero del potenziale dei giovani, delle donne e dei territori e nelle opportunità fornite 
a tutti, senza alcuna discriminazione.” 

Secondo il PNRR dalla persistenza dei divari territoriali, da una più debole 
prossimità dei servizi essenziali, sia per abitare che per produrre, derivano minori 
opportunità di formazione e di lavoro e “la crescita dell'emigrazione, in particolare 
giovanile e qualificata, verso le aree più ricche del Paese e verso l'estero. Questo genera 
un ulteriore impoverimento del capitale umano residente al Sud (e nelle aree interne) 
e riduce le possibilità di uno sviluppo autonomo dell'area“. 

Questa riflessione sulla riduzione delle diseguaglianze e sulla crescita di un 
benessere equo e sostenibile deve misurarsi con un cambiamento e tre transizioni 
epocali: il riscaldamento globale e il suo effetto di cambiamento del clima, dei 
tanti e diversi climi sulla terra, e le transizioni ecologiche, digitali e demografiche. 
In questo quadro per costruire un percorso per una nuova società equa e soste- 
nibile dobbiamo avere una visione sistemica e innovativa della complessità degli 


47 


Saverio Mecca 


ecosistemi umani e naturali, unita ad un paradigma radicale sulla salute di tutti 
gli esseri viventi che ci orienti nelle azioni e nei progetti giorno per giorno. 

In questi ultimi anni è emersa da tante voci, non ultima la stessa Enciclica 
“Laudato sii”, l'esigenza di rivedere in modo critico il processo di sviluppo indu- 
striale/urbano degli ultimi due secoli, un processo che sfrutta in modo crescente 
le risorse naturali, umane e culturali, cambia la geografia dei luoghi, altera la 
relazione delle comunità e delle persone con la natura la propria storia, genera 
emissioni alteranti l’ambiente e la vita e la salute di tutti gli esseri viventi, riduce 
la diversità biologica e costituisce esso stesso un fattore determinate (in misura 
maggiore o minore secondo le diverse analisi) del riscaldamento globale. 

Un esempio: le diseguaglianze territoriali, così drammaticamente cresciu- 
te negli ultimi decenni in tutto il mondo, hanno determinato l'aumento della 
pressione demografica e della concentrazione nelle aree urbane “forti” in tutto 
il pianeta'; ma l'inurbamento a sua volta incrementa non solo la diseguaglianza 
territoriale, ma anche la necessità di destinare risorse aggiuntive necessarie per 
mitigare la non sostenibilità dei sistemi “densi” urbani, accentuando in tal modo 
le cause della diseguaglianza con le aree “deboli”. Le molteplici non sostenibilità 
determinate dalla concentrazione degli insediamenti si manifestano in tutte le di- 
mensioni ambientali fondamentali, quali acqua, aria, suolo, energia rinnovabile, 
diversità, e genera dinamiche autoalimentate e incrementali per tutti processi di 
gestione (trasporto pubblico, trasporto privato, servizi infanzia e scolastici, servizi 
sanitari, residenza, etc.). 

Il PNRR in sostanza pone con forza al centro della sua visione e strategia 
il tema della questione delle regioni meridionali e delle “aree interne” non in 
termini assistenziali, ma di apertura di una competizione territoriale con le aree 
metropolitane, di creazione delle condizioni necessarie perché possa avviarsi una 
crescita economica e sociale più intensa e diffusa, capace di riequilibrare le società 
e i territori a favore delle aree indebolite, recuperando il loro potenziale inespres- 
so generato dalle diseguaglianze stesse. 

Cambiamenti e transizioni epocali che ci attendono ci chiedono di pensare 
e costruire, giorno per giorno, un nuovo modo di abitare, produrre, vivere che 
possa assicurare un benessere equamente distribuito e sostenibile e la salute degli 


! Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite (UNRIC), UN 75 - I grandi temi: Una 
demografia che cambia. “.... Fino 4/ 2009, vivevano più persone nelle aree rurali che in quelle urbane. 
Oggi, circa il 55 per cento della popolazione mondiale vive in paesi e città, con un livello di urbanizzazione 
che si prevede possa raggiungere quasi il 70 per cento entro il 2050. Gran parte della crescita delle popolazioni 
urbane coinvolgerà Asia ed Africa, specialmente Cina, India e Nigeria dove i tassi di fertilità rimangono alti. 

Come la migrazione, l'urbanizzazione richiede una gestione efficace da parte delle autorità nazionali e 
locali. Ad oggi, le città occupano meno del 2 per cento del territorio mondiale totale ma producono l'80 per 
cento del Prodotto Interno Lordo (PIL) globale e oltre il 70 per cento delle emissioni di carbonio. La velocità 
e la portata dell'urbanizzazione presentano delle sfide rispetto alla possibilità di assicurare abitazioni, infra- 
strutture e trasporti adeguati, così come i conflitti e la violenza. Quasi un miliardo di persone sono classificate 
come "poveri urbani”, e la maggior parte vive in insediamenti urbani informali. 

Allo stesso tempo, sono necessari maggiori sforzi per garantire che coloro che vivono nelle zone rurali non 
vengano abbandonati, anche in termini di accesso all'economia e alla società digitale. I piccoli agricoltori, 
gli allevatori e le comunità locali svolgono un ruolo fondamentale nella produzione del nostro cibo e nella 
protezione del nostro capitale naturale.” https://unric.org/it/un-75-i-grandi-temi-una-demografia-che- 
cambia/ 


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Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni e diseguaglianze 


ecosistemi umani e naturali. Le note successive sono una riflessione su nuovi 
concetti quali diversità prossimità, urbanità e generatività che possono arricchire 
il concetto di sostenibilità ed essere di indirizzo per le balinclie a tutte le scale, 
anche alla scala delle comunità e delle amministrazioni locali. 


La sostenibilità nella transizione ecologica e digitale 

La centralità del tema della sostenibilità, aperto 50 anni fa da “I limiti dello svi- 
luppo” promosso dal Club di Roma su impulso di Aurelio Peccei?, è cresciuta dram- 
maticamente dall’inizio della pandemia COVID-19, sulla base delle tante conferenze 
internazionali e dei programmi Green Deal e New European Bauhaus dell’Unione 
Europea. I cambiamenti, dal riscaldamento globale alla crescita demografica e alla 
globalizzazione, e alle conseguenti migrazioni, ci sollecitano a chiudere il lungo secolo 
XX° per aprirci ad una nuova visione sistemica della vita sul nostro pianeta, fondata 
su un equilibrio fra la specie umana e la vita naturale: una visione nuova da costruire 
e scoprire nei prossimi anni, nuove dimensioni di sostenibilità globale. 

Il 25 settembre 2015, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato 
l'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile nella quale si delineano le direttrici 
delle attività per i successivi 15 anni. I 17 Sustainable Development Goals SDG 
che compongono l'Agenda 2030 rappresentano il piano di azione globale per 
sradicare la povertà, proteggere il pianeta e garantire la prosperità per tutti. 

Proseguire nello sviluppo economico e sociale, che assicuri il soddisfacimento 
dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità di sod- 
disfare quelli delle generazioni future: è questa la definizione generalmente con- 
divisa di “sviluppo sostenibile” ovvero la compatibilità tra sviluppo delle attività 
economiche e salvaguardia dell'ambiente. 

I Sustainable Development Goals fanno riferimento a diversi domini dello 
sviluppo relativi a tematiche di ordine ambientale, sociale, economico ed istitu- 
zionale, delineando un piano d’azione globale per i prossimi 15 anni. 

L'obiettivo 13 “Climate Action” indica che per limitare il riscaldamento a 1,5° 
Celsius rispetto ai livelli preindustriali, come stabilito dall’Accordo di Parigi, le 
emissioni globali di gas serra dovranno raggiungere il picco prima del 2025. Quin- 
di dovranno diminuire del 43% entro il 2030 e azzerarsi entro il 2050. Molti paesi 
stanno articolando piani d’azione per il clima per ridurre le emissioni e adattarsi agli 
impatti climatici attraverso contributi determinati a livello nazionale. Tuttavia, gli 
attuali impegni nazionali non sono sufficienti per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C. 

La scelta politica di porre la questione dell'ecologia insieme alla smaterializza- 
zione digitale come transizione è l'evoluzione più recente del percorso verso una 
nuova società umana di cui siamo solo all’inizio, un processo che produrrà un 
grande cambiamento analogo a quello del passaggio alla produzione industriale 
di massa e alla sua prima smaterializzazione operata dall’organizzazione scientifi- 
ca del lavoro applicata alla produzione e quindi all’organizzazione delle città e dei 
territori e alla vita delle persone. 


2. Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jorgen Randers; William W. Behrens III, Ze Lim- 
its to Growth, 1972. (traduzione italiana: Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jorgen Randers; 
William W. Behrens II, / limiti dello sviluppo, 1972.) 


3. https://www.un.org/sustainabledevelopment/climate-change/ 


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Saverio Mecca 


Le emissioni globali di anidride carbonica (CO2) sono diminuite del 5,2% 
nel 2020 a causa della riduzione della domanda di energia causata dalle interru- 
zioni sociali ed economiche indotte dal COVID-19. Ma con la graduale elimi- 
nazione delle restrizioni legate al COVID, le emissioni di CO2 legate all'energia 
per il 2021 sono aumentate del 6%, raggiungendo il livello più alto di sempre. 
Complessivamente la riduzione delle attività economiche nel periodo della pan- 
demia non ha rallentato l'accumulo di biossido di carbonio CO2 e, quindi, non 
ha influito sull'aumento delle temperature, indicando che la sola austerità non 
può portarci a un'economia “a emissioni zero”. 

La concentrazione di produzione e residenza in ecosistemi metropolitani e 
urbani contribuisce ad un bilancio ambientale di non sostenibilità, le città con- 
sentono economie soprattutto di mobilità all’interno del modello novecentesco 
di concentrazione dell produzione, soprattutto industriale, ma non sono suffi- 
cientemente sostenibili da ridurre efficacemente l’accelerazione dell'aumento di 
biossido di carbonio, della temperatura media della superficie del pianeta, deter- 
minata da un insieme di fattori fra i quali la distruzione sistematica della natura 
per usi antropici, i disastri naturali e incendi boschivi, le isole di calore, etc. 

La transizione ecologica ha quindi bisogno di nuovi modelli di produzione e con- 
sumo (con relativi indicatori in grado di misurare anche la qualità dell'ambiente e il 
benessere percepito dalle persone), mentre gli stessi investimenti post-crisi devono 
porsi come obiettivo quello di accelerare la trasformazione economica ispirandosi ai 
principi del bene comune e di una nuova generatività equilibrata nei territori. 

La transizione ambientale si intreccia con la transizione digitale aprendo pro- 
spettive del tutto nuove sia sulla relazione fra luogo e tempo nel lavoro, nello 
studio e in tutte le interazioni sia sulla gestione dei da delle informazioni e delle 
conoscenze in tutti gli ambiti e in particolare nella gestione di sistemi complessi 
come gli insediamenti, molto oltre le “smart cities”: 

La digitalizzazione introduce una separazione tra prestazione lavorativa e 
luogo di lavoro; rompendo l’identificazione del lavoro più con il luogo dove si 
id (il posto di lavoro) che sulle attività che si svolgono. La separazione fra 
lavoro e luogo di lavoro si abbina alla flessibilità del tempo di lavoro: apre a in- 
novazioni non solo su spazio e tempo di lavoro, ma su i paradigmi e modelli di 
organizzazione, di direzione e di leadership che hanno caratterizzato la rivoluzio- 
ne taylorista-fordista. 

La digitalizzazione introduce le nuove potenzialità offerte dai “Big data” ge- 
oreferenziati, sia di origine satellitare sia di origine di piattaforme distali, dai 
Digital Twins e dalla Intelligenza Artificiale, possono aprono ad una rivoluzione 
negli strumenti di pianificazione degli ecosistemi (e anche negli strumenti di 
governo del territorio) che possono consentire alle comunità di gestire in modo 
aperto, trasparente e consapevole le informazioni provenienti da fonti molteplici 
operando sulla stretta relazione fra prossimità, benessere e salute nelle differenze 
di genere, generazionali e territoriali. 


Riscaldamento globale e adattamento 

Il tema del riscaldamento globale e di come, in modo caotico, questo modifi- 
chi il clima nei diversi luoghi è sempre più al centro del dibattito, dell'attenzione 
e preoccupazione degli organismi internazionali e dei cittadini, anche se vi è 
tuttora dibattito su credibili e complesse relazioni di causa ed effetto fra i fattori 


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Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni e diseguaglianze 


che determinano il riscaldamento globale e fra questo e i climi che influenzano la 
nostra vita sul pianeta. 

L'ecologia ci ha progressivamente introdotto ad una visione scientifica com- 
plessa, sistemica ed olistica, dell'ambiente e della vita in ogni sua forma, una 
visione oggi indispensabile per analizzare, modellare e gestire la relazione fra la 
specie umana e l’ambiente, una relazione che è cambiata e cambia per le tecno- 
logie di sfruttamento delle risorse naturali, le tecnologie di comunicazione e i 
processi di industrializzazione/urbanizzazione che si sono sviluppati negli ultimi 
due secoli. 

Se accettiamo una visione radicalmente ecologica, ovvero che la specie umana 
è una componente di sistemi ambientali complessi, ci rendiamo conto che la stra- 
tegia primaria è quella che tutte le specie viventi, specie umana compresa, stanno 
da sempre attuando, ovvero una strategia di adattamento4. 

Nell'insieme dei seminari promossi dall’Osservatorio di politiche Urbane e 
Territoriali è maturata una di sulle politiche territoriali nella transizione 
ambientale e digitale: la strategia è l'adattamento (la parola “lotta” è del tutto 
impropria), sia migrando verso condizioni ambientali migliori, sia non migrando 
ma adattando l’azione e le interazioni dell’uomo con l’ambiente. 

Possiamo attuare una strategia di adattamento sia cambiando le interazioni 
con l’ambiente, ovvero sviluppando le molteplici tecnologie, attuali e future, per 
ridurre le emissioni e aumentare la circolarità dei processi e modificando in nostri 
modi di abitare e produrre, sia migrando verso luoghi in cui le condizioni vita in- 
dividuale e di specie siano più accettabili, ovvero i sia più facile adattarsi con 
un minore consumo di risorse. Le piante e gli animali lo stanno facendo, anche se 
non sempre la velocità della migrazione è pari alla velocità del cambiamento del 
clima. Anche la specie umana lo ha sempre fatto e lo sta facendo: il cambiamento 
del clima è forse il principale fattore che ha generato e genera le migrazioni. 

Le transizioni ecologiche e digitali sono le nuove e necessarie tecnologie per 
costruire una complessa strategia di adattamento, di modifica della nostra intera- 
zione con i sistemi ecologici e il pianeta nella loro complessità. 

Le politiche urbane che si stanno sviluppando, dalla “smart city” alla rige- 
nerazione urbana e forestazione urbana, sono finalizzate all’adattamento degli 
insediamenti densi e strutturati che abbiamo creato negli ultimi tre secoli; l’adat- 
tamento mediante l’inversione dei flussi migratori verso aree climaticamente più 
compatibili con la diversità e la salute degli ecosistemi non è ancora nelle agende 
e nei progetti. 

La vera sfida che integra le transizioni con l'adattamento al cambiamento cli- 
matico è adattare le nostre società al clima che cambia, al riscaldamento globale e 
locale con i modi e i tempi possibili, mantenendo il livello di benessere 0, meglio, 
migliorandolo e riducendo le diseguaglianze del benessere per tutti gli esseri uma- 


ni, insieme a tutte le altre forme di vita secondo la visione “One Health”. 


5 “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella che si adatta meglio 
4 q ‘8 


al cambiamento.” Questa frase è stata attribuita a Darwin, ed è basata sugli studi approfonditi che lo 
stesso fece a proposito dell’evoluzione biologica a partire dal 1859. 


51 


Saverio Mecca 


Adattamento e riduzione delle diseguaglianze territoriali 

La strategia più naturale, più i la strategia che gli esseri viventi da 
sempre seguono nella terra, ovvero migrare spostarsi verso luoghi in cui ci si atten- 
de di trovare condizioni di benessere risponde, a seguito della pandemia, anche 
ad un cambiamento che ancora non è compreso nelle sue ragioni ma che forse si 
manifesta con il fenomeno del Great Resignation o le “Grandi Dimissioni”? che 
rivela un malessere diffuso e desideri di autorealizzazione e di crescita personale 
e sociale. 

Negli anni di pandemia e di clausura si è accelerato un fenomeno, che pos- 
siamo ricondurre alla biofilia (su cui intervengono in questo Bollettino France- 
sco Ferrini e Alessandro Miani) di progressiva rivalutazione del rapporto con la 
natura. A tal proposito, una recente indagine condotta dall’Istituto Nazionale di 
Analisi delle Politiche Pubbliche INAPP ha rilevato che un terzo degli occupati si 
sposterebbe in provincia, nelle aree interne, nell’entroterra e che quattro persone 
su dieci sono attratte da una dimensione sociale più semplice, una dimensione 
urbana minore e meno complessa, sostenibile e legata ai cicli della natura e a tem- 
pi più lenti, o comunque meno stressanti (Fig. 1). Inoltre, 1 lavoratore su cinque 
accetterebbe anche una eventuale penalizzazione retributiva, a dimostrazione che 
si sarebbe disposti a rinunciare ad una parte di reddito in cambio di un ipotetico 
miglioramento nella qualità della vita. 

Questo fenomeno è significativo: una strategia di riequilibrio e riduzione delle 
diseguaglianze, facilitata ora dalla smaterializzazione e dalla digitalizzazione dei 

rocessi, può porre le “aree interne”, le nostre aree di collina e montagna così dif- 
AAA antropizzate nel tempo e così ricche di diversità, come aree strategiche 
in una logica di economia circolare e di adattamento al cambiamento del ia 
perché possono consentire di ottenere risultati di benessere essenziali e sostenibili 
(aria, acqua e suolo, diversità biologica, energia) con un minore impiego di risor- 
se e di energia e con valori interessanti di sostenibilità globale e resilienza. 

In una visione geografico/antropologica la Regione Alpi e la Regione Appen- 
nino, purtroppo divisa amministrativamente in tante regioni, non sempre coor- 


2 da Gianni Rusconi, “Great resignation’: perché è un fenomeno in crescita e come rallentarla, 


Il Sole 24ore, 20 aprile 2022. https://www.ilsole24ore.com/art/great-resignation-perche-e-fenomeno- 
crescita-e-come-rallentarla-AEU3sfLB?refresh_ce 

“I fenomeno delle grandi dimissioni - precisa Tomaso Mainini, Senior Managing director Italia & 
Turchia di PageGroup (aziende di recruitment britannica) - si è sviluppato nel periodo dell'emergenza Co- 
vid-19 perché molti hanno iniziato a dare maggiore importanza alla qualità del lavoro e della vita privata, 
mettendo al primo posto i desideri di autorealizzazione e di crescita personale e sociale. .... 

Le motivazioni che inducono alle dimissioni volontarie non sono sempre del tutto scontate. Come emerge 
anche dall'ultima edizione del Randstad Workmonitor, è però certo che i lavoratori italiani hanno condotto 
in questi ultimi mesi una profonda riflessione su priorità, carriera e obiettivi professionali, riportando al 
centro l'interesse per il benessere, il coinvolgimento e i valori fondanti della vita. Sono dunque varie le ragioni 
principali per cui i lavoratori scelgono di lasciare un’organizzazione, e spaziano dalle relazioni professionali 
con i colleghi e i superiori all'aumento dello stipendio, dalla ricerca di un impiego più interessante ai valori 
aziendali in cui identificarsi, dal tempo da dedicare a sé stessi alla possibilità lavorare da remoto, dalle op- 
portunità di carriera a quelle di specializzazione in un ambito di interesse, dal clima aziendale al desiderio 
personale di cambiare e fare nuove esperienze” 

iù INAPP, Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori, 
Roma, Inapp, Policy Brief, n. 26, 2022. <https://oa.inapp.org/xmlui/handle/20.500.12916/3420> 


52 


Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni e diseguaglianze 


dinate, la spina dorsale della penisola dalla Liguria alla Calabria, è uno dei luoghi 
dove le specie viventi potranno migrare per trovare condizioni di benessere più 
sostenibili; le piante lo stanno facendo. 

La concentrazione nelle aree urbane forti delle attività e delle persone ha in- 
crementato la diseguaglianza territoriale fra le pianure e le colline e montagne, 
fra “l'osso e la polpa” secondo la felice immagine di Manlio Rossi Doria”, e ha, al 
contempo, richiesto una diseguaglianza di investimenti e richiede, oggi, gli inve- 
stimenti aggiuntivi necessari per compensare la difficile sostenibilità dei sistemi 
urbani: una insostenibilità che, in uno scenario di riscaldamento globale, sareb- 
be accentuata dagli ulteriori processi di urbanizzazione (che generano ulteriori 
diseguaglianze territoriali e abbandono di parti vitale del territorio “interno”) e 
rafforzata dalle dinamiche autoalimentate e incrementali di tutti processi urbani 
(trasporto pubblico, trasporto privato, servizi infanzia e scolastici, servizi sanitari, 
residenza, etc.). 

L'Italia, grazie alla sua struttura policentrica di insediamenti consolidati sto- 
ricamente e culturalmente, ha tanti luoghi e tanti insediamenti in cui migrare o 
meglio tornare ovvero invertendo il flusso determinato dalla industrializzazione 
delle pianure. 

Molti insediamenti possono e devono essere rigenerati e adeguati, anche se- 
condo un approccio di economia circolare, alle esigenze con minori risorse e un 
minore impatto sugli ecosistemi. Criteri di economia circolare, di neutralizzazio- 
ne delle emissioni di CO? e di produzione di energia rinnovabile possono con- 
sentire una maggiore efficacia ed efficienza degli interventi rigenerazione/genera- 
tività nelle aree interne e collinari e una risposta alle esigenze fi vita delle persone, 
di consapevolezza e responsabilità individuale e delle comunità, di conservazione 
sia degli equilibri idrogeologici che della diversità. 

In Italia la strada è stata aperta dalla Strategia nazionale delle Green Commu- 
nity SGC, prevista dall’articolo 72 della legge 28 dicembre 2015 n.221 che ha 
introdotto nella nostra legislazione la Green Economy e Green Communities, 
che aprono un nuovo La di gestione in cui la montagna, la collina e più in 
generale centri minori e i paesi possono trovare una loro centralità e un ul an- 
che in relazione alle aree urbane e metropolitane, per le politiche per l’ambiente, 
l’uso sostenibile delle risorse naturali, i servizi ecosistemici, la riduzione dei rischi 
idrogeologici e più globalmente la rigenerazione dei territori. La Green Economy 
informa l'insieme della società e costituisce il contesto della futura competizione 
sociale, economica, politica: non riguarda solo l'energia, ma l’insieme di tutte 
le dimensioni che ineriscono le dotazioni infrastrutturali, il modo di produrre e 
consumare, l’ambiente e il paesaggio, gli stili di vita e i comportamenti. 

La SGC ha l’obiettivo di facilitare la transizione verso economie a basse emis- 
sioni, pianificando e costruendo un modello innovativo e sostenibile di governo 
del territorio che punti prioritariamente: 

al rafforzamento economico e sociale delle comunità presenti sui territori, 
condizione per la manutenzione e la prevenzione del dissesto idrogeologico, la 
pianificazione del territorio abitato e naturale, la tutela del paesaggio, 


7. M. Rossi Doria, La polpa e l'osso: scritti su agricoltura, risorse naturali e ambiente, Napoli, L’An- 


cora del Mediterraneo, 2005 


53 


Saverio Mecca 


alla multifunzionalità e l’innovazione nell’agricoltura di montagna con il so- 
stegno a quella biologica, allo sviluppo di un turismo “dolce” e il rapporto con il 
paesaggio naturale e culturale, 

alla attivazione di comunità ospitali ad altissima prestazione di servizi territo- 
riali innovativi, 

alla gestione delle selvicoltura e dei bacini idrici in un'ottica di sicurezza e di 
gestione efficiente e sostenibile delle risorse. 

Il modello Green Community può essere il modello di riferimento per la 
rigenerazione dei centri minori e dei paesi si intrecciano temi sociali, economici, 
antropologici oltre che architettonici, immobiliari e urbanistici. Un paese torna 
a vivere se oltre alla ricostruzione dei muri si rigenera una comunità, che lì vive e 
fa impresa, si creano le condizioni per una distribuzione più equa delle persone e 
delle attività produttive, resa oggi possibile dalla digitalizzazione. 

I centri minori, luoghi delle cultura e della storia, possono essere il luogo 
di sperimentazione di nuovi modelli energetici, totalmente alimentati da fonti 
rinnovabili, piccole smart grid, aree deputate alla produzione energetica e all’ac- 
cumulo di energia, dell'innovazione e della imprenditorialità: sono luoghi dove 
produrre secondo i nuovi modelli di produzione, dove si è sempre prodotto, dove 
le comunità ne erano e ne sono protagoniste. Vale per le Alpi e per l’Appenino, 
vale per tutte le aree “interne” e deboli, anche di quelle comprese nelle vaste città 
metropolitane. 


Il benessere fondato sulla salute degli ecosistemi 

Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), Tedros 
Ghebreyesus, ha affermato: La pandemia ci ricorda il rapporto intimo e delicato tra 
gli esseri umani e il pianeta. Qualsiasi sforzo per rendere il nostro mondo più sicuro è 
destinato a fallire a meno che non si affronti l'interfaccia critica tra persone e agenti 
patogeni, e la minaccia esistenziale del cambiamento climatico, che sta rendendo la 
nostra Terra meno abitabile.* 

Una sola salute per gli umani, gli animali e l’ambiente: è questo il senso dell’ap- 
proccio One Health, dl ora costituisce l'orizzonte delle azioni: la sfida è metterlo 
in pratica attraverso una vera governance per la protezione e promozione della 
salute globale non più limitate alla sola salute umana. La visione olistica One 
Health, ossia un modello sanitario basato sull’integrazione di discipline diverse, 
è antica e al contempo attuale. Si basa sul riconoscimento che la salute umana, 
la salute animale e la salute dell’ecosistema siano legate indissolubilmente. È ri- 
conosciuta ufficialmente dal Ministero della Salute italiano, dalla Commissione 
Europea e da tutte le organizzazioni internazionali quale strategia rilevante in 
tutti i settori che beneficiano della collaborazione tra diverse discipline (medici, 
veterinari, ambientalisti, economisti, sociologi etc.). 

La One Health è un approccio ideale per raggiungere la salute globale perché 
affronta i bisogni delle popolazioni più Led sulla base della relazione tra 
la loro salute, Li dei loro animali e l’ambiente in cui vivono, considerando 


8 WHO Director-General Dr Tedros Adhanom Ghebreyesus, Address to the 73rd World Health 
Assembly, May 18th 2020 


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Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni e diseguaglianze 


l'ampio spettro di determinanti che da questa relazione emerge.? 

La visione One Health non si applica solo alle popolazioni più vulnerabili, 
vale per tutte le comunità perché significa dare la priorità a tutte le dimensioni 
ambientali fondamentali, quali l’acqua, l’aria, il suolo, l'energia (rinnovabile e 
comunque ad impatto minimo), la diversità biologica e culturale, tutte dimen- 
sioni indispensabili per assicurare la vita oggi e alle generazioni future. 

L'esperienza della pandemia ci ha aiutato a comprendere in modo ancora più 
immediato il ruolo della qualità dell’aria e in particolare di come la presenza di 
contaminanti (quali ad esempio il particolato atmosferico di cui ’OMS ha di 
recente rivisto al ribasso i limiti di sicurezza sanitaria) oltre ad essere essi stessi 
causa dell'insorgenza di patologie respiratorie e altri problemi, possano anche 
agire come veicolo per la diffusione (i coronavirus e di altri patogeni. La pande- 
mia ci ha mostrato come la qualità dell’aria, ad esempio, costituisca un elemento 
sostanziale per la salute delle persone e per quanto da essa deriva, ossia lo sviluppo 
delle società contemporanee e le prospettive per il futuro. 

Le sfide connesse alla transizione ecologica, di cui alle opportunità offerte dal 
“Green New Deal” e dalle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, 
rappresentano un'occasione unica per sviluppare azioni mirate al miglioramento 
complessivo della qualità degli ambienti esterni ed interni sia con il contenimen- 
to dei contaminanti dell’aria che respiriamo all’esterno come nei nostri luoghi di 
vita o di lavoro, sia con un diverso e maggiore equilibrio nella distribuzione degli 
insediamenti sul territorio. 

Ad esempio le isole di calore urbano, collegate ai cambiamenti climatici, 
all'inquinamento atmosferico e al depauperamento del verde urbano ed extra/ 
peri-urbano sono fattori di grande rilievo che impattano sul benessere comples- 
sivo delle persone e possono divenire un criterio per lo sviluppo di strategie di 
adattamento al cambiamento climatico favorendo “migrazioni” verso le aree in 
cui si hanno migliori condizioni per il benessere. 


Verso una nuova urbanità 

La politica di coesione territoriale dell’UE con lo Schema di Sviluppo del- 
lo Spazio Europeo si pone come un'attività di coordinamento trasversale delle 
politiche settoriali di competenza della EU. Il PNRR individua, come abbiamo 
ricordato all’inizio, nella valorizzazione delle diversità biologiche e culturali dei 
territori, nella riduzione costante e sistematica delle diseguaglianze di genere, 
generazionali e territoriali la condizione per uno sviluppo equo della società. 

Gli eventi “catastrofici” della epidemia COVID 19 e dell'invasione della 
Ucraina hanno mostrato a tutti non solo la fragilità degli insediamenti urbani e 
metropolitani, ma anche la non sostenibilità e la non accettabilità, secondo un 
principio di parità di cittadinanza, delle diseguaglianze territoriali, di genere e ge- 
nerazionali: le tradizionali concezioni oppositive, quali città/campagna, a 
menti di pianura/di montagna, stanzialità/mobilità, pubblico/privato, analogico/ 
digitale, oi studio/lavoro sono l’espressione di una visione che ha 
consentito sì una crescita economica e sociale importante, ma con costi di squi- 


° https://www.iss.it/one-health#:-:text=La%20visione%20olistica%200ne%20 
Health, dell’ecosistema%20siano%20legate%20indissolubilmente. 


55 


Saverio Mecca 


libri e diseguaglianze non più sostenibili, sia ambientalmente che socialmente ed 
economicamente. 

Le innovazioni tecnologiche cambiano le azioni e le interazioni, la prossimità 
fisica e aumentata e le diseguaglianze, il tempo e il luogo di lavoro e di studio, il 
benessere in relazione ai luoghi e alla prossimità con la natura e aprono ad una 
nuova concezione di urbanità degli insediamenti, che siano metropoli, città o 
paesi, fondata sulla prossimità fisica e aumentata e sulla generatività dei luoghi e 
delle comunità. 

La generatività costituisce un passaggio ulteriore rispetto agli indicatori di 
benessere multidimensionale, come il Pil, BES!° e gli SDGs (Sustainable De- 
velopment Goals) ed è la condizione necessaria per la felicità che si basa sulla 
speranza di una vita migliore per sé e per le generazioni successive, sulla capacità 
di mettersi gioco, di intraprendere e costruire per un fine capace di mobilitare le 
energie delle persone e delle comunità. La generatività può essere promossa cre- 
ando le condizioni affinché si possano strutturare aziende, fare ricerca e innova- 
zione e possano crescere organizzazioni sociali sui territori capaci di incrementare 
la complessità e la diversità grazie a una maggiore prossimità fisica e aumentata. 

In questo quadro il diritto alla prossimità, che trova il suo fondamento nella 
stessa Costituzione, è un fattore essenziale con cui possiamo generare e rigenerare 
le città e le metropoli e le comunità che le abitano in una più simbiotica relazione 
con la natura. 

La prossimità, fisica, immateriale e aumentata è condizionata dalla comples- 
sità e diversità di un ecosistema urbano o di un territorio: la complessità è deter- 


!° https://www.istat.it/it/benessere-e-sostenibilità. “I/ progetto per misurare il benessere equo e soste- 


nibile nasce con l'obiettivo di valutare il progresso di una società non soltanto dal punto di vista economico, 
ma anche sociale e ambientale. 

Il progetto BES nasce nel 2010 per misurare il Benessere equo e sostenibile, con l'obiettivo di valutare il 
progresso della società non soltanto dal punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale. A tal fine, 
i tradizionali indicatori economici, primo fra tutti il Pil, sono stati integrati con misure sulla qualità della 
vita delle persone e sull'ambiente. 

L'Istat, insieme al CNEL e ai rappresentanti delle parti sociali e della società civile, ha sviluppato un 
approccio multidimensionale per misurare il "Benessere equo e sostenibile” (BES) con l'obiettivo di integrare le 
informazioni fornite dagli indicatori sulle attività economiche con le fondamentali dimensioni del benessere, 
corredate da misure relative alle diseguaglianze e alla sostenibilità. Sono stati individuati 12 domini fonda- 
mentali per la misura del benessere in Italia. 

L'analisi dettagliata degli indicatori, pubblicata annualmente nel rapporto BES a partire dal 2013, mira 
a rendere il Paese maggiormente consapevole dei propri punti di forza e delle difficoltà da superare per mi- 
gliorare la qualità della vita dei cittadini, ponendo tale concetto alla base delle politiche pubbliche e delle 
scelte individuali. 

Nel 2016 il BES è entrato a far parte del processo di programmazione economica: per un set ridotto di 
indicatori è previsto un allegato del Documento di economia e finanza che riporti un'analisi dell'andamento 
recente e una valutazione dell'impatto delle politiche proposte. Inoltre, a febbraio di ciascun anno vengono 
presentati al Parlamento il monitoraggio degli indicatori e gli esiti della valutazione di impatto delle policy. 

A partire dal 2016, agli indicatori e alle analisi sul benessere si affiancano gli indicatori per il monitorag- 
gio degli obiettivi dell'Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile, i Sustainable Development Goals (SDGs) delle 
Nazioni Unite, scelti dalla comunità globale grazie a un accordo politico tra i diversi attori, per rappresentare 
i propri valori, priorità e obiettivi. La Commissione Statistica delle Nazioni Unite (UNSC) ha definito 
un quadro di informazione statistica condiviso per monitorare il progresso dei singoli Paesi verso gli SDGs, 
individuando circa 250 indicatori.” 


56 


Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni e diseguaglianze 


minata dalla diversità delle attività, dalle strutture, dalle associazioni e istituzioni 
presenti in un territorio, da quanto le attività sono differenziate le une dalle altre 
e quanto sono accessibili, non solo fisicamente. Come la complessità degli eco- 
sistemi naturali è determinata dalla biodiversità, cioè dalla diversità delle specie 
viventi, così la complessità degli ecosistemi “urbani” lo è dalla diversità delle or- 
ganizzazioni “urbane”, che svolgono un ruolo negli ecosistemi urbani simile a 
quello degli organismi viventi negli ecosistemi naturali. La complessità, se misu- 
rata come diversità, fornisce una visione del grado di multifunzionalità di ogni 
area territoriale. 

La prossimità è espressione della relazione soggettiva fra la persona e l’ambien- 
te, materiale e immateriale, è determinata dalla complessità dell’ambiente misu- 
rabile secondo un criterio di diversità: la prossimità esprime la relazione diretta e 
soggettiva, individuale e sociale, con la complessità, la diversità dell'ambiente in 
cui si abita, e pertanto è maggiore quanto è maggiore la diversità di un ambiente. 
In altri termini la prossimità fisica e aumentata dalla digitalizzazione delle azioni 
e interazioni (sufficiente pensare alla distribuzione commerciale) esprime la re- 
lazione delle persone con la diversità dell'ecosistema, non solo accessibilità fisica 
e virtuale ai iopli e agli spazi, ma anche prossimità relazionale fra le persone, 
i luoghi e il patrimonio intangibile. Le potenzialità offerte dalla digitalizzazione 
come espansione della prossimità con una nuova relazione fra i luoghi fisici e 
gli spazi virtuali in cui agiremo e interagiremo, aprono a nuove dinamiche di 
differenze di genere, generazionali e territoriali e a nuove e radicali prospettive di 
azione per il soddisfacimento del diritto alla prossimità non solo nelle aree urba- 
ne, ma anche nelle aree “interne” aumentandone il carattere di urbanità. 

Possiamo quindi comprendere come ogni politica di riduzione delle disegua- 
glianze debba misurarsi ed essere misurata di della complessità/diver- 
sità delle aree deboli, ovvero della urbanità dei territori. 

L'urbano, l’urbanità intesa come molteplice potenzialità di coniugazione di 
convivialità con prossimità fisica e, oggi, aumentata, non appartiene più alle sole 
‘città tradizionalmente intese, ma nelle transizioni di italo ed ecologica può e 
deve generarsi, pur in varie forme, in sistemi ii “urbani” sostenibili, re- 
silienti e generativi, oltre la schematicità oppositiva di città/campagna, aree forti 
e aree deboli. 

È sempre più diffusa la convinzione che solo una visione e una politica terri- 
toriale, urbana regionale, fondata su una radicale sostenibilità ambientale, (aria, 
acqua, One Health, suolo, energia, diversità) unita ad una cittadinanza piena, 
intesa come diritto ad equivalenti possibilità indipendenti da dove si sia scelto di 
abitare possa valorizzare le risorse inespresse della società e sostenere la transizione 
verso nuovi modi di abitare. 

La “rigenerazione urbana” è ancora centrata sulle dimensioni edilizie e immo- 
biliare-finanziarie in una visione che separa le città dai loro territori; la prossimità 
materiale e immateriale, fisica e relazionale, diretta e aumentata, di comunicazione e 
di emozione, può costituire l’obiettivo e il criterio di valutazione che può guidare 
i processi di rigenerazione dei territori, urbani e non urbani nei prossimi anni, 
nel quadro sia dell'Agenda Urbana 2030 promossa dall'ONU che ib strategia a 
lungo termine della Unione Europea per un'economia prospera, moderna, com- 
petitiva e climaticamente neutra entro il 2050. 

Una politica urbana e territoriale che persegua gli obiettivi (proposti sia dal 


57 


Saverio Mecca 


Next Generation EU, e dal progetto New European Bauhaus) di sostenibilità, 
inclusione ed estetica, può trovare nella prossimità fisica e aumentata l’obiettivo 
di valore; per il riequilibrio dei territori assume al tempo stesso il ruolo di valore 
di diritto di ciascun cittadino e di criterio per misurare e valutare la dimensione 
spaziale territoriale del benessere generato dai progetti riguardo ai servizi e alle 
infrastrutture, agli spazi e ai luoghi collettivi, alla gna con la natura selvatica 
e la natura “curata”. 

In questa accezione la prossimità riguarda sia chi abita nei sistemi urbani più 
consolidati e sia chi abita nelle aree che si sono indebolite e svuotate per i processi 
migratori interni, che hanno diritto ad equivalenti possibilità indipendentemente 
da dove abbiano scelto di abitare, oltre il genere o il reddito, un diritto che sarà 
essenziale per la sostenibilità e la resilienza delle comunità del XXI secolo in una 
nuova unione fra natura e cultura. 


Prossimità e riduzione del divario di cittadinanza 

Le grandi città come Parigi seguita da Barcelona, Milano, Firenze e tante altre 
hanno lanciato messaggi e progetti per “la città dei 15 minuti” (un modello che 
si riferisce soprattutto alle Lui mal urbanizzate e che riduce la prossimità alla 
distanza fisica da alcuni servizi fondamentali, in particolare di mobilità pubblica), 
altri hanno parlato di nuovi “borghi”: la dimensione della mobilità è importante, 
sottintende le ragioni del perché e come muoversi, ma, al di là dell'efficacia del 
messaggio, esclude tutti coloro che hanno mobilità diversa e diminuita e riduce 
la ricchezza e la complessità dell'esigenza di prossimità, mentre il concetto di 
“borgo” sembra suggerire nostalgie e ritorni al passato. 

La prossimità non è solo riduzione dei costi economici e ambientali della 
mobilità delle persone; prossimità significa l'accessibilità a tutti i servizi di base, 
da quelli sanitari della prevenzione, della cura e della telemedicina che dovranno 
essere diffusi nel territorio e non più concentrati in poche strutture ospedaliere, a 
quelli dell'educazione e della formazione, valorizzando le possibilità offerte dalle 
nuove tecnologie, a quelli commerciali di base, alle biblioteche e ai luoghi di so- 
cializzazione, a quelli della cura del corpo, agli spazi pubblici e agli spazi di gioco 
e di sport, di teatri e di cinema, alle forme di autogoverno delle comunità, alla 
rete di dati e di informazioni, che rendano possibile la nuova prossimità digitale 
con tutte le implicazioni che stiamo scoprendo e sperimentando. 

La salute, l'educazione e la formazione sono fondamentali per le persone e le 
comunità, il rafforzamento della prossimità fisica e aumentata è uno strumento 
per riequilibrare i nostri territori costruire nuovi e migliori ambienti di vita, più 
sani, inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili. 

La prossimità però non è solo un parametro che può misurare la capacità di 
un ambiente di creare benessere, ma è anche la condizione per la generatività 
economico-sociale11 di territori e comunità. Una politica di crescita economica 


!! Leonardo Becchetti, La statistica e il senso del rapporto. La rivoluzione verso la felicità, Avve- 


nire, 16 settembre 2022: “.... la generatività ha contenuti precisi che mettono in correlazione positiva la 
capacità del nostro agire di produrre risultati positivi sulla vita altrui e la soddisfazione di vita. Se questa è 
la chiave della generatività individuale, la “generatività pubblica” dei territori consisterà nel creare le condi- 
zioni migliori affinché i cittadini che li abitano possano avere una vita generativa, superando ostacoli legati 


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Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni e diseguaglianze 


e sociale e di innovazione della governance fondata sulla generatività, e di quindi 
sulla riduzione delle diseguaglianze di prossimità e di diversità dei territori, può 
condurre i territori e le comunità italiane delle aree interne, e non solo, attraverso 
le transizione ecologiche e digitali verso una crescita armonica e un benessere 
equo e sostenibile caratterizzata da nuovi modi di “produrre” ed “abitare”. 


Agire localmente e globalmente 

Molte sono le esperienze maturate in questi anni sulla strategia delle “aree 
interne”, sia a livello centrale che soprattutto regionale e in particolare alle aree 
montane delle Alpi e dell'Appennino. Particolarmente efficace l’azione sviluppata 
da UNCEM"? in questi anni per la valorizzazione delle economie e delle comuni- 
tà montane, in modo ea sui temi della riduzione dei rischi idrogeologici, 
della economia della montagna e in particolare delle Green Communities!5. 

Un principio generale è che lo sviluppo per essere generativo, ovvero generare 
crescita e benessere sostenibile e ul sr essere endogeno e ciò possa ot- 
tenersi solo mobilitando tutte le risorse materiali e immateriali localmente dispo- 
nibili. E necessario che sia la comunità locale, nelle sue diverse articolazioni, ad 
essere - a dover essere - il soggetto progettista e motore dello sviluppo locale: solo 
così un progetto di crescita generativa locale può, fondandosi sulla conoscenza 
del luogo e delle sue risorse materiali e immateriali, comprendere e valorizzare le 
diversità delle aree interne e deboli. 

Le comunità locali, le amministrazioni comunali singole o meglio associate 
sono i primi e principali soggetti per lo sviluppo di progetti attuabili capaci nelle 
transizioni _ iche e digitali; in un quadro di potenzialità offerte dai progetti 
del PNRR colino le risorse complementari si possono individuare molte- 
plici linee di azione efficaci per incrementare benessere e generatività del proprio 
territorio: fra le altre possiamo individuarne alcune che agiscano sul medio lungo 
periodo per costituire le basi per una crescita generativa, ovvero produttrice di 
benessere equo, sostenibile e durevole quali ad esempio: 


n) 


a reddito, salute, età, discriminazioni e altre condizioni di vita. ..... il concetto di “generatività pubblica” 
definito sulla base delle evidenze empiriche più recenti converge verso quell'idea di bene comune ... definito 
come «le condizioni che rendono più piena e veloce la realizzazione di vita delle persone». Gli indicatori 
chiave per misurare la generatività dei territori nel rapporto sono la longevità attiva, che è un risultato della 
generatività applicato alla sfida dell'età che avanza, una quota bassa di “Neet” (i giovani che non lavorano 
né studiano) ovvero di giovani che non cadono nella trappola dell'assenza di generatività e, ovviamente, tutto 
ciò che misura la capacità di un territorio di favorire la nascita di imprese, organizzazioni sociali e famiglie, 
rimuovendo ostacoli come accesso al credito e accesso all'istruzione. Dal punto di vista dei processi sociali, la 
chiave della generatività è nella numerosità e fertilità dei percorsi di partecipazione, di cittadinanza attiva, 
di co-programmazione e co-progettazione tra cittadini, reti di organizzazioni ed amministratori locali.” 

1? Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani è l’organizzazione nazionale unitaria, 
presente in ogni realtà regionale con proprie delegazioni, che da 70 anni raggruppa e rappresenta i 
comuni interamente e parzialmente montani le comunità montane e le Unioni di comuni montani, 
oltre ad associare varie amministrazioni ed enti (province, consorzi, camere di commercio) operanti 
in montagna, per un bacino territoriale pari al 54% di quello nazionale e nel quale risiedono oltre 10 
milioni di abitanti. 

13 UNCEM, Smart & Green Community. Coesione, crescita inclusiva, sostenibilità per i territori, 
L’'ARTISTICA EDITRICE, Savigliano (CN) 2017. https://uncem.it/wp-content/uploads/2022/02/ 
UNCEMSmart_GreenDEF-1.pdf 


59 


Saverio Mecca 


ad incrementare la diversità e prossimità fisica e aumentata degli insediamenti 
“urbani” anche mediante l’accesso locale alla digitalizzazione, 

a sviluppare nuovi modelli di governance dei processi di sviluppo sostenibile, 

alla cura e valorizzazione produttiva e fruitivi dei boschi. 


a) incrementare la diversità e prossimità fisica e aumentata degli insediamenti 

Se la prossimità fisica e aumentata è una condizione necessaria per avviare una 
politica di crescita materiale e immateriale fondata sulla generatività, in questo 
senso può essere considerata un diritto fondamentale di tutti i cittadini. 

La prossimità è un diritto individuale, collettivo e delle comunità alla prossi- 
mità che riguarda i servizi e le infrastrutture materiali e digitali, gli spazi e i luoghi 
pubblici, la natura selvatica e la natura “curata”, un diritto che appartiene a chi 
abita nei sistemi urbani sia più consolidati che marginali e a chi abita nelle aree 
che si sono indebolite e svuotate per i processi migratori interni. È un diritto ad 
equivalenti possibilità indipendentemente da dove si sceglie di abitare, oltre il 
genere o il reddito, per poter intraprendere, lavorare, studiare, abitare, un diritto 
che è essenziale per la crescita sostenibile e la resiliente delle comunità del XXI 
secolo per il quale le amministrazioni possono impegnarsi agendo con tutte le 
leve di cui dispongono. 

A livello locale, comuni e aggregazione di comuni, si può agire dandosi l’o- 
biettivo di aumentare la diversità degli insediamenti e prossimità non solo per 
costruire nuovi e migliori ambienti di vita, più sani, inclusivi, sicuri, resilienti e 
sostenibili, ma ambienti capaci di valorizzare le risorse e le capacità delle persone 
di intraprendere, lavorare e produrre. Diversità e prossimità non sono impliciti 
in ogni insediamento, sono il risultato di decisioni amministrative e politiche 
continue e orientate. 

Localmente è oggi necessario sostenere la prossimità aumentata, l'accessibilità 
digitale a beneficio del lavoro, della formazione e della prevenzione e cura della 
salute delle persone e consentendo una maggiore libertà di scelta sia di abitazione 
sia di accesso a servizi, riducendo le diseguaglianze e le dinamiche di abbandono 
degli insediamenti più deboli. 

La prossimità ha un carattere multidimensionale e pertanto molte sono le 
azioni possibili e necessarie in una visione sistemica, ovvero non secondo criteri 
di progettazione, valutazione e gestione parcellizzati e settoriali ma con valutazio- 
ni e Gibue lobali sull’accessibilità a: 

i servizi di base, da quelli sanitari della prevenzione, della cura e della teleme- 
dicina diffusi nel territorio, 

i servizi dell'educazione e della formazione, valorizzando le possibilità offerte 
dalle nuove tecnologie, 

la rete di dati e di informazioni 

i servizi commerciali di base e la posta, cosiddetti di prossimità, 

li spazi pubblici come spazi di dia e socializzazione oltre che di identità, 

e biblioteche e i luoghi di socializzazione, 

i luoghi per ui quali teatri e cinema, 

la cura del corpo, 

li spazi di gioco e di sport, 
e forme di autogoverno delle comunità, 


60 


Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni e diseguaglianze 


b) i Patti territoriali di comunità 

Nelle riflessioni e nelle esperienze italiane ed europee è oramai consolidata la 
valutazione che sia la comunità locale, nelle sue diverse articolazioni e nelle sue 
specificità, la protagonista dello sviluppo locale. 

La politica dei “patti” avviata nella seconda metà degli anni ‘90 del secolo 
scorso e non solo in Italia, ha visto trasformarsi la dimensione collettiva e co- 
munitaria in una sommatoria di micro-interessi individuali e in una sostanziale 
frantumazione e dispersione delle risorse disponibili. 

Lo strumento pattizio, ricondotto agli schemi di governance dei processi di 
sviluppo per privilegiare un percorso progressivo di formazione del consenso 
piuttosto che il ricorso a determinazioni Ki autorità, un consenso che nasca da 
una condivisione armonica della direzione di senso e non dall’esercizio dell’au- 
torità, attuando un principio di sussidiarietà che non può risolversi certo in un 
mero criterio manualistico di distribuzione delle competenze e dei poteri, ma 
deve operare anche a stregua di direzione di senso dell’agire pubblico e collettivo 
nella promozione di una autonomia costituzionalmente fondata dei corpi sociali 
e dei livelli istituzionali: è necessario che lo strumento pattizio consideri tutti gli 
stakeholder non soltanto come portatori di interessi specifici, da controllare, ma 
soprattutto portatori di competenze ed esperienze da ascoltare con attenzione 
consentendo anche all’autorità amministrativa e ai soggetti istituzionali di ac- 
quisire le informazioni migliori per delineare le policies di interesse. Il modello 
partecipativo del “patto” 1 operare, per poter produrre i risultati attesi, in 
funzione complementare e non sostitutiva della capacità di government degli ap- 
parati amministrativi, le cui risorse istituzionali sono essenziali per conseguire il 
risultato attese e garantendone la continuità nel tempo, inibendo comportamenti 
eventualmente opportunistici e assicurando la trasparenza delle decisioni assunte. 
Le Green Communities e le più recenti Comunità Energetiche Rinnovabili, non 
solo sono esempi di governance di processi di sviluppo ma anche rispondono alle 
priorità di sostenibilità ambientale, a cui i territori devono rispondere. 


c) Il valore del bosco e della natura 

Anche a livello locale, non solo regionale e nazionale, è possibile un approccio 
sistemico, una visione olistica, che indirizzi le politiche locali verso una du 
nomia basata sulla natura, sul bosco e sulla filiera del legno e le attività produttive 
sostenibili e durevoli capace di contribuire sia alla mitigazione del cambiamento 
climatico e dei rischi idrogeologici che alla crescita delle aree interne e montane/ 
collinari. La Strategia nazionale delle Green Community SGC, prevista dall’ar- 
ticolo 72 della legge 28 dicembre 2015 n.221 può costituire il modello con cui 
possono essere sviluppati Progetti delle comunità, più ampie delle singole ammi- 
nistrazioni, anche integrando progetti secondo il modello delle Comunità Ener- 

etiche Rinnovabili; i progetti dl. dalle Green communities per la filiera 

1: potrebbero perseguire obiettivi quali: 

aumentare gli stock di carbonio (“net sink”) nei terreni forestali e nei prodotti 
di legno raccolti (HWP), 

contribuire agli obiettivi di riduzione del biossido di carbonio nell'atmosfera. 

utilizzare il legno e complessivamente le biomasse per sostituire altri materiali 
o combustibili fossili, 

sviluppare imprenditorialità della filiera del legno e dei materiali naturali, 


61 


Saverio Mecca 


sviluppare ricerche multidisciplinari per costruire da una parte modelli digita- 
li degli ecosistemi forestali in grado di sostenere la pianificazione di un sistema ad 
alta complessità, e dall’altra filiere locali della din della materia prima 
e del riciclo, 

riequilibrare i territori sostenendo i processi di crescita delle aree interne, ru- 
rali, collinari e montane. 


Una nota di riflessione su San Miniato, ma non solo 

I molteplici temi, sia pure sommariamente trattati, non sono solo temi di 
interesse nazionale o regionale. Ogni politica orientata alla sostenibilità per avere 
successo richiede che le comunità locali e la loro espressione politica e ammini- 
strativa ovvero i comuni si assumano le proprie responsabilità nelle scelte e nelle 
decisioni, anche parziali, anche minori e ne valutino gli effetti secondo una visio- 
ne ampia, sistemica e e rigorosa di sostenibilità ambientale, sociale, economica e 
culturale. 

Quando un’amministrazione assume decisioni secondo una visione ed obiet- 
tivi prioritari, questi devono essere valutati nei loro effetti immediati e nel tempo. 
Oggi in un quadro di obiettivi generali riconducibili alla sostenibilità in senso 
globale ogni decisione deve essere valutata secondo criteri non solo di impatto 
sull'ambiente, ma soprattutto sul benessere equo e sostenibile dei cittadini. 

La diversità e la prossimità (che come si è detto misura la relazione fra gli abi- 
tanti e la diversità dell'ecosistema urbano) sono i parametri fondamentali su cui 
si deve agire per assicurare condizioni di benessere e generatività a tutti i cittadini, 
prioritariamente agli abitanti. La politica cui assistiamo a San Miniato, non pre- 
vista esplicitamente nei documenti di programmazione urbanistica, sembra per- 
seguire obiettivi, e già ottenere effetti negativi di diversità e prossimità, effetti che 
dii ulteriormente la diversità e la prossimità dell’abitato di San Miniato. 
La scelta di sostenere la massima diffusione di esercizi di ristorazione sta trasfor- 
mando San Miniato in un centro di consumo di ristorazione con un bacino di af- 
fluenza ampia. Tutto sembra una buona cosa, ma l’effetto reale oggi, e nel tempo 
ancor di più, è l’impoverimento della diversità e ricchezza di San Miniato perché 
sacrifica chi ci risiede, impoverisce i servizi e gli esercizi di prossimità diversi e 
disincentiva e disincentiverà la residenza anche nel suo ciclo di rinnovo continuo. 

Possiamo domandarci quanto questi gravi effetti siano stati valutati dalla am- 
ministrazione, se su questa politica, quasi radicalmente contraria alla sostenibili- 
tà, sia stato chiesto il consenso consapevole ai cittadini residenti e se a suo tempo 
questa politica sia stata esplicitamente dichiarata nel programma elettorale. 

Questa visione e strategia non sono nuove e tanto meno innovative, anzi han- 
no già mostrato tutti i limiti e gli effetti distruttivi, una politica che alla fine sta 
privatizzando il patrimonio pubblico costituito da piazze e strade e rendendo 
meno attraente abitare e vivere a San Miniato. 

La sensazione è che l’ordinanza che ha istituito in modo perenne la chiusura 
del centro fino alle 5 del mattino (una chiusura priva di qualunque giustificazio- 
ne anche tecnica) a beneficio di pochi privati sia di dubbia legittimità: una cosa è 
la chiusura al traffico per un evento speciale e una cosa è una chiusura sistematica 
che non solo genera disagio ai residenti, disincentiva la residenza, che è la con- 
dizione ineliminabile per la vitalità e la generatività di un insediamento, e tutto 
ciò per il vantaggio di alcuni privati, certo non per gli abitanti di San Miniato. 


62 


Diversità e prossimità per la generatività dei territori fra transizioni e diseguaglianze 


Si sposterebbe in un luogo isolato a contatto con la natura BOS GG, 415 
(campagna, montagna, ecc.) 3 


Sarebbe disposto/a a rinunciare a una piccola parte di 
stipendio/guadagno 


Fig. 1: INAPP, Il lavoro da remoto: le modalità attuative, gli strumenti e il punto di vista dei lavoratori, 
Roma, Inapp, Policy Brief, n. 26, 2022 


63 


Biofilia: un legame innato tra uomo e natura 


ALESSANDRO MIANI' 


“La biofilia è la tendenza innata a concentrare la nostra attenzione sulle forme 
di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotiva- 
mente”. Con queste parole nel 1984, Edward O. Wilson, biologo statunitense 
definiva la biofilia. Per Wilson l’uomo è inserito in una sorta di “Web of life”, una 
inestricabile tela della natura, della quale partecipa insieme a tutti gli altri esseri 
viventi. L'uomo ne è parte integrante e non solo uno spettatore e la biofilia è 
nient'altro che l’innato impulso ad affiliarsi alle altre forme di vita che condivido- 
no il nostro habitat, sia esse vegetali, minerali o animali. Numerosi studi hanno 
dimostrato che più del 90% delle persone immagina di trovarsi in un ambiente 
naturale quando gli viene chiesto di pensare a un luogo in cui sentirsi rilassati e 
calmi. Infatti, immergersi nella natura o stare vicini ad essa ci fa sentire bene: in 
sostanza, il nostro benessere psicofisico dipende molto dal quanto tempo trascor- 
riamo in un ambiente naturale. Ciò influisce anche sulla nostra produttività al 
lavoro e sullo stato di salute generale. 

Con il passare degli anni la biofilia ha trovato sempre maggiori estimatori 
nella comunità scientifica, oltre che tra i designer e gli architetti. Nella proget- 
tazione di interni e di edifici si è fatta sempre più strada la convinzione di 
interconnessione tra alcuni dei disturbi moderni e il design di molti edifici di re- 
cente costruzione ad uso abitativo o di lavoro. Richard Louv, giornalista e saggista 
americano, ha coniato il termine “deficit di Natura” per descrivere le sensazioni 
di stanchezza, depressione, stress, calo di attenzione, aumento di allergie e stati 
asmatici di comune insorgenza negli ambienti urbani. Nasce da qui il cosiddetto 
design biofilico, una concezione che unisce elementi naturali ai principi dell’archi- 
tettura: massimizzare la luce diurna, ottimizzare le vedute sulla natura, impiegare 
materiali naturali e oggetti vivi, ad esempio le piante da interni e i giochi d ac- 
qua. Il biologo italiano Giuseppe Barbiero, ricercatore dell’Università della Val 
d'Aosta e la collega psicologa Rita Berto hanno dimostrato che fare brevi pause 
in mezzo agli alberi aiuta gli studenti a ricaricare le batterie mentali con una ve- 
locità maggiore del 30% rispetto a quelli che fanno le tradizionali ricreazioni fra 
i banchi. Studi successivi mostrano i benefici positivi derivanti dall’interazione 
dell’uomo con la natura: migliore produttività, livelli inferiori di stress, migliore 
apprendimento e persino migliori capacità di recupero dopo una malattia. Lo 
stress fisiologico o l'ansia (misurata in termini di aumento della frequenza cardia- 
ca e pressione sanguigna) è spesso inferiore dopo l'esposizione a piante e natura 
rispetto agli ambienti urbani (Berman et al., 2008). 


! Presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale 


65 


La ricerca ha dimostrato che la biofilia aumenta le prestazioni scolastiche dei 
bambini e persino la propensione alla spesa da parte dei consumatori, così come 
riduce i livelli di ansia e stress preoperatorio in caso di cure ospedaliere. La let- 
teratura scientifica sembra confermare addirittura che un bambino che vive a 
maggiore contatto con la Natura sia più rina in termini di funzioni 
cognitive o capacità attentiva rispetto a chi è abitualmente immerso in ambienti 
altamente antropizzati o aniicali (talora anche degradati o per nulla belli ancor- 
ché funzionali). Una ricerca svedese ha dimostrato che i bambini in età prescolare 
sono più concentrati quando giocano in uno spazio verde rispetto ad un’area 
giochi (Grahn, 2000). È la variabile ambientale non conosce limiti di età. Infatti, 
dalle osservazioni prodotte dalla ricercatrice Carolyn Tennessen nel 1995 emer- 

e che anche gli studenti universitari che godono della vista della Natura dalla 
nestra della propria stanza del “College” hanno una migliore capacità attentiva. 

Alcuni autori sostengono che una relazione intima con la Natura, special- 
mente durante l’infanzia, sia indispensabile per instaurare legami significativi e 
generare sentimenti positivi nei confronti laica (Chawla, 2002; Kellert, 
2002; Colucci-Gray, 2006), oltre ad essere essenziale per lo sviluppo armonioso 
della personalità (Kellert, 1997; Kahn, 1999; Camino, 2005; Louv, 2005; Bar- 
biero, 2011). Infatti, la perdita di contatto con il mondo naturale, tipica della 
nostra epoca moderna, può causare seri danni allo sviluppo psico-fisico dei bam- 
bini, impoverendone le capacità sensoriali, rendendo meno efficace il pensiero e 
inaridendone la spiritualità (Vegetti Finzi, 2006; Barbiero, 2009). 

Le persone che osservano dalla propria scrivania elementi naturali come ac- 
qua, alberi o campagna hanno livelli di benessere maggiori rispetto alle persone 
che hanno una vista di edifici, strade o cantieri (Spazi umani, 2015). Tuttavia, 
uno studio ha rilevato che solo il 58% dei lavoratori ha luce naturale che rag- 
giunge la propria scrivania e il 7% non ha affatto finestre, una chiara indicazione 
che i vantaggi di portare la natura al lavoro non sono apprezzati o applicati a suf- 
ficienza nei luoghi di lavoro. Se poi gli uffici si trovano nel centro di una grande 
città, è possibile portare la natura {rr piante, alberi, fontane d’acqua e 
immagini della natura sono tutti modi per aggiungere un elemento biofilo a uno 
spazio d’ufficio, aumentare la connessione n i dipendenti hanno con la natura 
e raccogliere i benefici che questa semina. Quando s’introducono piante negli 
uffici (anche solo una pianta per metro quadrato) le prestazioni dei dipendenti 
sulla memoria, sulla concentrazione e su altri fattori migliorano sensibilmente. 
Piante e fiori fanno molto di più che aggiungere dettagli di arredo in un interno, 
possono creare una sensazione completamente diversa verso quel luogo. Ciò che 
era grigio e insignificante può essere trasformato in uno spazio intimo, stimolante 
o più rilassante. Una parete decorata con piante vere o con del muschio miglio- 
reranno l’acustica assorbendo il suono. Disporre piante sulla parte superiore dei 
mobili da ufficio può ridurre il disordine rimuovendo le aree in cui le persone 
lasciano tazze e cartelle o stampe inutilizzate. Oppure, sostituite dei divisori in 
plastica con vasi colmi di piante vive per ottenere i vantaggi e l’attrattiva del ver- 
de. Realizzare aree verdi per la pausa di mezza giornata o spazi per riunioni infor- 
mali in uffici open space può davvero migliorare la ripresa delle attività lavorative. 

Il dottor Craig Knight dell’Università di Exeter ha studiato gli effetti che am- 
bienti di lavoro “neutri” (ovvero senz'anima) hanno sui dipendenti nell’arco di 
10 anni. I risultati sono sorprendenti e mostrano che la produttività dei dipen- 


66 


Biofilia: un legame innato tra uomo e natura 


denti aumenta del 15% quando gli ambienti di lavoro — ancorchè “snelli” sono 
riempiti con qualche pianta d’appartamento: sembra che la cosa importante fosse 
che tutti potessero vedere almeno una pianta dalla loro scrivania. Ciò equivale a 
dire che se si lavora in un ambiente dove c’è qualcosa che coinvolge psicologica- 
mente la persona, si è più felici e si lavora meglio. 

Un “case study” esemplare è quello del Call Center Californiano LEED Gold 
del Sacramento Municipal Utility District in California, dove la ricercatrice Lisa 
Heschong ha scoperto che i dipendenti spostavano le loro sedie girevoli per vede- 
re gli alberi del parco su cui davano le loro finestre: con un investimento di 1.000 
dollari in piante e modificando le postazioni, in modo che tutti potessero vederle 
nella loro visione periferica, l’efficienza nella gestione delle chiamate aumentava 
del 6% nell’efficienza, con un ritorno di 2.990 dollari (pari a un ritorno dell’in- 
vestimento del 299%). I dipendenti d’azienda che possono addirittura disporre 
a proprio piacimento della pianificazione del loro spazio di lavoro, non solo si 
percepiscono come più felici (dimensione che impatta in modo determinante sul 
loro benessere e stato di salute complessivo), ma riescono ad essere anche fino al 
32% più produttivi. 

In un'epoca in cui le aziende hanno conoscenze sufficienti per capire gli effetti 
che gli ambienti di lavoro hanno sul personale, potrebbe essere un'opportunità 
unica quella di utilizzare le piante per migliorare il luogo di lavoro e la propria 
immagine trasmessa all’esterno. I benefici che la biofilia porta con sé vanno i 
oltre i vantaggi pratici del riciclaggio dei materiali e della purificazione dell’aria. 
Le persone esposte ad un ambiente naturale hanno maggiori energie, si sentono 
meno stressate e hanno una maggiore capacità di attenzione. Immaginate quante 
buone notizie per molte aziende. La presenza di piante e materiali naturali in 
uno spazio di lavoro non sono più da considerare come stravaganze ma un modo 
per risparmiare sui costi e generare profitti. Può sembrare un compito arduo ma 
portare piante nello spazio dell'ufficio e coltivare aria pulita non è mai stato così 
facile. Visto che si trascorre così tanto tempo al lavoro, perché non creare il mi- 
glior ambiente possibile per i dipendenti? 

C'è un motivo perché le piante hanno questo effetto sui di noi. 

Una prima spiegazione è che le piante, essendo organismi viventi come noi, 
hanno un'influenza benefica sul clima dell'ambiente di lavoro, in particolare per- 
ché ne migliorano la qualità dell’aria. Le piante da interno, se utilizzate in quan- 
tità adeguate e con specie idonee, rimuovono molti tipi di inquinanti atmosferici 
da fonti interne ed esterne. Inoltre, il benessere del personale aumenta e si ridu- 
cono i giorni di malattia. Al contrario, le prestazioni degli studenti diminuiscono 
all’aumentare dei livelli di CO2 e così accade per la produttività sul posto di 
lavoro. 

Una seconda spiegazione afferma che, dal punto di vista evolutivo, un am- 
biente verde richiama il mondo naturale primordiale e supporta la fisiologia uma- 
na. Una terza spiegazione consiste nel fatto che se si ina il luogo di lavoro 
con le piante, significa che sono stati fatti tentativi da parte della direzione per 
migliorare il benessere del personale. Questo comunica l’attenzione della pro- 
prietà al benessere dei dipendenti, che può portare a una maggiore attenzione 
sul lavoro, una maggiore produttività e impegno e una minore assenza. Quando 
siamo felici e ci sentiamo a abbiamo una visione positiva e generalmente sia- 
mo in grado di fare di più. La produttività e il benessere possono essere migliorati 


67 


Alessandro Miani 


includendo i dipendenti nel processo decisionale e dando loro una voce su come 
arredare il loro posto di lavoro. 

Per ottenere un'integrazione efficace della progettazione biofilica nella nostra 
vita e coglierne i benefici, è opportuno seguire alcuni principi base: 


Stabilire una connessione visiva con la natura 

È utile inserire negli spazi interni delle piante ed elementi naturali, cercando 
di creare una sorta di effetto giungla tropicale, se possibile; cercare di creare una 
connessione visiva con l’ambiente per almeno 15/20 minuti al giorno; realizzare 
eventualmente delle pareti verdi con piante da interno di grandi dimensioni, gio- 
chi d’acqua, quadri vegetali. L'importante è che si possano vedere facilmente, così 
da poterne ricevere tutti i benefici sopra menzionati. Una soluzione semplice per 
ottenere questo risultato è quella di riempire lo spazio di lavoro o qualsiasi stanza 
in cui si trascorre molto tempo con diversi tipi di piante. Il tutto senza improv- 
visare ma facendosi aiutare da un giardiniere professionista esperto in piante da 
interni nella scelta delle soluzioni migliori. 


Creare una connessione non visiva con la natura 

È opportuno integrare elementi naturali non visivi in uno spazio. Ma come 
fare? Si può raggiungere lo scopo attraverso suoni, profumi o elementi provenien- 
ti dall'ambiente bucolico che possano essere toccati, come il muschio. Questo 
serve a stimolare i sensi separatamente ma anche ad amplificarne i singoli benefici 
se percepiti insieme. 


Prevedere la presenza di acqua 

Migliorare la propria esperienza attraverso la stimolazione ulteriore dei sensi 
attraverso la vista, l'udito e il tatto dell’acqua. La presenza di acqua in un am- 
biente chiuso provoca reazioni emotive positive, come la riduzione dello stress, 
l'aumento della sensazione di pace e l'abbassamento della pressione sanguigna. 
Costruire un acquario o una Li anche di piccole dimensioni, migliora la 
percezione dell'ambiente interno ed esterno. 


Migliorare la diffusione della luce 

Per stimolare positivamente la vista si tende a ricreare intensità variabili di 
luce e ombra, per simulare quanto accade in natura. Questi cambiamenti di luce 
ci riportano al naturale alternarsi di giorno e notte e diffondono una sensazione 
di calma. Il modo migliore per ottenere questo effetto è quello di utilizzare l’il- 
luminazione diffusa su pareti e soffitti, oltre ad impiegare diversi tipi di sistemi 
di distribuzione della luce nell'ambiente. Si consiglia di usare il più possibile la 
luce naturale proveniente dalle finestre, anche con l’uso di specchi per migliorare 
la luminosità dell’ambiente. Questo favorisce l'umore, aiuta la concentrazione e 
migliora il sonno. E possibile anche usare piante con vasi a terra, per riprodurre 
un effetto ombra e riflettere la luce in modi diversi all’interno di una stanza. 


Simulare forme e modelli biomorfici 

Inserire dei riferimenti simbolici che richiamano la natura sotto forma di mo- 
delli, trame, disposizioni numeriche. Questi tendono ad essere non solo interes- 
santi ma anche stimolano la contemplazione e il recupero di uno spazio proprio. 


68 


Biofilia: un legame innato tra uomo e natura 


Usare tessuti, tappeti o disegni di carta da parati con temi naturali. E possibile 
introdurre inserti in legno o in pietra naturale nell’arredamento. 


Creare una connessione con la natura circostante 

Introdurre materiali ed elementi reperiti nell'ambiente vicino per trasmettere, 
attraverso una lavorazione minima, uno spirito ecologico in grado di richiamare 
la natura circostante così da creare un preciso senso di appartenenza o vicinanza 
ad un luogo. 


69 


Città “biofiliche”: sfide e opportunità nella politica 
della pianificazione del verde urbano 


FRANCESCO FERRINI! 


Fin dalla preistoria le comunità umane si sono sviluppate a stretto contatto 
con la natura, evolvendosi con essa, nel bene e nel male. Un rapporto che gli stili 
di vita urbani hanno messo in discussione e, per molti aspetti, in crisi. La crisi 
del rapporto con la natura, e con la foresta in particolare, genera stress e squilibri 
psicofisici rilevanti nel nostro organismo. All’opposto, vivere vicino alla natura ci 
fa sentire meglio perché, anche se potrebbe sembrare banale, crea una relazione di 
habitat per quello che siamo in senso evolutivo, biologicamente e psichicamente. 

Questa relazione, intesa come “innata affinità umana con la natura”, è oggi al 
centro di numerosi studi nei campi cognitivi, psicologici e fisiologici che di imo- 
strano come la natura sia una componente primaria del nostro benessere fisico e 
mentale: contribuisce a regolare la nostra pressione sanguigna, riduce il battito 
cardiaco e migliora la nostra concentrazione, serenità e creatività. 

L'origine della parola “biofilia” la si deve a Fromm (1964) che affermò che gli 
abitanti delle città stavano affrontando una disconnessione dalla natura con la 
perdita dei benefici psicologici che possono derivare da una sana relazione uomo- 
natura. Per seguire un percorso positivo e progressivo nella vita, Fromm propo- 
neva che fosse necessario un amore per la vita e coniò il termine “Biofilia” per 
esprimere questa connessione uomo-natura. Il termine fu poi ripreso e teorizzato 
da Wilson per descrivere le emozioni provocate da un periodo di immersione 
nella natura (Wilson, 1984). 

Una mole importante di studi sulla relazione mente-corpo-ambiente derivati 
dalla primigenia idea di Fromm e Wilson ha sottolineato come le micro-esperien- 
ze immersive nella natura reale, o anche, seppure in misura minore, tecnologica- 
mente simulate, e perfino per tempi brevi (nell'ordine di pochi minuti), creano 
emozioni e atteggiamenti positivi. 

Da ciò derivano certe affermazioni come “la deviazione dalla natura è una de- 
viazione dalla felicità”, su cui si basa l'odierna “economia biofilica”, che sta rivo- 
luzionando il design delle nostre città e dei nostri uffici. Mentre l’innata affinità 
con la natura è universale, le preferenze ambientali sono influenzate da differenze 
culturali, esperienze personali, fattori socio-economici, sesso ed età (ad esempio 
più di uno studio ha dimostrato come gli spazi naturali all'aperto abbiano un 
impatto diverso sugli uomini rispetto alle donne). Diversi gruppi e culture usano 
quindi la natura in vari modi, dando all'ambiente significati diversi, in base ai 
loro bisogni e obiettivi. 


t DAGRI, Università di Firenze 


71 


Francesco Ferrini 


L'importanza del rapporto col verde 

È ormai dimostrato A una corposa letteratura che la permanenza in aree verdi 
stimola delle reazioni affettive inconsce che attivano vie metaboliche in grado di 
alleviare lo stress, ridurre la tensione muscolare, la conduttanza epidermica, il 
cortisolo salivare, la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca (Kaplan e Ber- 
man, 2010; Kuo, 2015). La presenza di aree verdi di almeno 1 ettaro entro 300 
m dall'abitazione stimola l’attività fisica, cosa essenziale al giorno d’oggi poiché 
essa è insufficiente per il 31% delle persone sopra i 15 anni e circa 3,2 milioni 
di morti premature all’anno sono attribuite a uno stile di vita troppo sedentario 
(Annersted Van den Bosch, 2017). Inoltre, il contatto con la natura stimola il si- 
stema immunitario, soprattutto durante l’infanzia, e migliora il comportamento 
sociale (Annersted Van den Bosch, 2017). La riduzione del particolato atmosfe- 
rico e il miglioramento della qualità dell’aria, la mitigazione dell’isola di calore 
urbana e la regimazione degli afflussi sono altri importanti servizi ecosistemici di 
regolazione con cui le aree verdi possono migliorare il benessere umano. 


La necessità di pensare a città “biofiliche” 

Le città di tutto il mondo stanno crescendo drammaticamente. Oggi il 55% 
degli abitanti del pianeta vive in aree urbane ed entro il 2030 si prevede che il 
60 per cento della popolazione mondiale, ovvero quasi 5 miliardi di persone, 
vivrà nelle aree urbane. I movimenti di popolazioni non sono mai avvenuti in 
precedenza con questa velocità e con questa modalità. Tuttavia, le città non si 
stanno solo espandendo, ma stanno anche cambiando nei loro ruoli e nella loro 
funzione. La deindustrializzazione, l'aumento della mobilità e un settore dei ser- 
vizi in crescita hanno visto le aree urbane trasformarsi in economie di consumo 
post-industriali basate sulla conoscenza piuttosto che sulla produzione. 

Emerge da questo spostamento del focus della funzione delle città un cambia- 
mento “evolutivo” nella forma e nei modi in cui le città stesse dovrebbero essere 
progettate e costruite e come la natura dovrebbe far parte di questo cambiamen- 
to. Ciò ha attirato ulteriori ricerche e sviluppi da parte di persone interessate e 
con obiettivi comuni e il desiderio di consentire una maggiore opportunità per 
gli abitanti delle città di affiliarsi con la natura, e di tutti i vantaggi che ciò otte, 
all’interno dell'ambiente urbano. L'attenzione sulla connessione uomo-natura 
non è più relegata agli ambientalisti e alle aree naturali al di fuori delle città; è 
una dici - proviene dagli abitanti delle città. 

Si è perciò evoluto un movimento sociale basato sul design biofilico soste- 
nuto dall'aumento della popolazione urbana e dal cambiamento della funzione 
della città che ha portato a una dinamica mutevole e all’interazione tra luoghi e 
spazi urbani. Questa trasformazione recente, e in espansione, negli insediamenti 
urbani umani richiede un nuovo approccio alla costruzione dall città. Le città 
devono essere progettate, pianificate, costruite e adattate per essere sostenibili e 
vivibili (Storey e Kang 2015). La maggiore densità edilizia, i canyon urbani e le 
superfici impermeabilizzate modificano il clima locale, in particolare la tempera- 
tura, aumentando il fenomeno noto come effetto isola di calore urbano. 

Questa correlazione tra l'aumento della popolazione urbana globale, il cam- 
biamento climatico e l’effetto isola di calore urbano e la necessità ii città vivibili a 
densità più elevata è presente in tutta la letteratura che tratta di sostenibilità e che 
discute di città e design. In questo quadro, la natura e il design biofilico stanno 


72 


Città “biofiliche”: sfide e opportunità nella politica della pianificazione del verde urbano 


trovando un rinnovato status e riconoscimento come componenti essenziali di una 
città sana e sostenibile. Esempi globali di progettazione biofilica dimostrano che in 
molti casi l'iniziativa non è una risposta puramente funzionale alle sfide della soste- 
nibilità di una città. C'è una motivazione al di là della funzione. Ci sono indicatori 
che ci dicono che si è verificato un cambiamento nell’approccio alla connessione tra 
uomo e natura urbana. I principi della progettazione biofilica rappresentano queste 
nuove iniziative emergenti che si stanno verificando nelle città. 

La biofilia non è dunque solo un problema di progettazione, ma un mo- 
vimento costruito attorno all’idea che i connessione alla natura è un bisogno 
umano fondamentale. È il riconoscimento di questa necessità che ha catturato 
l’attenzione di così tante persone, non solo dei progettisti. Affrontare gli aspetti 
sociali del design biofilico solleva importanti nuove questioni compresa la “de- 
mocratizzazione” della biofilia. Se la connessione alla natura è, infatti, una neces- 
sità umana evoluta, allora è una necessità che deve essere condivisa da tutti - non 
solo da coloro che possono permettersi di vivere in aree con spazi verdi e lavorare 
negli edifici con caratteristiche ed elementi naturali. 

La realizzazione che l’Homo - è ora diventata prevalentemente una specie 
urbana significa che la necessità di riconnettersi con le qualità dell'ambiente natu- 
rale in cui ci siamo evoluti sta diventando sempre più importante. Parchi, giardini, 
presenza dell’acqua e viste sulla “natura” sono stati a lungo evidenti nel recinto dei 
ricchi. Oggi dobbiamo estendere quelle esperienze a tutti, ogni giorno. 

Un punto di partenza critico nella pianificazione e nella progettazione di cit- 
tà migliori è infatti affrontare le profonde disuguaglianze nella presenza e 
nell’accesso alla natura nel paesaggio urbano. Alcune recenti ricerche hanno 
illustrato le disuguaglianze che esistono nella copertura arborea nei quartieri cit- 
tadini, il drammatico impatto differenziale che ciò può avere sull’isola di calore 
urbano all’interno di una singola area della città e la correlazione di queste disu- 
guaglianze con pratiche di pianificazione “socialmente” sbagliate. Le conseguenze 
di queste pratiche di pianificazione discriminatorie continuano a influenzare le 
comunità disagiate e quelle socialmente deboli esponendole a temperature am- 
bientali più elevate, a maggiori livelli di inquinamento atmosferico e a un minor 
accesso alle risorse ambientali come gli spazi verdi pubblici. 

La pandemia ha purtroppo esacerbato queste disuguaglianze. A causa dell’i- 
solamento dei residenti, gli spazi verdi continuano a rivelarsi una risorsa prezio- 
sa, ma privilegiata. Anche dove sono disponibili parchi pubblici, la percezione 
dell’accessibilità del parco e l'investimento della città nei parchi locali influenza 
chi sta effettivamente beneficiando dello spazio verde urbano. Il miglioramento 
dell’accesso non è semplicemente una questione di vicinanza al parco, ma anche 
di qualità di questi spazi e di esistenza di barriere, non solo fisiche, che ne limita- 
LI fruizione per tutte le comunità. 

Tuttavia, la pandemia ha anche accelerato l'introduzione di interventi per ini- 
ziare ad affrontarle, poiché ha ancora di più evidenziato l’importanza dell’accesso 
alla natura e agli spazi aperti nelle nostre città per la nostra salute sociale, fisica 
e mentale. È stato dimostrato che le persone che vivono in quartieri con un 
inquinamento atmosferico peggiore, che spesso mancano anche di spazi verdi, 
hanno evidenziato un tasso di mortalità più elevato per Covid-19. L'accesso alla 
natura urbana ha anche dimostrato di influenzare la riduzione dello stress e nella 
socializzazione, con i parchi urbani che ricevono attenzione sui benefici della 


73 


Francesco Ferrini 


natura mentre gli abitanti delle città cercano uno spazio esterno più sicuro in cui 
lavorare, socializzare e giocare. 

Questa rinnovata attenzione è supportata da una tendenza nella pianificazio- 
ne e progettazione urbana che sta cercando di fornire opportunità per connettere 

li abitanti delle città con la natura attraverso progetti di servizi ecosistemici 
Lu sulla comunità, interventi di progettazione rigenerativa e biofilica e spazi 
verdi residenziali, tutti collegati a un aumento del benessere, della concentrazio- 
ne, della socializzazione, del senso del luogo e della connessione con la natura. 
Tuttavia, continua a esserci una disconnessione tra il nostro bisogno di natura, 
la nostra esperienza quotidiana vissuta e il comportamento sostenibile, in parte 
radicata sli di comprendere come interpretare e applicare la ricerca 
sulla natura e la salute a diversi progetti e interventi politici a scale diverse. 

In particolare, i problemi emergono da una disconnessione tra principi di 
progettazione biofilica, interventi di pianificazione urbana e risultati specifici di 
salute e benessere, nonché da una mancanza di integrazione tra le diverse discipli- 
ne. Questa confusione ha implicazioni reali poiché edifici, città e regioni tentano 
di allineare gli obiettivi di progettazione rigenerativa con quelli di salute umana, 
ma spesso mancano degli strumenti e delle conoscenze per farlo, il che può com- 
portare una mancanza di prove a sostegno dell'efficacia di questi interventi. 

In particolare, un approccio sbagliato per affrontare le disuguaglianze può spes- 
so creare impatti non intenzionali. Quando le città migliorano la presenza e l’acces- 
so alla natura, le comunità più deboli possono essere sfollate a causa dell'aumento 
dei costi abitativi e del costo della vita, portando al fenomeno della gentrificazio- 
ne. Di conseguenza dovremo puntare a città “just green enough” che uniscano, 
quindi, i miglioramenti alle io naturali con gli sforzi per affrontare altre 
priorità delle comunità esistenti, come l’accesso al cibo e lo sviluppo del lavoro. 
Invece di una conversione su vasta scala di aree per parchi, il potenziale per evitare 
l’eco-gentrificazione potrebbe risiedere negli interventi su scala ridotta che sono 
ben dispersi e progettati in combinazione con altre risorse, come l'occupazione e il 
sostegno alla proprietà della casa. Con l’obiettivo che la comunità in atto sia quella 
meglio servita dai nuovi miglioramenti basati sulla natura. 

Gli spazi verdi urbani possono essere dunque uno strumento prezioso per 
creare condizioni di parità per le comunità svantaggiate in un'ampia gamma di 
contesti, inclusi i benefici economici e sanitari, maggiore sicurezza e resilienza 
agli eventi calamitosi. Per raggiungere questo obiettivo, i progetti che mirano a 
migliorare lo spazio verde aL. per essere realmente equi devono avere il con- 
senso delle comunità. Partendo da queste basi, e in relazione alle criticità emerse 
e le possibili azioni di medio e lungo periodo, anche nell’ottica del PNRR, le città 

ossono, o meglio devono, compiere tre passi cruciali per assicurarsi che i bene- 
oi sanitari, economici e ambientali degli spazi verdi urbani diventino motori di 
una maggiore equità sociale. 


Stabilire una forte leadership politica per ridurre le diseguaglianze. I co- 
muni dovrebbero stabilire una forte leadership politica, intesa non in senso di 
politica di appartenenza a un partito, ma nel senso della legittimità sociale nella 
cornice definita dai media, che dia la priorità alle comunità svantaggiate nei pro- 
getti di infrastrutture verdi urbane e protegga i benefici sociali a Lu termine 
dagli interessi economici a breve termine. 


74 


Città “biofiliche”: sfide e opportunità nella politica della pianificazione del verde urbano 


Coinvolgere le comunità in modo significativo. L'impegno proattivo e si- 
gnificativo della comunità è essenziale per garantire il coinvolgimento locale nei 
progetti di recupero e conservazione con sessioni di brainstorming con le princi- 
pali parti interessate, ampie sessioni pubbliche e consultazioni online. 

Tuttavia, l'impegno e il coinvolgimento della comunità non dovrebbero signi- 
ficare il dipendere dai residenti e chi proprietari privati per realizzare e gestire le 
aree verdi. Questo approccio tende infatti a essere più efficace nei quartieri più 
ricchi, dove i residenti hanno le risorse finanziarie per acquistare e prendersi cura 
dei giovani alberi. Collaborare con organizzazioni locali e affidabili può essere 
una strategia fondamentale per creare fiducia e garantire che le tecniche di comu- 
nicazione e partecipazione siano appropriate Ci efficaci. 

Sviluppare modelli di finanziamento innovativi. Un'equa pianificazione 
del verde urbano richiede finanziamenti innovativi per aiutare le amministrazioni 
cittadine a creare o rigenerare spazi verdi in quartieri scarsamente serviti, proteg- 

endo la proprietà della comunità per prevenire la gentrificazione. Un modo per 
do è, ad esempio, con i Social Impact Bond, strumenti innovativi di “impact 
investing” destinati alla realizzazione di progetti di pubblica utilità, con una re- 
munerazione degli investitori solo in caso di effettiva generazione di impatto 
sociale positivo, opportunamente misurato, che consentono ai comuni di con- 
dividere il rischio con gli investitori, riducendo la loro responsabilità e i costi di 
finanziamento per progetti futuri. 

Ad esempio, Atlanta ha emesso un’obbligazione da 14 milioni di dollari, che 
si è conclusa a inizio 2019, e ha finanziato sei progetti di infrastrutture verdi per 
la gestione delle acque piovane in quartieri in difficoltà economiche e ambien- 
tali che in precedenza non avevano accesso ai finanziamenti e per porre rimedio 
all'inquinamento ambientale nei quartieri scarsamente serviti (Jennings et al, 
2017). Gli Environmental Impact Bonds rappresentano un nuovo approccio per 
finanziare progetti di resilienza. Washington, DC li ha utilizzati per finanziare lo 
sviluppo della forza lavoro locale attraverso una “Green Collar Jobs Initiative”2. 

Gli strumenti finanziari classici possono anche essere adattati per indirizzare 

li investimenti verso i quartieri meno serviti. Ad esempio, la California ha sta- 
Eilito criteri di equità per i fondi raccolti tramite obbligazioni generali per finan- 
ziare parchi in quartieri scarsamente serviti. I fondi raccolti sono quindi prioritari 
per i progetti che impediscono lo spostamento dei residenti. 


Un futuro più verde e più equo per le città 

L'adozione di un approccio di equità sociale nel processo decisionale nella fo- 
restazione urbana può, in definitiva, aiutare le città a rendere gli spazi verdi uno 
strumento essenziale per affrontare le disuguaglianze esistenti, costruendo al con- 
tempo resilienza e benessere locali. Se fatto correttamente, può anche ridurre il 


2 IGreen collar jobs sono opportunità di lavoro nelle industrie ambientali emergenti, così come 


nelle attività commerciali e nei mestieri convenzionali, create dal passaggio a pratiche, materiali e pre- 
stazioni più sostenibili. In particolare, includono opportunità di lavoro a vario livello che si traducono 
direttamente nel ripristino dell'ambiente, nell’aumento dell’efficienza energetica, nella generazione di 
energia pulita, nella creazione di edifici ad alte prestazioni e nella conservazione delle risorse naturali. 
https://planning.dc.gov/page/green-collar-jobs-initiative 


75 


Francesco Ferrini 


rischio di conflitti, rafforzare il consenso della comunità e sfruttare le conoscenze 
locali e i social network dei residenti. 

A breve termine, l'attuazione di migliori pratiche di gestione delle foreste ur- 
bane renderà le passeggiate più piacevoli nei quartieri quando la polvere della 
pandemia si depositerà. A lungo termine, queste pratiche aiuteranno le comunità 
locali a essere più verdi, più sane e più eque. 


Bibliografia 


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WiLson, E.O., Biophilia. Harvard University Press, 1984, Cambridge (MA), 79 pp. 


76 


È questa la scuola che vogliamo? Riflessioni a margine 
della scuola delle competenze 


LAURA BALDINI 


La scuola di ogni ordine e grado, dopo la Riforma Gentile del 1923, è stata 
investita per lunghi anni da interventi ministeriali assai settoriali, che non han- 
no spesso guardato a un cambiamento unitario e globale dell’intero sistema!. 
Questo spinge a chiedersi quali siano state le conseguenze, a partire da una diffi- 
cile continuità educativa e didattica verticale, tra gradi scolastici in successione, 
ma anche l’ aver generato disorientamento negli insegnanti e negli studenti, 
questi ultimi chiamati, quasi inaspettatamente, a scegliere nuovi indirizzi di stu- 
dio, che sono andati moltiplicandosi sia nei Licei, sia negli Istituti Tecnici e 
Professionali. Può esserne derivato, infatti, il legittimo sospetto non tanto di un 
efficace ampliamento e rinnovamento dell’offerta formativa, quanto piuttosto 
di un tentativo, per gli Istituti Secondari di II grado, di salvaguardare, se non 
innalzare, il numero delle iscrizioni. Se, da una parte, può esserne seguito uno 
stimolo positivo alla progettualità delle scuole, dall'altra, può invece innescarsi 
una vera e propria competizione, non necessariamente costruttiva, tra i diversi 
Istituti a dotarsi di indirizzi rivelatisi, poi, scarsamente rispondenti ai bisogni 
sentiti come prioritari dagli studenti, ma anche sul territorio sia locale, sia nazio- 
nale, soprattutto nell’ambito dell’occupazione lavorativa, quando, invece, nelle 
giornate dell’orientamento, con gli open day, se ne esaltano tutti i potenziali e 
positivi sbocchi professionali. 

Queste prime considerazioni suggeriscono l’immagine di un sistema scolasti- 
co che sia andato progressivamente ispirandosi a modelli di tipo anglosassone, fa- 
vorevoli alla specializzazione più che all'educazione della persona, così da meglio 
rispondere alle richieste del mondo del lavoro (Perrenoud 2017). Ne derivano 
molteplici implicazioni, già chiaramente individuabili a livello europeo quando 
si parla di società della conoscenza e si individuano otto competenze-chiave per 


J Perché si abbia una prima riforma unitaria del sistema scolastico in Italia occorre attendere la 


Legge 30/2000, Legge quadro in materia di riordino dei cicli scolastici (Riforma Berlinguer) che istituisce 
due cicli scolastici e la Legge 53/2003 Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull'istru- 
zione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione (Riforma Moratti). Oltre 
a ridefinire i cicli scolastici, si parla del sistema dei licei poi disciplinati dal DPR 89/2010, di quello degli 
Istituti tecnici, regolati in seguito dal DPR. 88/2010, e professionali disciplinati dal DPR. 87/2010, ul- 
teriormente ridefiniti con Legge 107/2015 (Legge della buona scuola), attraverso il Dlgs 61/2017. Nella 
Legge Moratti si parlava, per la prima volta, di Alternanza scuola-lavoro, trasformata poi in PCTO con 
Legge 145/2018. Entrava allora, nella Scuola superiore, una logica molto vicina a quella dell’impresa. 


Lf: 


Laura Baldini 


l'apprendimento permanente, definite con Raccomandazione del Parlamento e 
del Consiglio Europeo nel 2006, poi riformulate nella Raccomandazione del 22 
Maggio 2018? così da rendere gli studenti capaci di competere nel mercato del 
lavoro. (Cerini et al. 2018) Si è fatto dunque strada, anche nella scuola italiana, 
il principio dell’acquisizione di competenze, non un'idea di per sé inadeguata ai 
tempi, ma bisognosa di precisi contenuti e non di generiche affermazioni. Per 
competenza si intende, infatti, il possesso di conoscenze, abilità, atteggiamenti 
da utilizzare e trasferire, in modo personale e originale, in campi del sapere di- 
versi da quelli in cui siano stati acquisiti e di fronte a problemi nuovi. È questa 
la definizione che di competenza si dà nei diversi testi di pedagogisti contempo- 
ranei (Pellerey 2012; Castoldi 2014), per poi lasciare spesso ai docenti il com- 
pito di declinarle nelle diverse discipline. Ma i corollari diventano in qualche 
misura preoccupanti, poiché il concetto di competenza comporta la necessità di 
individuare le prestazioni o performance, che permettano di valutarne l’effettiva 
padronanza, per poi certificarle tanto da attribuire alla valutazione un caratte- 
re di forte oggettività, ma a condizione che le prestazioni siano unanimamente 
discusse e accettate dal corpo docente col rischio, altrimenti, di accentuarne la 
soggettività (Tessaro 2012; Trinchero 2012). Da qui la ricerca e l’offerta di griglie 
di osservazione e valutazione che possano aiutare gli insegnanti a districarsi in 
questo campo, arduo anche per i cosiddetti esperti, senza che, magari, i docenti 
siano stati adeguatamente preparati ai cambiamenti (Batini 2016). Se sono infatti 
doverosi l’autoaggiornamento, lo studio di testi che permettano di dare risposte 
all'esigenza di innovare la didattica e la metodologia per soddisfare al meglio i bi- 
sogni di conoscenza, di relazione degli studenti motivandoli all’apprendimento, 
è imprescindibile compito ministeriale e degli Istituti scolastici, ora giustamente 
autonomi*, quello di promuovere una corretta formazione degli insegnanti sui 
mutamenti in atto, sulle motivazioni di ordine teorico, sulle conseguenti applica- 
zioni pratiche. Basti soltanto pensare a quanto è accaduto per le diverse tipologie 
di programmazione didattica, un principio in sé determinante che ha cambiato il 
volto dell’insegnamento con Legge 517 del 19775, con il passaggio dal Piano di 
lavoro individuale alla programmazione didattica del gruppo docente, quindi alla 
collegialità delle decisioni e delle scelte, dando luogo, poi, a una programmazione 


2. In occasione del Congresso di Lisbona 2000, la Commissione Europea pubblica il Memoran- 


dum sull'educazione e la formazione permanente in cui si parla di economia fondata sulla conoscenza. Si 
afferma che l’Europa dovrà diventare l'economia più competitiva e dinamica del mondo. Da qui le due 
Raccomandazioni, prima nel 2006, poi nel 2018. 

ì. Lart.21 della legge 59/1997 (Legge Bassanini) sulla trasparenza e semplificazione degli Atti 
della Pubblica Amministrazione riconosce la personalità giuridica agli Istituti scolastici che così godono 
della necessaria autonomia, poi regolata dal DPR 275/1999, mentre si attribuisce al Preside la qualifica 
di Dirigente Scolastico, meglio definita dal DIgs 165/2001 e dalla Legge 150/2009. 

4 La Legge 517/1977, Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di ripa- 
razione nonché altre norme di modifica dell’Ordinamento scolastico, introduce la scheda di valutazione 
al posto della pagella, il concetto di programmazione educativa in sostituzione del Piano di lavoro del 
singolo docente; inserisce l’alunno handicappato nella scuola comune. 


78 


È questa la scuola che vogliamo? Riflessioni a margine della scuola delle competenze 


per obiettivi con le Unità didattiche, successivamente le Unità di apprendimento, 
infine le Unità di competenza su cui i docenti cominciano ora a cimentarsi. Ma 
siamo sicuri che gli insegnanti siano stati chiamati a riflettere e a fare propri, in- 
tenzionalmente, i principi teorici che stanno a fondamento di tali cambiamenti? 
Il rischio è quello che ci si limiti ad adeguare i consueti percorsi alle nuove tipolo- 
gie proposte, senza individuarne con chiarezza le oggettive diversità, in realtà non 
di poco conto perché investono il modo di fare scuola e quindi di coinvolgere 
davvero gli studenti nel percorso di costruzione del proprio sapere. Senza negare 
il rilievo di positivi cambiamenti che hanno portato i docenti a collaborare più 
strettamente tra loro, a confrontarsi criticamente, a individuare strategie sempre 
meglio rispondenti ai bisogni degli studenti, rimane il problema di fondo su cui 
riflettere e interrogarsi, se siamo ancora realmente consapevoli di quanto educare 
non significhi istruire, soprattutto in un mondo quale quello attuale, caratterizza- 
to da forte complessità e incertezza, in cui occorre soprattutto educare il pensiero 
critico (E. Morin 2000, 2001, 2015, 2022). 

Secondo la radice etimologica, dal latino e-ducere, trarre fuori, educare signi- 
fica dare vita a un processo che implichi attenzione alla persona dello studente 
nella sua globalità, da conoscere nella sua peculiare specificità, di cui compren- 
dere bisogni, aspettative, problemi, richieste attraverso momenti di ascolto at- 
tivo, di dialogo critico, partecipato e costruttivo da non demandare e affidare a 
esperti, nei Centri appositamente creati nella scuola, seppure utili e importanti, 
al contrario connaturati all'essere insegnanti. A questi compete non solo di aiu- 
tare gli studenti a dotarsi di conoscenze, abilità e competenze, ma soprattutto 
di stimolarli a pensare e conseguire altresì quella educazione dei sentimenti, di 
cui parla sempre più spesso il filosofo e psicologo Umberto Galimberti (2018, 
2020), egli stesso insegnante per tanti anni. Educare i sentimenti non significa 
soltanto abituare i bambini fino dai primi anni di vita a conoscere e gestire le 
emozioni, pratica largamente in atto fino dalla Scuola dell’infanzia, quanto piut- 
tosto imparare, anche attraverso la letteratura, la poesia, la filosofia, la musica, a 
comprendere il significato dell'amore in ogni sua manifestazione, del dolore, del 
bene, del male, della morte, delle scelte da operare responsabilmente. Non una 
visione nostalgica della figura di insegnanti del passato, ma l’urgenza di aiutare 
lo studente di oggi a comprendere il mondo, se stesso, a sapersi porre anche “nei 
panni” degli altri in direzione empatica, a impegnarsi, mettendosi alla prova, ad 
acquistare fiducia nelle proprie capacità, a imparare concretamente il significato 
della solidarietà. L'idea è quella di una scuola che sia spazio di realizzazione di 
un nuovo umanesimo, di una vera riforma del pensiero pedagogico e non solo, 
perché i ragazzi non trovino adulti-insegnanti preoccupati soprattutto dei pro- 
grammi da portare avanti, di un numero adeguato di valutazioni e di voti, attenti 
alle prestazioni più che alle persone, impegnati in una miriade di Progetti, perché 
magari le scuole possano avvalersi dei finanziamenti messi a bando dai Fondi 
Sociali Europei (FSE) o dalla Regione, utili senza dubbio, purché rispondano ai 
bisogni più sentiti degli studenti. 

In vari casi, purtroppo, la realtà della scuola è quella di giovani demotivati, 


79 


Laura Baldini 


impegnati a studiare soltanto quanto basta per raggiungere la sufficienza, an- 
noiati, difficili da coinvolgere e interessare, proiettati per lo più verso il mondo 
extrascolastico, magari nello sport, non sempre per divertirsi e stare insieme, 
ma impegnati e stimolati a inseguire precocemente il successo, l'affermazione, 
il denaro, in forme di competizione esasperata; certamente non per tutti è così, 
ma gli esempi si fanno sempre più numerosi. C'è dunque una gioventù, una cui 
parte risulta desiderosa di conoscere, pronta a interrogarsi, a porre domande 
di senso, a partecipare, a mettersi in discussione, solidale e forte anche grazie a 
famiglie capaci di trovare le giuste dimensioni del dialogo, pur sempre entro un 
rapporto di tipo asimmetrico, ma stanno ormai iii situazioni non 
facili da gestire, talvolta destinate a sfociare nel triste fenomeno del bullismo, 
delle minacce, anche sui sociz/, a cui molti assistono senza intervenire e, in que- 
sto, colpevoli come chi agisce la violenza fisicamente o nel web. Inaccettabile 
sempre e in ogni caso, ma in particolare se questo accade nei confronti di inse- 
gnanti il cui ruolo e dignità dovrebbero essere salvaguardati e rispettati, soggetti 
a errori come umanamente è possibile che accada, mai, però, da deridere sui 
social. Non è un caso che si sia sentita l'urgenza di intervenire perfino a livello 
legislativo con Legge 71/2017?. La realtà è quella di tanti adolescenti e giovani 
sempre più spesso portati a isolarsi, a chiudersi nel mondo dei social network, da 
non demonizzare in assoluto, a cui tuttavia far corrispondere la ripresa di contat- 
ti umani, in cui la fisicità, il rapporto reale nella quotidianità del vivere manten- 
ga un suo spazio significativo e gratificante, così come la comunicazione verbale 
e scritta, il dialogo ampio, senza il costante ricorso a una sorta di linguaggio 
cifrato, di un codice fatto di abbreviazioni oppure di esclamazioni onomato- 
peiche (Boccia Artieri 2015)! Il mondo giovanile esce, poi, da lunghi periodi di 
didattica a distanza o comunque integrata, che ha risolto temporaneamente il 
problema di una impossibile frequenza scolastica per la pandemia da Covid19, 
ma con l’esito inevitabile di un ulteriore rafforzamento della comunicazione 
digitale e della solitudine. 

C'è dunque ancora maggiore bisogno di una scuola che sappia ascoltare e 
conoscere, non immediatamente disposta ad adeguarsi a logiche di tipo azien- 
dale, a partire dall’utilizzo di un lessico preciso: non più il Preside, ma il Diri- 
gente scolastico con lo staff da lui scelto, responsabile unico dei risultati di una 
scuola chiamata a effettuare una rendicontazione sociale ai propri stakeholders, i 
portatori di interesse, a utilizzare il RAV, il Rapporto di autovalutazione di Isti- 
tuto, sulla cui base definire il Piano di miglioramento, chiamata a certificare le 
competenze®, talvolta ridotte a prestazioni, capace di rispondere alle richieste del 
mercato, a una professionalizzazione che potrà invece collocarsi dopo il diploma. 
Può darsi che NI vocabolario non corrisponda alla realtà, ma rimane l’esigenza 
di una scuola in cui si voglia imparare a vivere (“mestiere” molto difficile, come 
sosteneva Cesare Pavese!) luogo di apprendimento serio, rigoroso, che si realizza 


°. Il MIUR interviene con Nota n.2519 del 15/04/2015, Linee di orientamento per azioni di pre- 
venzione e contrasto al bullismo e al cyberbullismo ; il Parlamento con Legge 71/2017, Disposizioni a tutela 
dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo. 

© Il Dlgs 13/2013 ha istituito il Sistema nazionale di certificazione delle competenze, che è ora 
regolato dal Dlgs 62/2017, Norme in materia di valutazione e certificazione delle competenze. 


80 


È questa la scuola che vogliamo? Riflessioni a margine della scuola delle competenze 


tra pari in forme di cooperazione, di discussione, di studio, ma sempre in dialo- 
go degli studenti tra loro e con gli insegnanti, in una sorta di alleanza educativa 
con le famiglie, non interessate soltanto alla promozione dei figli o a colpevoliz- 
zare spesso i docenti, ma attente alla loro educazione come persone e cittadini 
consapevoli, pronti a mettersi in gioco anche quando sembrano essere poche le 
speranze in un mondo complesso, tuttavia sfidante e comunque dotato di poten- 
zialità da scoprire. Occorre per questo dotarsi di una formazione di base sicura, 
ben fondata, uscire dall’apatia o dalla rinuncia anche in virtù di una scuola in cui 
sperimentare il piacere della scoperta, della ricerca di risposte ai propri interro- 
gativi, in cui conoscere e conoscersi, stare insieme nel rispetto delle regole della 
convivenza, una scuola che faciliti momenti di studio e di aggregazione, aperta 
per molte ore, ben al di là dell'orario delle lezioni, con un'offerta formativa che 
aiuti a coltivare interessi, a interagire con gli altri senza bisogno di trasgressioni, 
di eccessi, di “sballi”, un vero antidoto alla noia, alla mancanza di prospettive. 
Non un'utopia, al contrario l'impegno improrogabile da parte dei vari Governi 
a credere nella scuola, finanziandola e non assoggettandola a “tagli” mortificanti, 
perché convinti assertori della promozione della cultura, del valore della profes- 
sione docente, ora assai dequalificata, in realtà un potenziale umano competente, 
da non confinare in un eccesso di adempimenti burocratici, da rimotivare per- 
fino sul piano sociale oltre che economico, da far lavorare insieme ai giovani in 
edifici scolastici sicuri, attrezzati, in cui si fa cultura, si educa, si assicurano agli 
studenti competenze importanti non necessariamente assoggettate alla logica e ai 
valori dell’impresa quanto piuttosto a quelli della persona. Il lavoro è senza dub- 
bio una dimensione dell’esistenza, particolarmente necessario e importante, ma 

li studenti, in quanto persone in crescita, sono chiamati a sviluppare in primo 
iu una propria personalità, individuale e sociale e, attraverso le conoscenze 
acquisite, un pensiero su se stessi e sul mondo. Potranno così svolgere un ruolo 
attivo e consapevole, ma anche una funzione di utilità sociale attraverso il lavoro 
e la partecipazione alla vita collettiva. 

La du italiana, nel tempo, ha sempre dato alte garanzie di educazione e 
formazione, qualità da saper mantenere col supporto di tutte le Istituzioni inte- 
ressate al problema educativo, senza chiudersi nell’arido campo delle prestazioni, 
da valutare con altrettanto aride prove di verifica, necessarie, ma nel più ampio 
quadro di una valutazione che sia davvero formativa, perché l'insegnante sappia 
aiutare lo studente a comprendere i propri punti di forza, ma anche quelli di 
debolezza per migliorare, nel contesto più ampio, però, di un dialogo educativo 
aperto e critico che non può essere prevalentemente ricondotto a un apparato di 
schede, griglie, formule standardizzate. 

Tanti sono i successi da riconoscere nel processo di inclusione degli studenti, 
a partire da quanto si è fatto per gli quelli con disabilità, anche gravi, perché 
non sperimentassero il senso dell’esclusione’”, ma potessero vivere la scuola come 


7. Dopo la Legge 517/1977 che promuove l’inserimento della persona con disabilità nella scuola 


comune, viene varata la Legge-quadro 104/1992 per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle 
persone handicappate. Successivamente non ci si limita più al termine “integrazione” optando per quello 
di “inclusione”: Dlgs 66/2017, Norme per la promozione dell'inclusione scolastica degli studenti con disa- 
bilità, modificato nel 2019 con Disposizioni integrative e correttive. 


81 


Laura Baldini 


spazio a loro misura, pur nelle tante difficoltà tuttora esistenti legate a classi trop- 
po numerose, a insegnanti di sostegno privi della necessaria specializzazione, ma 
nell'impegno con cui comunque si prodigano, quelli nominati, per assicurare 
percorsi di apprendimento-insegnamento responsabilmente costruiti insieme al 
gruppo docente della classe e agli esperti dell’Asl. Si è poi definito, con Direttiva 
12 dicembre 2012, il quadro dei Bisogni educativi speciali (Bes) nel lodevole 
intento di aiutare tutti gli alunni con particolari difficoltà attraverso un Piano 
didattico personalizzato”, magari temporaneo, ma il rischio è quello di “accon- 
tentarsi” di “prestazioni” e risultati inferiori a quelli che si potrebbero realmente 
ottenere. Le scuole, poi, si adoperano a fondo per aiutare gli alunni immigrati”, 
di varia nazionalità e provenienza etnica, a dotarsi molto presto della padronan- 
za della lingua italiana, nel pieno rispetto di quella di origine, con laboratori di 
italiano lingua due, biblioteche multietniche, Progetti accoglienza anche nei con- 
fronti delle famiglie, ma assistiamo al triste fenomeno di quelle che, con brutto 
termine, sono definite “classi pollaio” e magari i pochi studenti di origine italiana, 
in queste presenti, sono essi per primi a non essere efficacemente inclusi! Molti 
altri potrebbero essere i pregi e i limiti riscontrabili nell’attuale sistema scolastico 
italiano, ma le riflessioni da fare rimangono quelle di fondo. Siamo sicuri che la 
scuola delle competenze riesca veramente a educare nel senso etimologico della 
parola e non soltanto? La risposta va cercata in ogni sede, senza formule scontate 
o ideologicamente preconcette, al contrario nell’autenticità del dialogo, del con- 
fronto in sede pedagogica e istituzionale, nell'intera collettività, a vantaggio della 
crescita umana dei giovani e della società in cui ci è dato di vivere. 


8. Direttiva Ministeriale 27/12/2012, Strumenti di intervento per gli alunni con bisogni educativi 


speciali e organizzazione territoriale per l'inclusione scolastica, seguito dalla Circolare Ministeriale attuati- 
va n.8 del 2013. 

° Nel 2006 sono state emanate Linee Guida per l'accoglienza e l'integrazione degli alunni stranie- 
ri, aggiornate nel 2014. Ci si è infine preoccupati di tutelare i minori non accompagnati con Legge 
47/2017, Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati. 


82 


È questa la scuola che vogliamo? Riflessioni a margine della scuola delle competenze 


Bibliografia 


BatinI F. (2016) Insegnare e valutare per competenze. Torino: Loescher. 


Boccia ARTIERI G. (2015) Gli effetti sociali del web. Forme della comunicazione e 
metodologie della ricerca online. Milano: Franco Angeli. 


CastoLpI M. (2014) Curricolo per competenze. Percorsi e strumenti. Roma: Ca- 
rocci. 


CERINI G., Lorero S. & SpinosI M. (2018) Competenze chiave per la cittadinan- 
za. Napoli: Tecnodid. 


GALIMBERTI U. (2018) La parola ai giovani. Milano: Feltrinelli. 
GALIMBERTI U. (2021) Che tempesta! Milano: Feltrinelli. 


Morin E. (2000) La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pen- 
siero. Milano: Raffaello Cortina. 


Morin E. (2001) / sette saperi necessari all'educazione futura. Milano: Raffaello 
Cortina. 


Morin E. (2015) Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l'educazione. Milano: 
Raffaello Cortina. 


Morin E. (2022) Svegliamoci. Milano: Mimesis. 
PeLLEREY M. (2010) Competenze, conoscenze, abilità, atteggiamenti. Napoli: Tec- 


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PeRRENOUD PD. (2017) Quando la scuola ritiene di preparare alla vita. Sviluppare 
competenze 0 insegnare saperi? Roma: Anicia. 


Tessaro F (2012) Lo sviluppo della competenza. Indicatori e processi per un 
modello di valutazione. Formazione e insegnamento, 1, 105-119. 


TrincHERO R. (2012) Costruire, valutare, certificare competenze. Proposte di atti- 
vità per la scuola. Milano: Franco Angeli. 


83 


La Tapisserie de Bayeux e l'apporto alla conoscenza 
della Storia dell’architettura militare dell'XI secolo 


GIOVANNI COPPOLA 


Una delle storie di guerra più avvincenti dell’ Europa dei primi due secoli dopo 
l’anno Mille fu senza dubbio quella dei Normanni!. I diversi e complicati scena- 
ri bellici europei e mediterranei favorirono un fecondo scambio di conoscenze, 
soprattutto nel campo degli armamenti”. Tra le tante battaglie, un'importante 
testimonianza iconografica del periodo, le cui scene sono riprodotte in migliaia di 
libri di storia medievale, presenta con illustrazioni ad effetto le gesta della conqui- 
sta dell'Inghilterra, da parte di Guglielmo il Bastardo e la disfatta dell’usurpatore 
al trono Aroldo di Godwinsonî. 

In una mattina del 14 ottobre 1066 ai piedi della collina di Senlac, a qualche 
chilometro dal porto di Hastings, alla presenza di circa 20.000 uomini armati con 
i due eserciti pronti allo scontro, Ciichio il Conquistatore interrogò lo sguar- 
do dei suoi fratelli, Odo e Roberto, rispettivamente, vescovo di Bayeux e conte 
di Mortagne, principali sostenitori della spedizione. Al loro assenso col capo, 
Guglielmo prese tra le mani con forza il manico del suo bastone di comando e 
dopo averlo alzato affinché tutti potessero vederlo lo abbassò repentinamente, 
era il segnale. Le trombe suonarono, il fragore insostenibile della battaglia echeg- 

iò nella valle, si elevarono grida da un campo all’altro, i Normanni invocarono 
”’Aiuto di Dio”, i Sassoni di rimando replicarono con durezza “Fuori Fuori” al 
quale aggiunsero imprecazioni del tipo “Dio potentissimo” oppure “Santa Cro- 
ce”; le spade risuonarono contro gli scudi, gli arcieri normanni avanzarono con 


! G. Iheotokis, Warfare in the Norman Mediterranean. Woodbridge, The Boydell Press, 2020; G. 

Coppola, Battaglie normanne di terra e di mare. Italia meridionale, secoli XI-XII, Napoli, Liguori, 2015; 
D. Hill, Zhe Norman Commanders. Masters of Warfare, 911-1135. Barnsley, Pen and Sword, 2015; E 
Neveux, L'aventure des Normands, VIIEe-XIMe siècle, Paris, Perrin, 2006; M. Chibnall, / Normanni. Da 
guerrieri a dominatori. Genova, ECIG, 2005; R. Allen Brown, 7he Norman Conquest of England: Sources 
and Documents. Woodbridge, The Boydell Press, 1995; S. Morillo, Warfare under Anglo-Norman Kings 
1066-1135. Woodbridge, The Boydell Press, 1994; M. Strickland, edited by, Arglo-Norman Warfare. 
Woodbridge, The Boydell Press, 1992. 
2 G. Coppola, / Normanni in battaglia: fionde, granate, triboli, mazze e altri mezzi, Nuova An- 
tologia Militare», 3/9 (2022), pp. 127-143; G. Coppola, L'equipaggiamento militare normanno tra fonti 
scritte, archeologiche e iconografiche (secoli XI-XII), «Napoli Nobilissima», 7/VII.3 (2021), pp. 4-20; G. 
Amatuccio, Aspetti dell'interscambio di tecnologia militare nel Mezzogiorno normanno-svevo, in Cultura 
cittadina e documentazione. Formazione e circolazione di modelli, Bologna 2009, pp. 301-309. 

3. X. Barrali Altet, D. Bates, La Tapisserie de Bayeux: commentaires, Paris, Citadelles et Mazenod, 
2020; P. Bouet, B. Levy, E Neveux, sous la direction de, La Tapisserie de Bayeux: l’art de broder l’Histoire. 
Actes du colloque de Cerisy-la-Salle (octobre 1999), Caen, Presses universitaires de Caen, 2004; L. Musset, 
La Tapisserie de Bayeux. Paris, Zodiaque, 2002. 


85 


Giovanni Coppola 


passo sicuro, gli scudi sassoni fecero muro, i cavalli a centinaia nitrirono sonora- 
mente scuotendo la testa, i due comandanti Guglielmo e Aroldo erano certi che 
il tributo di sangue potesse risultare per entrambi elevato, a sera si conteranno i 
morti, saranno migliaia e migliaia. AI tramonto, Guglielmo, risulterà il vincitore 
assoluto, ormai non era più Guglielmo il Bastardo ma era diventato per tutta 
l'Europa, Guglielmo il Conquistatore!. 

Scopo della narrazione dell'intera tela di Bayeux è quello di mostrare, con 
vivide illustrazioni, la brutalità del combattimento armato tra Sassoni e Nor- 
manni e, allo stesso tempo, illustrare l'impresa di Guglielmo il Conquistatore e 
la conquista dell'Inghilterra come conseguenza tragica del mancato rispetto del 
giuramento fatto da Harold di Godwinson alle sacre reliquie’. AI di là dell'uso 
ideologico e narrativo degli elementi presenti nel lessico di base del capolavoro 
artistico, risalta con estrema chiarezza lo stretto rapporto che intercorre tra l’im- 
magine e le diverse tipologie fortificate offrendoci una importante chiave di lettu- 
ra sull’architettura militare dell’Europa occidentale nell'XI secolo’. Da un'attenta 
analisi dei disegni stilizzati appare evidente che gli ideatori dell’opera, erano senza 
dubbio al corrente del paesaggio monumentale in cui si svolsero i fatti e, di con- 
seguenza, permettono di individuare precisi modelli di architetture difensive’. 
L'impressione che si ricava è che le fortificazioni siano in realtà una ricostruzione 
fedele, anche se ovviamente stilizzata, in grado di lanciare messaggi di grande 
potenza comunicativa grazie all’ancoraggio di immagini chiave (schlagbilder) che 
diventano i simboli su cui si basa l’azione militare®. Tuttavia, in questo contesto, 
non si può trascurare il problema dell’autenticità o meno delle rappresentazioni 


4 Tra le numerose opere che si sono occupate della biografia di Guglielmo il Conquistatore 


si consulti: D. Bates, Guillaume le Conquérant, Paris, Flammarion, 2019; M. de Boiiard, Guglielmo 
il Conquistatore, Roma, Editore Salerno, 1989. Sulla battaglia di Hastings: P. Bouet, Hastings. Paris, 
Tallandier, 2010, pp. 117-151; J. Badbury, Ze Battle of Hastings, Stroud, Sutton Publishing. 1998, pp. 
121-154. 

°. G. Amatuccio, Aspetti dell'interscambio..., cit., pp. 301-309; I. Walker, Harold: The Last An- 
glo-Saxon King. Stroud, Tempus, 1997; M. Strickland, Military technology and conquest: the anomaly of 
Anglo-Saxon England, «Anglo-Norman Studies», XIX (1996), pp. 353-382; K.R. De Vrye, Medieval 
Military Technology, Peterborough 1992. 

6 A. Lester-Makin, Les six chdteaux de la Tapisserie de Bayeux, in L'invention de la Tapisserie de 
Bayeux: naissance, composition et style d'un chef-d'euvre médiéval, edited by, S. Lemagnen, S.A. Brown, 
G. Owen-Crocker, Actes du colloque de Bayeux, 22-25 septembre 2016, Rouen, Editions Point de vues, 
2018, pp. 73-91; P. Bouet, Chdteaux et résidences princières dans la Tapisserie de Bayeux, in Castles and 
Anglo-Norman World, edited by, J. Davies, et alii, Oxford&Philadelphia, Oxbow Books, 2016, pp. 135- 
146; A.-M. Flambard-Héricher, La Tapisserie de Bayeux et l'archéologie, in La Tapisserie de Bayeux: l'art 
de broder l’Histoire, edited by, P. Bouet, B. Levy, E Neveux, Actes du colloque de Cerisy-la-Salle (octobre 
1999). Caen, Presses universitaires de Caen, 2004, pp. 261-288; Id., Quelques réflexions sur le mode de 
construction des mottes en Normandie et sur ses marges, in Mélanges Pierre Bouet, «Cahier des Annales de 
Normandie», 32 (2002), pp. 123-132; D. Alexandre-Bidon, Vrais ou faux? L'apport de l'iconographie à 
l'étude des chàteaux médiévaux, in Le Chàteau médiéval, forteresse habitée (XIe-XVIe siècle), sous la direc- 
tion de, J.-M. Poisson, Paris, Éditions de la Maison des sciences de l'homme, 1992, pp. 43-55. 

7. D. Alexandre-Bidon, A /a conquéte du 9e art: la Tapisserie de Bayeux, in Le Moyen Age en bande 
dessinée, sous la direction de M. Tristan, Paris Karthala, 2016, pp. 163-180. 

8 L. Musset, La Tapisserie..., cit, scene 38-40, pp. 196-207; scene 50-51, pp. 228-237; scene 
57-58, pp. 256-267. 


86 


La Tapisserie de Bayeux 
e l'apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


tratte dal ricco repertorio di monumenti, che ha portato alla formulazione delle 
tesi più disparate da parte degli specialisti della civiltà normanna?. La difficoltà 
maggiore risiede nella mancanza di prove materiali che permettano di stabilire 
un confronto diretto tra gli edifici realmente esistiti e le fortezze disegnate, al fine 
di attribuire una certa veridicità alle rappresentazioni sulla base di considerazioni 
generali derivate da scavi archeologici su analoghi manufatti. Dal momento che i 
disegni delle cinque motte sono stati eseguiti in modo diverso, sembra ragionevo- 
le supporre che l’ideatore-cartonista fosse consapevole che ciascuna motta avesse 
una sua intrinseca originalità e quindi non fosse il frutto di una raffigurazione 
fantasiosa. 

Gli eventi storici raccontati come in una sequenza cinematografica, ridise- 
gnano i quadri politici della successione al trono di Edoardo il Confessore in 
un'epoca in cui la nobiltà in ascesa misurava il proprio potere con l’azione armata 
e il dominio delle armi. Dopo la guerra, l'architettura era il livello successivo, il 
simbolo evidente e tangibile del potere feudale, la testimonianza materiale del 
controllo del territorio, il mantenimento della conquista. 

Un'analisi attenta degli elementi architettonici che compongono i monumen- 
ti raffigurati sulla Zapisserie (castelli, sale cerimoniali, chiese, padiglioni, torri, 
palazzi e case rurali), non può non rivelare la stretta analogia con le convenzioni 
iconografiche dell’epoca, di cui esistono numerosi esempi sia nella scultura e sia 
nelle illustrazioni di alcuni codici miniati anglosassoni; per la tela di Bayeux, i 
modelli sono principalmente quelli copiati nel Kent, a Canterbury o a Winche- 
ster, molto probabilmente uno dei luoghi di origine in cui sarebbe stata realizzata 
l’opera!°. 

La copiosa documentazione iconografica presente sulla celebre Tapisserie de 
Bayeux (1066-1070), riproduce una trentina di monumenti e ben 79 individui 
armati fino ai denti, che permettono di avere una precisa visione d'insieme del 
paesaggio monumentale presentando un’ampia casistica di esempi"!. La 7apisse- 
rie, in realtà sarebbe più corretto definirla un ricamo (Broderie), ha un'insolita 
dimensione: mezzo metro di altezza e settanta metri di lunghezza. Tra le varie 
architetture disegnate nella prima parte della tela figurano cinque castelli a motta 
Dinan, Dol, Rennes, Bayeux, Hastings e un castello urbano, Rouen, a dimostra- 
zione dell'uso delle due diverse tipologie difensive d’epoca normanna, motta in 
terra e in legno e dongione in pietra". 

È difficile stimare con precisione il numero totale di castelli, di qualsiasi tipo, 
costruiti durante il regno del Conquistatore (1066-1086). E però innegabile che 


9 


S. Lewis, Zbe Rhetoric of Power in the Bayeux Tapestry, Cambridge, Cambridge University Press, 
1999; R.C. Cholakian, Zhe Bayeux Tapestry and Ethos of War. Delmar (NY), Caravan Books, 1998. 

°° H.B. Clarke, Zhe Identity of the Designer of the Bayeux Tapestry, «Anglo-Norman Studies», 35 
(2013), 119-139; L. Musset, La Tapisserie..., cit., pp. 14-17; M. Lewis, he Bayeux Tapestry and Oxford 
Bodleian Junius 11, in The Bayeux Tapestry. New Approaches, edited by, M.J. Lewis, G.R. Owen-Crocker, 
Oxford, Oxbow Books, 2011, pp. 105-111; C. Hart, Ze Bayeux Tapestry and schools of illumination at 
Canterbury, «Anglo-Norman Studies», 22 (2000), pp. 117-167. 

!! P. Bouet, Chateaux et résidences princières..., cit., pp. 135-146; P. Bouet, B. Levy, E Neveux, 
2004, sous la direction de, La Tapisserie de Bayeux..., cit., pp. 17-64. 

 L. Musset, La Tapisserie..., cit., scena 12, pp. 118-119; scene, 17-20, pp. 134-141; scene 22- 
23; pp. 144-145; scene 45-46, pp. 214-217. 


87 


Giovanni Coppola 


in Inghilterra, il periodo più importante per la loro costruzione, rilevante ai fini 
del presente studio, coincida proprio con la conquista da parte dei Normanni. 
Il Domesday Book menziona circa 50 manufatti nel 1086. Estendendo la ricerca 
alle indagini archeologiche condotte in Inghilterra, risultano edificate prima del- 
la fine dell’XI secolo circa 90 motte!?. Aggiungendo anche un certo numero di 
dongioni in pietra, di cui la gran parte eretti nei centri urbani, il totale di motte 
e di semplici recinti fortificati, ammonta a ben 625, la maggior parte dei quali 
sono concentrati in aree strategiche. In Normandia, indagini e prospezioni sul 
terreno hanno portato Joseph Decaéns a ipotizzare che nella totalità le motte 
potessero superare le mille unità!*. Una cifra così alta di manufatti, in Normandia 
come in Inghilterra, va considerata anche in virtù del frequente riutilizzo di torri, 
mura e complessi fortificati preesistenti. E per questo motivo che i siti castrali 
della seconda metà dell'XI secolo, essendo così numerosi, presentano una tale 
ricchezza di dettagli da richiedere un ulteriore sforzo interpretativo, anche alla 
luce di nuove e rinnovate ricerche iconografiche che si affiancano alle informa- 
zioni provenienti dall’archeologia medievale europea. Nuovi studi sempre più 
specifici e attenti si affacciano nel già vasto orizzonte bibliografico inerente la 
Broderie de Bayeux. Ad esempio, sulla scorta delle tecniche strettamente legate al 
ricamo, Lester-Makin ha svolto uno studio approfondito e ha chiarito le moda- 
lità relative alla sua realizzazione materiale, rilevando tre gruppi di disegni in cui 
appaiono i cinque castelli!°. Basandosi sull'esecuzione dei vari punti del ricamo, 
al primo gruppo appartiene il disegno del castello di Rouen (scena 12), con la 
scritta: Hic venit nuntius ad Wilgelmum ducem (Qui un messaggero si reca presso 
il duca Guglielmo). Al secondo gruppo sono da collocare le quattro motte di cui 
le prime tre figurano alle scene 18-19 e 22. La prima illustrazione mostra la motta 
di Dol (scena 18), e la motta di Rennes (18-19), con la didascalia: Et venerunt 
ad Dol et Conan fuga vertit. Rednes (E vennero a Dol e Conan fu posto in fuga. 
Rennes); la seconda illustrazione (scena 19) quella di Dinan con la scritta: Hic 
milites Willelmi ducis pugnant contra Dinantes (Qui i soldati del duca Guglielmo 
combattono contro Dinan); inoltre, la terza illustrazione (scena 22) mostra la 
motta di Bayeux: Hic Willelmi venit Bagias (Qui Guglielmo venne a Bayeux). 
L'ultima motta, Hastings (scena 45), è la sola che si trova situata in Inghilterra. 
Sullo sfondo appare la scritta: Iste iussit ut foderetur castellum ad Hestenga caestra 
(Questi [Guglielmo] ordina di edificare una fortificazione davanti all’accampa- 
mento di Hastings). 

Ma ciò che più interessa in questo saggio è cogliere la differenza tra le diver- 


15. D.E Renn, Ze first Norman Castles in England, 1051-1071, «Chàteau Gaillard», I (1962), pp. 
127-132. 

44 J. Decaéns, Enceintes et mottes, in L'architecture normande au Moyen Age, 2, Regards sur l'art 
de bàtir, sous la direction de, M. Baylé, Actes du colloque de Cerisy-la-Salle, 28 sept.-2 oct. 1994, Caen, 
Editions Charles Corlet, 1997, p. 273. 

!5 EF. Fichet de Clairefontaine, Castle Heritage (X'-XII” centuries), in Lower Normandy and the 
Current State of Archaeological Research, in Castles..., cit., pp. 191-205; R. Eales, Royal Power and castle 
in Norman England, in The Ideals and Practice of Medieval Knighthood III, edited by, C. Harper-Bill, R. 
Harvey, Woodbridge, The Boydell Press, 1990, pp. 54-63. 

6 B. English, 70wns, Mottes and Ring-works of the Conquest, in The Medieval Military Revolution, 
edited by, A. Ayton, J.L. Price, London, Tauris, 1995, pp. 45-62. 


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La Tapisserie de Bayeux 
e l’apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


se tipologie architettoniche disegnate piuttosto che evidenziare le procedure di 
esecuzione dei ricami. Infatti, se consideriamo il primo degli esempi di architet- 
tura difensiva rappresentato dal castello di Guglielmo a Rouen (scena 12), non 
possiamo che registrare la ricchezza degli elementi compositivi della facciata del 
recinto monumentale con le due torri poste ai rispettivi angoli (quadriburgium). 
All’interno si scorge in profondità un dongione molto decorato, anch'esso di 
probabile impianto quadrangolare. La copertura si ispira a precedenti tradizioni 
iconografiche, come il tetto del chiosco della scena 11, riprodotta in seguito con 
qualche piccola variante. In realtà, tale copertura a cupola rivestita con un manto 
di coppi non è altro che la copia fedele di un disegno del Salterio di Utrecht (820 
circa)! le cui illustrazioni si ritrovano identiche in un successivo manoscritto de- 
nominato Salterio di Harley della prima metà dell'XI secolo!*. La rappresentazio- 
ne grafica della residenza fortificata di Guglielmo a Rouen occupa tutto lo spazio 
della fascia centrale e simbolizza il palazzo ducale edificato dal duca Riccardo II 
(996-1026), originariamente situato sulla riva della Senna, in seguito demolito 
da Filippo Augusto nel 1203, un anno prima che la Normandia fosse annessa ai 
domini della corona francese!?. 

A parte i minuziosi riferimenti iconografici, che pure contano, non si vuole 
qui sostenere la tesi che le raffigurazioni corrispondano esattamente ai manufatti 
del tempo, anche perché un confronto non sarebbe possibile dal momento che 
tutti i monumenti sono ormai inesistenti, ma piuttosto dimostrare che la mag- 
gior parte degli elementi che compongono le architetture disegnate sono confer- 
mati dai dati provenienti dai risultati degli scavi archeologici. 

Pertanto, per comprendere appieno il loro significato, è necessario analizzare 
alcuni aspetti fondamentali: la configurazione strutturale delle motte, l’assem- 
blaggio della carpenteria lignea della torre, il disegno planimetrico dei fossati, 
il profilo delle scarpe dei tumuli e il relativo trattamento della parte superficiale 
del terreno, i ponti lignei, le palizzate, l’ubicazione e la forma delle porte?°. La 
capacità dell’osservazione dei disegnatori delle scene permette di attribuire signi- 
ficati e valori diversi ad ogni singola composizione L predispongono in base al 
contesto in modo da creare un clima di guerra il più veritiero possibile: i com- 
portamenti dei condottieri, il rapporto di forza tra i due opposti schieramenti, la 
cavalleria, la fanteria, gli arcieri, gli armamenti e i finimenti dei cavalli disegnati 
in ogni particolare, i modelli di architetture scelte per rappresentare le fortifica- 
zioni di terra e di pietra, le chiese, le torri, i palazzi e le case dei contadini. 

Da studi archeologici e architettonici ormai consolidati, sappiamo che il castello 
in terra battuta prevedeva la costruzione di un piccolo monticello di terra (motta), 
con una superficie inferiore molto più ampia di quella superiore. Quest'ultima, 
appositamente spianata, veniva livellata con uno strato di pietre incerte di piccola 
taglia. La torretta lignea posta nella parte centrale della superficie superiore era so- 


Utrecht, Universiteitsbibliotheek, Ms. 32, fol. 1v, 7v, 30v. 

18. London, British Library, Harley Ms. 603, fol. lv, 7v, 6Gv. 

9. P. Bouet, Chateaux et résidences princières..., cit., pp. 137-138, pp. 141-142; C. Hart, Zhe 
Bayeux Tapestry..., cit., p. 136. 

20 E. Impey, Une image sur pierre d'un chàteau en bois: un graffiti médiéval au chéteau de Caen, 
«Archéologie médiévale», 51 (2021), pp. 55-68. 


89 


Giovanni Coppola 


stenuta da vari montanti che talvolta venivano interrati in verticale per diversi metri 
e collegati tra loro per ragioni di stabilità, ad un’armatura costituita da elementi 
orizzontali di ul sezione in modo da assicurare non solo l’intera struttura ma 
anche il terreno di riporto, come dimostrano gli scavi condotti in Inghilterra ad 
Abinger nel Surrey e in Francia a Mérey nell’Eure?!. 

A seconda della natura del sito, il monticello poteva apparire naturale (col- 
linetta di terreno), parzialmente naturale (roccia colmata da terreno) o comple- 
tamente artificiale (tumulo di terreno di riporto). I castelli di terra avevano un 
diametro compreso tra i dieci e i cinquanta metri e un'altezza che variava da un 
minimo di pochi metri a un massimo di quindici metri. Qualunque fosse la loro 
dimensione, in cima o alla base, le motte erano accomunate dagli stessi elementi 
architettonici edificati secondo modalità e tecniche costruttive identiche??. In ge- 
nere, il tumulo di terra naturale o prodotto con materiali di riporto (mota, agger, 
tumulus), costituiva la struttura di base dell’insediamento fortificato: solitamente 
difeso da una palizzata lignea sulla parte alta (saepe, hériceon, palicium, curtis 
lignea, vallum) composta da pali di legno appuntiti (pali quadrangulati et vepres 
pungentes), accostati e conficcati nel terreno a protezione della piccola torretta 
di legno (turris lignea) eretta in cima alla collina. L'accesso che permetteva di 
superare il didivello creato tra la collina artificiale e la sua base, era assicurato da 
un ponte ligneo supportato da robusti pilastri (motta di Dol), simile a quello che 
esisteva sui fianchi della motta di Olivet a Grimbosq nel Calvados??. Talvolta le 
scale lignee erano ricavate all’interno della scarpa del rilevato del terreno (motta 
di Rennes)‘. Ai piedi della collinetta, un fossato (fossa), o addirittura due (duplex 
fossa), correva lungo la base al fine di evitare l'avvicinamento delle macchine bel- 
liche ed era spesso delimitato da una cortina difesa da un'ulteriore palizzata che 
racchiudeva un ampio cortile (ba/lium). Sappiamo dall’archeologia che gli spazi 
posti alla base del tumulo erano affollati da costruzioni: alloggi, magazzini per le 
scorte, stalle e cucine, forge e altri servizi necessari alla vita dei militari di stanza 
alla motta??. La bassa corte era difesa da terrapieni e da un profondo fossato con 
controscarpa. 

L'esigenza di costruire un gran numero di castelli nel più breve tempo possi- 
bile nacque dalla disintegrazione delle entità urbane poste in pianura e, quindi, 
dalla conseguente creazione di numerose e nuove circoscrizioni territoriali che 
bisognava difendere e controllare?°. Nel contesto di una campagna militare sotto 
la pressione in un Paese ostile, la velocità con la quale furono edificate le motte 
non sorprende. Infatti, subito dopo lo sbarco, in finibus Hastingi, nell’ottobre 
del 1066 Guglielmo diede immediatamente l’ordine di costruire in poco tempo 


2! A.-M. Flambard-Héricher, Quelques réflexions..., cit., p. 132; B. Hope Taylor, Zhe Norman 
motte at Abinger (Surrey) and his Wooden Castle, in Recent Archaeological Excavations in Britain, edited 
by, R.L.S. Bruce-Mitford, London, Routledge et Kegan Paul, 1956, pp. 223-249. 

22 A.-M. Flambard-Héricher, Quelques réflexions..., cit., pp. 123-132. 

23. J Decaèns, La motte d’Olivet à Grimbosq (Calvados), résidence seigneuriale du XF siècle, «Ar- 
chéologie Mediévale», XI (1981), pp. 167-201. 

2 G. Coppola, Ponti medievali in legno. Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 5-69. 

2 R.A. Higham, R. Barker, Timber Castles, London, Batsford, 1992, pp. 326-347. 

26. Guillaume de Jumièges, Gesta Normannorum Ducum, editeur J. Marx, Rouen, A. Lestringant, 


1914, p. 134. 


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La Tapisserie de Bayeux 
e l'apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


un castello di legno: ligneum agiliter castellum statuens, provide munivit?. La loro 
costruzione era posta sotto il diretto controllo del re e dei suoi più fidati vassalli, 
quasi sempre appartenenti alla famiglia reale (familia regis)?*. La valenza di que- 
sto tipo di fortificazione è duplice: da un lato, possedeva uno spiccato carattere 
militare, testimoniato dall’elevazione della piattaforma della motta, dalla profon- 
dità dei fossati e dalla scelta di siti in posizione strategica; dall’altro, assumeva 
anche una funzione di residenza signorile. Non di rado, infatti, in seguito a scavi 
archeologici, sono stati rinvenuti reperti attinenti alla vita quotidiana oltre che 
alla guerra: frammenti di ceramica da cucina, pedine da gioco, punte di frecce, 
quadrelle di balestra o ferri di cavallo, restituiscono informazioni anche sul gene- 
re di vita e dell’insediamento fortificato”. Semplice da costruire e poco costoso, 
l'impianto a motta, già presente nei paesi del Nord Europa prima dell’XI seco- 
lo, si diffuse rapidamente a partire dalla Francia nord-occidentale all’Inghilterra 
conquistata e ad altri paesi”. Non c'è dubbio che nel Mezzogiorno tale partico- 
lare struttura difensiva apparve, nella prima metà dell'XI secolo, con l’arrivo dei 
primi contingenti normanni (Supersano - fr. di Specchia Torricella, Troia - fr. di 
Vaccarizza, Tertiveri, Montecorvino, Fiorentino (Puglia), San Marco Argentano, 
Scribla (Calabria) e, in Abruzzo, a Ocre e a Cesura)?. 

Dalla Broderie ciò che appare subito evidente nell'impianto generale della 
motta è la totale assenza della bassa corte, situata alla base del du e a difesa di 
un fossato. Questa vistosa mancanza è forse dovuta allo spazio limitato a disposi- 
zione dei disegnatori. Oppure, più semplicemente, la mancanza del cortile infe- 
riore è da attribuire all’uso simbolico che il fortilizio di terra doveva rappresentare 
nella fase finale di determinati eventi, per Dol la fuga e per Dinan l’incendio della 
struttura lignea. 

Oggi sappiamo con certezza che gran parte della motta era costruita in legno. 
o e è proprio per questo motivo che il duca Guglielmo fece in modo 
che l’intero assemblaggio ligneo fosse portato direttamente dalla Normandia. Si 
trattava di un vero e proprio esempio di prefabbricazione basato sulla preparazio- 
ne dei vari elementi che compongono la struttura di una fortificazione a motta, 


27 E. Searle, Zhe Chronicle of Battle Abbey. Oxford, Oxford University Press, 1980, pp. 34-35. 

28. S. Morillo, Warfare under Anglo-Norman..., cit., pp. 60-66; O.J. Prestwich, Military Household 
of the Norman Kings, «English Historical Review», XLVI (1981), pp. 1-35. 

2° J-J. Bertaux, J.-Y., Marin, sous la direction de, Les chéteaux normands de Guillaume le Conque- 
rant à Richard Coeur de Lion, Catalogue de l’exposition, Eglise Saint-Georges du Chateau, 15 mai-31 aout 
1987, Caen, Musée de Normandie, 1987, pp. 32-53; P. Halbout, C. Pilet, C. Vaudour, sous la direction 
de, Corpus des objets domestiques et des armes de fer de Normandie du Ier au XVe siècle, «Annales de Nor- 
mandie», 20 (1987), pp. 173-239. 

30. J. Decaéns, De la motte au chàteau de pierre dans le Nord-Quest de la France, in Manorial Domes- 
tic Buildings in England and Northern France, edited by, M. Jones, G.I. Meirion-Jones, London, Society 
of Antiquaries, 1994, pp. 65-81; R.A. Higham, P. Barker, Timber Castles. .., cit, pp. 36-113. 

31 E Redi A. Forgione, Due ‘motte” normanne in territorio aquilano: i castelli di Ocre e di Cesura. 
Motte di terra, motte di roccia, «Archeologia Medievale», XLII (2015), pp. 182-197; A.A. Settia, L. 
Marasco, F. Saggioro, a cura di, Fortificazioni di terra in Italia. Motte, tumuli, tumbe, recinti. Atti del 
Convegno di Scarlino, 14-16 aprile 2011, «Archeologia Medievale», XL (2013), pp. 9-187; E. Cirelli, G. 
Noyé, La motta di Vaccarizza e le prime fortificazioni normanne della Capitanata, «Archeologia medie- 
vale», XL (2013), pp. 69-90; A.-M. Flambard-Héricher, Scribla: la fin d'un chàteau d'origine normande 
en Calabre, 421, Rome, École francaise de Rome, 2010, pp. 51-140. 


91 


Giovanni Coppola 


lavorati in un luogo diverso da quello finale e poi trasportati e messi in opera. In 
realtà, l'innovazione introdotta dal duca Guglielmo prima dell’attacco all’Inghil- 
terra non era altro che la definizione di un processo tecnologico che scomponeva 
l’edificio nei suoi vari elementi strutturali, ottenuti separatamente nei cantieri 
navali normanni, situati nei pressi dei porti più importanti al momento dell’alle- 
stimento della flotta. 

Alla Bodleian Library, in una copia di un documento del XII secolo provenien- 
te dall’abbazia di Battle, redatto tra il 1130 e il 1160”, troviamo alcune pagine 
che riassumono gli accordi presi tra il duca Guglielmo di Normandia e i 
suo potente vassallo prima dell’invasione dell’Inghilterra, con i nomi esatti di co- 
loro che dovevano fornire le navi necessarie. Per l'operazione navale nella Manica 
furono requisiti anche piccoli pescherecci e navi mercantili per trasportare via 
mare tutti i rifornimenti necessari, cavalli, armature, oltre all’equipaggiamento 
da campo formato per lo più da tende, compreso l’intero assemblaggio prefab- 
bricato in legno per costruire i primi castelli sulla costa meridionale, a Pevensey, 
Hastings e Dover. 

La Normandia, ricca di foreste di querce e faggi, forniva tutto il legname ne- 
cessario e si è calcolato che circa 7.000 alberi dovettero essere tagliati e trasportati 
sulla costa?*. Gillmor ha calcolato che il 41% delle foreste lungo la Senna fossero 
state decimate per fornire il legname necessario alle navi messe a disposizione 
dai tre principali vassalli di Guglielmo”. Sebbene Wace scriva un secolo dopo 
la battaglia, le frenetiche attività dei cantieri navali si riflettono accuratamente 
nella sua dettagliata descrizione: “Il duca mandò a chiamare fabbri e carpentieri; 
li avreste visti con grande diligenza in tutti i porti della Normandia a trasportare 
assi e barili, a fare pioli e a rifinire assi, a sartoriare navi e scialuppe, a tendere vele 
e a issare alberi”3°. 

La professionalità scientifico-tecnologica era un sapere legato alle maestranze 
locali che lavoravano soprattutto nei cantieri delle città portuali normanne vicino 
ai quali si trovavano le banchine con pontili che facilitavano l'approdo per l’ap- 
provvigionamento di materie prime”. 

Ma per costruire uno o più fortilizi sul suolo inglese, era essenziale conoscere 
non solo la tecnologia da adottare per l'assemblaggio ligneo del castello, ma so- 
prattutto avere una buona conoscenza della Re del terreno su cui edifi- 
carlo. Esempi di questa pratica si trovano nella costruzione della motta di Aumer- 
val (Fiandre), dove vennero costruite difese prefabbricate (bellica a egiaala 
compresa una grande torre. In seguito, la stessa torre e le altre difese in legno 
furono smontate in poco tempo**. Dopo il montaggio, alcuni elementi prefab- 


8... Oxford, Ms. E. Museum, 93. 

3. R. Allen Brown, 7he Norman Conquest... cit., pp. 65-74; E.S. Armitage, 7he Early Norman 
Castles of the British Isles, London, J. Murray, 1912, pp. 158-160; pp. 186-187. 

3 P. Bouet, Hastings..., cit., pp. 50-51. 

8... C.M. Gillmor, Naval logistics of the Cross-Channel Operation 1966, «Anglo-Norman Studies», 
VII (1984), pp. 105-131. 

36 Wace, Roman de Rou, A. J. Holden (ed.), t. II, Paris, 1971, vv. 6332-6338, p. 120. 

37. É. Ridel, Les navires de la conquéte. Cully, OREP, 2010, pp. 31-44; L. Musset, La Tapisserie..., 
cit. scene 34-36, pp. 182-189. 

38. R.A. Higham, P. Barker, Timber Castles..., cit., p. 125. 


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La Tapisserie de Bayeux 
e l'apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


bricati “preassemblati al rustico”, oltre ad essere ulteriormente rifiniti, subivano 
un altro trattamento: per esempio venivano coperti con uno strato di intonaco 
a calce sulla superficie rendendoli così meno infiammabili. La testimonianza di 
Wace, che notoriamente scrisse una moltitudine di dettagli e aneddoti raccolti 
da testimoni oculari a Hastings, ci fornisce una ricostruzione precisa degli eventi 
immediatamente successivi allo sbarco. Wace, nel Roman de Rou riporta L notizia 
di un castello prefabbricato caricato su uno o più navi della flotta di Guglielmo 
dal conte Roberto d’Eu, il cui territorio era vicino al punto d'imbarco di Saint- 
Valéry-sur-Somme. Non è un caso se pochi anni dopo il 1066, il conte ottenne il 
fortilizio di Hastings succedendo a Unfredo di Tilleul che aveva tenuto il castello 
dal giorno della sua fondazione”. 

Con queste parole Wace descrive la costruzione del castello di Hastings"°: 
«[Dopo lo sbarco] Dalle navi furono prelevati i legni (tavole e assi) e li trascinaro- 
no a terra, portati lì dal conte di Fu, completamente forati, ordinati e predisposti 
per i cavicchi e i serraggi; i picchetti delle palizzate, tutti già lavorati, furono poi 
trasportati in grandi botti. Cosicché, prima che fosse molto tardi, fu eretto un 
fortilizio, realizzato un fossato intorno ad esso e costruita una fortificazione mol- 
to ben protetta». 

Un modo di costruire molto facile e veloce che in tempo di guerra consentiva 
di costruire in pochi giorni un castello di terra e legno sulla sommità del monti- 
cello artificiale. Nella Broderie di Bayeux, il tumulo è stato rappresentato con una 
forma arrotondata o, come nel caso di Rennes, con un profilo più appuntito. I 
fortilizi in legno hanno la forma di una semplice torre come a Dol, Hastings e Ba- 
yeux, oppure di una torre coperta da una cupola e protetta da una palizzata, come 
a Dinan e Rennes. Differenze piuttosto importanti che ci portano ad affermare 
che non si tratta di semplici disegni simbolici e schematici per indicare le località, 
peraltro segnalate dalle didascalie, ma che implicano differenze sostanziali nella 
tipologia impiegata e nella morfologia del luogo dove sono stati costruiti. Inoltre, 
il complesso monastico di Mont-Saint-Michel, pur essendo molto stilizzato e 
meno realista delle altre architetture, mostra comunque una buona conoscenza 
topografica della Bretagna, dove si svolsero gli eventi della spedizione di Gu- 
glielmo e ai quali partecipò anche Aroldo. La collina che domina la piana su cui 
sorge il complesso monastico di Mont-Saint-Michel (scena 16), infatti, chiarisce 
la ... tra un semplice rilievo di terreno naturale e una motta artificiale. 

La collinetta erbosa, disegnata con una certa veridicità sulla Broderie, riprodu- 
ce l’ambiente naturale su cui sorge la chiesa di Mont-Saint-Michel, qui raffigura- 
ta come un piccolo reliquiario che appare in cima a un'altura rocciosa circondata 
dalle insidiose sabbie mobili generate dalla bassa marea. La scena 45, che evoca la 
costruzione della motta di Hastings, illustra in modo evidente il lavoro svolto da 
numerosi operai, molti dei quali assoldati dalle regioni vicine, per scavare il fossa- 
to e creare il conseguente terrapieno artificiale. Il disegno cerca di rappresentare il 
momento esatto in cui iniziarono i lavori di sbancamento per edificare una sorta 
di ridotta fortificata che avrebbe fornito un riparo immediato in caso di attacco a 


3 .EA. Mason, The companions ofthe conqueror: an additional name, «English Historical Revue», 
q g! 


vol. LXXI, 278 (1956), pp. 61-69. 
10 Wace, Roman de Rou..., cit., Il: vv. 5507-5527, pp. 126-127. 


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Giovanni Coppola 


sorpresa da parte del nemico. Si vedono in primo piano, sotto il controllo di due 
capicantiere, alcuni sterratori che procedono con i lavori mediante l’ausilio di 
alcune pale, tre vanghe e un piccone, mentre altri operai si avvicinano per aiutarli 
con le pale, provviste di elementi in ferro nelle parti lavoranti (pella ferrata), e un 
grosso maglio ovale in legno per compattare il terreno". La suddivisione in fasce 
orizzontali di diverso colore utilizzata per indicare i vari strati sovrapposti della 
collinetta fortificata, ovvero terra mista a pietre, terriccio, argilla, gesso e sab- 
bia, è confermata dai risultati degli scavi archeologici che hanno spesso rivelato 
stratificazioni con questi falli peraltro ricorrenti nel ih inglese*?. Il 
rivestimento del rilievo del tumulo presenta delle differenze molto interessanti. 
Con ogni probabilità si trattava di artifici costruttivi messi in atto per evitare che 
il monticello di terra, anche se adeguatamente compattato e composto da strati 
di materiali diversi, potesse cedere. La collinetta della motta di Rennes è molto 
probabilmente pensata per essere rivestita da una serie di lastre di pietra, come 
è ancora oggi visibile sulla motta della fortificazione di Aleppo in Siria, e trova 
immediati riscontri nella motta e bassa corte di Therfield in Inghilterra". Talvolta 
ai piedi della motta veniva realizzata una apposita armatura lignea, tra la base del 
tumulo e il bordo del fossato per evitare che la terra, pur se compattata, scivolasse 
e riempisse il fossato, ad esempio a causa di forti piogge, come riportato per la 
prima volta nel Colloquio di Caen del 1981‘, 

Sulla sommità della motta sono rappresentate in modo molto schematico al- 
cune torri, che di solito sono costruite interamente con assi di legno. Le torri 
isolate di Dol e Dinan presentano una evidente struttura a pilotis, cioè la torre 
poggia su stabili elementi di sostegno verticali posti ai quattro angoli che servono 
da supporto per il solaio ligneo. Anche in questo caso l'archeologia permette 
utili confronti con tale tipologia. Solo per citare l'esempio più immediato, basti 
verificare ancora una volta i risultati dello scavo della motta di Abinger nel Sur- 
rey, diretto da Hope Taylor, che presenta una struttura identica: ovvero la motta 
era costituita da una torre centrale di forma quadrangolare sostenuta da pilastri 
e da una palizzata disposta su due file concentriche di pilastrini che circondava 
l’eminenza di terra, consentendo una sporgenza che comportava un cammino 
di ronda, come si riscontra nella motta di Tamworth nello Staffordshire e a Hen 
Domen nel Galles*°, Ad Abinger, le palizzate erano costituite da tronchi di legno 
di media sezione (circa 60 cm) disposti a una certa distanza l’uno dall’altro e i cui 
vuoti erano riempiti da assi verticali. A Hen Domen, le palizzate erano alte fino a 
4 metri”. Nell'immagine che raffigura la motta di Dinan, si vede il braccio destro 


i! L. Bourgeois, Entre réalité et représentations: la culture matérielle du XIe siècle et la Tapisserie de 


Bayeux, in L'invention..., cit., pp. 311-323. 

4 A.-M. Flambard-Héricher, Quelques réflexions..., cit., pp. 123-132. 

4... M. Biddle, 7he Excavation of a Motte and Bailey Castle at Therfield, «Journal of the British 
Archaeological Association», 3/XXVII (1964), pp. 53-91. 

4 Colloque de Caen, Les fortifications de terre en Europe occidentale du XTe au XIle siècle, «Archéol- 
ogie médiévale», XI (1981), p. 15, 29. 

45. R.A. Higham, P. Barker, Zimber castles..., cit., pp. 244-325. 

4 Vedi nota 21. 

4 R.A. Higham, D. Barker, Her Domen, Montgomery: a Timber Castle on the English-Welsh border. A 
final report, Exter, Exter University Press, 2000; B. Hope Taylor, Zhe Norman motte..., cit., pp. 223-249. 


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La Tapisserie de Bayeux 
e l'apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


di uno dei difensori che passa dietro il pilastro di sinistra, mentre un altro soldato 
è chiaramente mostrato davanti al pilastro destro. Questa osservazione conferma 
l’interpretazione che l’edificio sia sostenuto da pilastri verticali (pilotis), probabil- 
mente per aumentare l’area di movimento a disposizione dei difensori. Questa 
tipologia appare meno evidente per i disegni di Rennes e Bayeux. Ad ogni modo, 
in tutte e cinque gli esempi raffigurati sulla Broderie la parte superiore della motta 
è provvista di una torre, ma solo in tre è protetta da una palizzata come a Dinan, 
Rennes e forse Bayeux. Nei primi due casi, l’intera superficie sommitale era cir- 
condata da una palizzata la per impedire qualsiasi spazio di manovra al 
nemico, mentre nel caso di Bayeux la struttura doveva essere mista, cioè costruita 
con pietra e legno. In due siti del XII secolo, a Bretteville-sur-Laize e a Urville 
(Calvados, Normandia), sono state rinvenute strutture in legno e argilla su basa- 
menti costituiti da pietrame di risulta e abbondante malta**. Le Li si sa, 
potevano essere rinforzate ulteriormente da elementi sporgenti, come mostra il 
disegno della motta di Dinan, dove si vede persino un soldato in piedi che regge 
l'asta di uno stendardo con le chiavi del forte appese all’estremità in segno di resa. 
Dalla bassa corte, l’accesso alla parte superiore della motta poteva avvenire in 
due modi diversi. Sappiamo da numerosi scavi che le collinette di terra, erano 
raggiungibili tramite una passerella sopraelevata o da una rampa con scale pog- 
iata sul pendio. La motta di Rennes mostra visibilmente, su entrambi i lati alla 
DD del tumulo, due muri in pietra, invece della solita palizzata di legno. Inoltre, 
invece di presentare un ponte volante che conduce dalla bassa corte alla sommità 
del tumulo, come negli altri esempi, è disegnata una rampa formata da assi di 
legno collocata direttamente lungo il declivio del terreno. Si noti inoltre che le 
due estremità della motta di Rennes sono ricoperte di vegetazione, poiché sem- 
bra che vi pascolino animali; la sommità è coronata da una palizzata merlata da 
cui emerge un'alta torre con due piccole finestre ai lati. Il tetto è di forma conica 
ed è sostenuto da pali angolari a vista. Sia a Dol che a Dinan i fossati sono ben 
disegnati, anche se in modo schematico con una “V” capovolta, mentre mancano 
a Bayeux, probabilmente perché si trattava di un castello urbano sicuramente di- 
feso da una cinta muraria posta a una certa distanza dal forte e che, per motivi di 
spazio, non è stata inclusa nel disegno della scena. Per quanto riguarda l’accesso, 
notiamo anche differenze di rappresentazione tra le varie architetture esaminate. 
A Dinan la porta è collocata alla base del tumulo, mentre a Dol è posta in cima 
al ponte. Anche a Bayeux, il cui disegno sembra essere una vera e propria sezione, 
mostra bene come i vari strati curvilinei di terra, evidenziati con colori diversi, 
servissero ad adattarsi alla forma della roccia preesistente. Inoltre, sembra che la 
motta fosse munita di un’ampia porta d’ingresso protetta da un avancorpo che 
ricorda alcuni ingressi di torri in pietra del XII secolo, come a Rochester. 
Se volessimo provare a tracciare una rapida sintesi, potremmo aggiungere che 
i successi della conquista normanna in Inghilterra comportarono la definitiva 


58. J. Decaéns, L'enceinte fortifiée d'Urville et de Bretteville-sur-Laize-Calvados, «Annales de Nor- 
mandie», 18 (1968), pp. 311-375. 

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at Rochester, sous la direction de, T. Ayers, T. Tatton-Brown, British Archacological Association and 


Maney Publishing, Leeds 2006, pp. 265-299. 


95 


Giovanni Coppola 


rimozione su larga scala dell’aristocrazia anglosassone, realizzata attraverso l’im- 
posizione di una nuova classe dirigente, signorile ed ecclesiastica, inferiore per 
numero, straniera e diversa dalla prima, in quanto composta da esponenti di di- 
versa estrazione geografica (bretoni, fiamminghi, italo-meridionali). Ciò fu reso 
possibile da un controllo capillare del territorio facilitato dall’uso sapiente delle 
tipologie fortificate dell’epoca, che fin dalle prime battute erano rappresentate 
dalle architetture delle motte in legno e terra e dai dongioni in pietra. Questi ul- 
timi insieme alle chiese furono l’espressione del profondo cambiamento avvenuto 
all'indomani della battaglia di Hastings non dl; in tutta l’Inghilterra, ma anche 
in Galles, Scozia, Irlanda, Italia meridionale e Terrasanta. È questo il motivo 
principale per cui lo studio della Broderie, costituisce la principale testimonianza 
storica e iconografica di questo cambiamento, poiché riproduce con semplici 
disegni stilizzati le varie tipologie architettoniche, in un periodo della storia cu- 
ropea in cui uno strano destino aveva assegnato al piccolo ducato normanno il 
ruolo di grande artefice della civiltà europea, e così, mutatis mutandis, anche di 
una parte importante del Mediterraneo e del Vicino Oriente. 


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Giovanni Coppola 


# Marrakesh 
ei 


MAGREB 


DB Espansione normanna 
[I] Espansione plantageneta 


sz» Espansione XI secolo 
#=zi» Espansione XII secolo 


EGITTO 


Fig. 1: Espansione normanna tra XI e XII secolo (rielaborazione della cartina a cura del dott. Luigi 
Esposito). 


100 


La Tapisserie de Bayeux 
e l’apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


Figg. 2, 3, 4 e 5: Zapisserie de Bayeux, motta di Dol (scena 18), motta di Rennes (scene 18-19), motta 
di Dinan (scena 19), motta di Bayeux (scena 22) (OVille de Bayeux). 


101 


Giovanni Coppola 


Fig. 6: Tapisserie de Bayeux (scena 35). Taglio di alberi e, più in là, di tronchi, al fine di ottenere assi per 


gli scafi delle navi (© Ville de Bayeux). 


Fig. 7: Tapisserie de Bayeux (scena 36). Carpentieri sotto la guida di un maestro d’ascia intenti alla co- 
struzione di navi: posa del fasciame sulla chiglia utilizzando asce, martelli e trapani (© Ville de Baycux). 


102 


La Tapisserie de Bayeux 
e l’apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


La Tapisserie de Bayeux 


Gjòlstad 


La reconstitution 


Oz, 


ed 


4 Tarière 
} acuillere 


Racloir Marteau 


€ |T_eeaaay 


Doloire Herminette 


| Hache à fer étroit 


Fig. 8: Strumenti per la lavorazione del legno a partire dalla scena 36 della Tapisserie de Bayeux (scene 
35-36) (da O. Crumlin-Pedersen, Viking-Age Ships and Shipbuilding, Roskilde Viking Ship Museum, 
1996, p. 189). 


. 10 20 cm 
Echelle 1:10 


103 


Giovanni Coppola 


ELI laica» tem 


Fig. 9: Tapisserie de Bayeux (scena 12). Dongione i in pietra di Rouen con la facciata del recinto monu- 
mentale provvista di due torri poste ai rispettivi angoli dell’impianto quadrangolare (quadriburgium) 


(© Ville de Bayeux). 


Fig. 10: Torre di Londra (1075-1100). Vista panoramica del dongione della ‘White Tower” da Sud- 
Ovest. 


104 


La Tapisserie de Bayeux 
e l'apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


Fig. 11: Tre castelli della Sicilia normanna della seconda metà dell'XI secolo: Paternò, Adrano e Motta 
Sant'Anastasia. 


Fig. 12: Zapisserie de Bayeux (scene 45-46), motta di Hastings (© Ville de Bayeux). 


105 


Giovanni Coppola 


Fig. 13: Zapisserie de Bayeux (scena 51). La battaglia di Hastings, 14 ottobre 1066: carica della cavalleria 
pesante normanna contro il muro di scudi degli Jousecarles sassoni (© Ville de Bayeux). 


Fig. 14: Caen, Museo di Normandia, plastico della motta castrale di Olivet a Grimbosq (1040-1050). 


106 


La Tapisserie de Bayeux 
e l'apporto alla conoscenza della Storia dell'architettura militare dell'XI secolo 


to 


FOSSATO 


Fig. 15: Troia, frazione di Vaccarizza (FG), motta e bassa corte, seconda metà dell'XI secolo (foto - École 
Frangaise de Rome, VA 338). 


Fig. 16: Troia, frazione di Vaccarizza (FG), motta con bassa corte (ricostruzione disegnata a cura 
dell’arch. Konstantin Brandeburg). 


107 


Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


LAMIA HADDA 


Nel primo periodo dell'Islam, il minareto sembra essere stato un elemento ar- 
chitettonico per certi versi opzionale che non aveva ancora ben definito la sua for- 
ma architettonica. Allo stato delle ricerche possiamo affermare che nessuna delle 
antiche moschee presenti nelle città musulmane dell'Oriente aveva una struttura 
adibita all'appello alla preghiera. Secondo le fonti che riguardano il periodo in 
oggetto, i primi monumenti utilizzati per il richiamo alla preghiera furono le 
torri d'angolo del temenos romano a Damasco, quando il luogo È, trasformato in 
moschea'. Dal periodo omayyade ad oggi, in tutta l’area di influenza musulmana, 
il minareto è considerato il simbolo per antonomasia della presenza dell’Islam. 
La sua tipologia è strettamente legata alle tradizioni costruttive locali. La forma, 
l'altezza e la zu variano in base alla regione, all’epoca e alla dinastia re- 
gnante. Si possono riassumere a tre le tipologie di monumenti che influirono con 
molta probabilità sulla struttura del minareto determinandone le diverse varianti 
regionali: le torri quadrangolari paleocristiane delle chiese nella Siria preislamica; 
il faro di Alessandria, straordinariamente importante anche nel Medioevo per 
essere diventato un riferimento architettonico per tutta la riva sud del Mediterra- 
neo e non solo; infine, le torri circolari di guardia e di segnalazione molto presenti 
in età preislamica nelle regioni dell’Asia centrale, dall’Iran fino all’India?. 

Il primo tipo di minareti è a sviluppo quadrangolare ed è molto diffuso in 
Siria, Giordania e Palestina. Generalmente costruito in pietra, fu riprodotto con 
poche varianti tipologiche su tutta l’area mediorientale fino al XIII secolo. Gli 
antichi esempi presentano una forma derivata direttamente dalle caratteristiche 
torri quadrate delle chiese cristiane, a loro volta provenienti dagli schemi tipo 
del mondo romano o ellenistico. Nel 706, durante la costruzione della Grande 
Moschea degli Omayyadi a Damasco il califfo al-Walid fece demolire tutti gli 
edifici esistenti all’interno del recinto sacro della chiesa dedicata a San Giovanni 
Battista, risparmiando solo le tre torri-campanarie, trasformate poi in altrettanti 
minareti: il minareto di Gesù (midbana Tsa), quello detto “della Sposa” (mid4ha- 
na al-‘arusa) e quello, infine, di Qayt Bey rinnovato nella parte superiore durante 
l'epoca mamelucca?. 


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2 Gottheil .H.R., he Origins and History of the Minaret, «Journal of the American Oriental 
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si Bowersock G.W., Lamont Brown P.R., Grabar O., Interpreting late antiquity: essays on the 


109 


Lamia Hadda 


Questi primi impianti tipologici hanno influenzato i successivi esempi siriani, 
come nel caso del minareto della grande moschea di Aleppo: opera dell’architetto 
Hasan ibn as-Sarmani, costruita tra il 1090 e il 1092 in piena epoca selgiuchide, 
considerato tra le prime testimonianze del vero e proprio stile dell’architettura 
islamica siriana. Il manufatto rappresenta una completa armonia tra le conoscen- 
ze architettoniche bizantine assimilate dalle tradizioni decorative islamiche. La 
struttura muraria ha resistito più di nove secoli a varie catastrofi poiché è stata 
costruita con una speciale tecnica costruttiva antica, probabilmente di derivazio- 
ne romana, che consiste in blocchi squadrati di pietra tagliata tenuti insieme da 
ganci di ferro e piombo fuso, come afferma nel XV __. lo storico siriano Ibn 
Ach-Chibna*. Molti dei blocchi di pietra usati nella costruzione provengono dai 
resti dell'antica cattedrale. Il minareto si trova nell'angolo nord-ovest del cortile e 
si articola in alzato per cinque livelli al di sopra della copertura del porticato per 
un'altezza totale di 45 metri). 

Gli Omayyadi introdussero anche nell’Occidente islamico il minareto a pianta 
quadrata. L’esemplare più antico si trova nella moschea di Sidi ’Ogba Ibn Nafaa a 
Kairuan in Tunisia, opera del principe aghlabide Ziyadat Allah I del IX secolo. Il 
minareto è costruito al centro del lato nord-est del cortile, lungo l’asse longitudinale 
dell’edificio e non è allineato con la navata centrale. La struttura è costituita da una 
torre massiccia con tre piani sovrapposti a pianta quadrata, collegati da una scala in- 
terna, che raggiunge un’altezza totale di 31 metri. All'esterno, presenta diversi livelli 
di decorazione con nicchie cieche e merli semicircolari®. Il suo modello architetto- 
nico è adattato alle necessità difensive della moschea, al punto che assume l'aspetto 
di una fortezza. In realtà, il minareto ha una forma particolare che riecheggia quella 
dei fari e delle torri militari dell'antichità classica presenti in tutto il i 
si può ancora notare l'evidente derivazione formale dal faro di Alessandria. 

A questi modelli progettuali e stilistici siriaci s'ispirò anche il minareto della 
Grande Moschea di Cordova. Secondo la descrizione del geografo arabo al-Idrisi, 
la torre presentava una pianta quadrata a due piani sovrapposti coronati da una 
cupola sormontata da tre sfere dorate”. Il bassorilievo del XVI secolo posto sulla 
porta Santa Catalina della moschea raffigura il minareto costruito da Abd ar- 
Rahman III nella sua conformazione dell'inizio del X secolo. Il disegno mostra 
chiaramente il rivestimento delle pareti in bugnato con evidenti giunti orizzonta- 
li e verticali, su cui si aprono alcune finestre con archi a ferro di cavallo8. 


postclassical world, Cambridge: Belknap Press of Harvard University Press, 2001; Burns R., Damascus: 
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4 —Sauvaget]J., “Les perles choisies” d'Ibn Ach-Chihna: matériaux pour servir à l'histoire de la ville 
d’Alep, vol. I, Beyrouth: Institut Francais de Damas, 1933, p. 64. 

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6 Hadda L., Nella Tunisia Medievale. Architettura e decorazione islamica (IX-XVI secolo), Napoli: 
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7. Al-Idrisi, Description de L’Afrique et de l’Espagne, trad. Dozy R., De Goeje M. J., Leyde: Brill, 
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110 


Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


Tale impianto tipologico, l’unico rimasto in uso nell’Occidente islamico, si 
è conservato molto la nel minareto della Kutubiyya a Marrakesh in Marocco 
d'epoca almohade, databile alla fine del XII secolo. Il manufatto si eleva da una 
base quadrata di circa 13 metri di lato e raggiunge un'altezza complessiva di 
68 metri, sormontato da una lanterna sulla quale si erge una cupola coronata 
da tre sfere dorate?. Le facciate laterali presentano una n costituita da 
forme romboidali che sembrano ispirate a motivi tessili, definita shebka, e una 
fascia di tessere invetriate color turchese, ancora ben conservate in alcuni punti. 
Il minareto della Kutubiyya, divenne il riferimento formale per la celebre Giralda 
di Siviglia e anche per la Torre di Hassan a Rabat in Marocco, torri quasi coeve 
e probabilmente ideate dallo stesso architetto. La Giralda, alta più di 80 metri, 
presenta su tutta la sua superficie esterna un originale paramento murario deco- 
rato a shebka. All’interno, non vi sono scale bensì rampe che conducono fino alle 
parti alte in modo da facilitare il trasporto a dorso d’asino delle pietre e degli altri 
materiali da costruzione. All’antico e originario minareto, che oggi rappresenta la 
torre campanaria della cattedrale di Siviglia, venne aggiunto nel tardo XVI secolo 
un coronamento d’epoca barocca. Alla stessa epoca risalgono anche i parapetti 
simili a balconi dinanzi alle varie aperture!°. 

I minareti dell'Occidente islamico, generalmente eretti in mattoni, ad ecce- 
zione di qualche esempio realizzato in pietra, sono articolati all’interno da nu- 
merosi piani sovrapposti. Presentano quasi la stessa ricca decorazione geometrica 
in rilievo a forma di rombi intramezzati da finestre, generalmente bifore, e da 
balconi. Nel corso dei secoli tali edifici hanno subito poche sostanziali variazioni. 

Il secondo modello dei minareti è quello che presenta una forma architetto- 
nica a spirale. In Mesopotamia troviamo nel IX secolo, precisamente a Samarra 
in Iraq, qualche esemplare in mattoni posto al di fuori del cortile della moschea, 
con scala esterna che si avvolge a spirale lungo tutta la superficie del manufatto. 
Tra i più noti ricordiamo i della moschea abbaside del califfo al-Mutawakkil 
(dell’848) e quello della moschea di Abu Dulaf (dell’859). 

Il possente minareto, chiamato 4/-malwiya (a spirale), fa parte del complesso 
della grande moschea che il califfo al-Mutawakkil fece costruire tra 1'848-852. 
Posto nell’asse del mzihrab e collegato alla moschea stessa attraverso un ponte, il 
minareto è costituito da una grande rampa spiraliforme che, in senso antiorario, 
conduce a un padiglione che si trova 50 metri al di sopra del suolo!!. Affinché 
ogni piano conservi la medesima altezza, la rampa si adegua al profilo del fusto 
diventando tanto più ripida quanto più la torre si assottiglia. Una soluzione este- 
tica soddisfacente, ma poco pratica per chi voglia salire sulla torre. 


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111 


Lamia Hadda 


Un altro esempio di minareto a spirale è presente nella nota moschea di Ibn 
Tulun al Cairo, della fine del IX secolo, progettato ad imitazione della malwiya 
di Samarra: a base quadrata si eleva una torre troncoconica nella quale si sviluppa 
una scala elicoidale esterna che permette l’accesso e la fruibilità fino alla vetta!?. 

L'origine di tale minareto va cercato in un certo tipo di torre a spirale, noto in 
particolare nell’Iran sassanide, la cui funzione non è ancora stata ben chiarita. A 
Firuzabad si conservano ancora le rovine di una di queste torri conosciuta come 
il “Minar de Firuzabad” o “Terbal”. Altri studiosi, come ad esempio lo storico 
dell’arte islamica Creswell, non escludono il rapporto tra il minareto a spirale e le 
antiche ziggurat della Mesopotamia". 

Il minareto a fusto cilindrico, invece, rappresenta il terzo impianto tipologico 
di riferimento. Tale formula architettonica i avuto una grande risonanza nell’O- 
riente musulmano soprattutto a partire dall'XI secolo con le conquiste selgiuchi- 
di. La progettualità e ha creatività degli architetti musulmani è evidente attraverso 
alcune varianti che sono da individuare nella base della struttura, ai piedi del 
fusto e nella parte alta del minareto, mentre non appaiono mai né alloggi né piani 
come è stato prima evidenziato nei minareti quadrati, poiché il corpo della torre 
si avvolge intorno a un nucleo centrale, in genere una scala che porta fino alla 
parte alta della costruzione. Tali minareti a base circolare, non presentavano pa- 
reti finestrate; la scala a chiocciola interna aveva accesso per mezzo di una galleria 
aggettante sostenuta da mensole decorate con stalattiti. 

In Persia e nel Turkestan, prevalse nei minareti più antichi la pianta cilindrica 
con un'imponente dimensione la cui superficie era decorata da finestre cieche, 
che sono una chiara derivazione delle torri di vedetta e di segnalazione preislami- 
che. Un esempio degno di nota è presente a Jam in Afghanistan. Il prestigioso mi- 
nareto che risale al XII secolo, appartiene ad un gruppo di circa sessanta minareti 
e torri costruite fra XI e il XIII secolo nell'Asia centrale, in Iran e in Afghanistan. 
Il minareto di Jam, alto 65 metri e circondato da montagne alte fino a 2400 
metri, è interamente costruito con mattoni cotti. È famoso per la sua complessa 
decorazione, realizzata in mattoni, stucchi e tegole smaltate a vetro, che consiste 
in strisce alternate da disegni geometrici e calligrafia araba con versetti tratti dal 
Corano. La struttura circolare del minareto poggia su una base ottagonale chiusa 
nella parte alta da una lanterna!*. È molto probabile che il minareto di Jam abbia 
condizionato la costruzione del Qutb Minar o la “torre della vittoria” della mo- 
schea Quwwat al-Islam a Delhi in India del 1199. In effetti, la tipologia a fusto 
cilindrico amplia la sfera d’influenza fino all'India, dove i monumenti trionfali 
d’epoca preislamica diedero il primo impulso alla costruzione dei minareti in pie- 


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en Afganistan, Tome XVI”, 1959; Sourdel-Ihomine J., Le minaret ghouride de Jam: un chef d’euvre du 
XIIème siècle, Paris: Académie des Inscriptions et belles-lettres: diff. de Boccard, 2004. 


112 


Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


tra, incidendo per lungo tempo sulla tradizione costruttiva regionale! Il Qutb 
Minar, invece, con i suoi 72,5 metri di altezza è il più alto minareto in mattoni 
del mondo che per la caratteristica ripartizione verticale costituita da travi e pila- 
stri circolari e orizzontali e fregi iscritti in calligrafia araba è anche uno tra i più 
importanti della civiltà islamica. 

Nel corso della loro evoluzione tipologica i minareti a fusto cilindrico hanno as- 
sunto una funzione sempre più decorativa, e col tempo sono stati progettati a coppie 
ravvicinate e talvolta addirittura raddoppiando le coppie posizionandole sia negli an- 
goli delle facciate dei cortili sia più frequentemente ai lati dei portali. Decorati, fino al 
XIII secolo, con motivi geometrici in mattoni, i minareti furono poi arricchiti di mo- 
saici in ceramica con diversi colori. Tra i minareti più caratteristici ricordiamo quello 
della grande moschea a Herat in Afghanistan, della fine del XV secolo, e il minareto 
del 1619, della madersa Cher-Dor a Samarcanda in Uzbekistan. 

È soprattutto in Anatolia che il tipo cilindrico conoscerà una grande diffusione, 
sempre dipendente dalla costruzione principale, o posta di fianco a coppie dei portali 
oppure facente corpo con la stessa muratura dell’edificio. Molto noto è il minareto 
della madrasa di Ince Minareli del XIII secolo a Konya in Turchia". In epoca otto- 
mana gli sviluppi in alzato dei minareti diventano sempre più esteticamente Cipe e 
acuti, spesso con una copertura a cono. Sono le guglie dei minareti che con le cupole 
delle moschee conferiscono l’attuale aspetto a Istanbul, centro dal quale a poco a 
poco si diffusero in tutti i paesi dell'impero turco. Anche lì generalmente furono usati 
a coppie, tipici sono i minareti della moschea Suleymaniye del 1890. Alcuni edifici 
monumentali sono muniti anche di quattro o sei minareti con una o più gallerie su 
mensole. Tra le più importanti moschee di Istanbul citiamo ed esempio la moschea 
Sultan Ahmed, meglio conosciuta come moschea Blu, del XVIII secolo! 

È bene precisare che il luogo dove posizionare il minareto non segue nessuna 
prescrizione particolare: posizionato aderente all'edificio come alla grande mo- 
schea di Aleppo e alla Kutubiyya a Marrakesh; eretto sul lato opposto alla sala 
della preghiera, sull’asse del mi/r40, come a Damasco, Kairuan e Cordova; collo- 
cato in prossimità della moschea come a Samarra, Fustat e nella maggior parte dei 
primi esempi iranici. In realtà, la posizione dove edificare il minareto non è stata 
mai fissata da nessuna norma islamica, stesso vale per il numero di minareti che 
possono essere indifferentemente costruiti per un monumento sacro. In genere, 
tutte le più antiche moschee, tranne che per Damasco, presentavano solo un mi- 
nareto. În epoca Seljukide, fu seguita la tradizione di costruirne due collocati da 
un lato e dall’altro del portale d’ingresso oppure su ogni angolo della facciata. In 
epoca ottomana i minareti sono in genere in numero di quattro o addirittura di 
sei, anche se il richiamo alla preghiera che viene fatto dal muezzin parte sempre 
esclusivamente da una sola torre destinata a tale scopo. 

In breve, possiamo dire che il minareto, oltre al suo scopo ufficiale di richia- 


5 KochE., 7be copies of the Qutb Minar, «Iran», 29 (1991), pp. 95-107; Javid A., Javeed T., World 
Heritage Monuments and Related Edifices in India, New York: Algora, 2008, pp. 105-130. 

16 Dere Y., Erdogan H.A., Basar M.E., Dynamic Comparison of Three Major Turkic Minarets in 
the History of Minaret Evolution, nternational Journal of Advances in Soft Computing and its Appli- 
cations», 4 (2014), pp. 241-245. 

Goodwin G., A History of Ottoman Architecture, London: Thames & Hudson, 1997, pp. 215-240. 


113 


Lamia Hadda 


mare i fedeli alla preghiera, racchiude in sé diversi significati. Spesso rappresen- 
ta il simbolo per eccellenza della presenza politico-religiosa del mondo arabo- 
musulmano e l'emblema per antonomasia kl diffusione dell’Islam. In effetti, 
percepiti da lontano, gli alti minareti con la loro variegata casistica di forme 
sulla estremità, assumono anche l'importante compito di orientare da lontano il 
credente, di rassicurarlo nel suo cammino, di affermare che si trova in un luogo 
familiare, nel Dar a/-Islam. 

Il minareto può essere considerato anche il simbolo di un centro abitato. La 
città di Mosul in Iraq era conosciuta soprattutto per il minareto pendente della 
sua grande moschea di al-Nuri, costruito nel 1172. Il minareto, a base quadrata 
si alzava per un'altezza di circa 45 metri. Soprannominato “Il Gobbo” a/-Hadba, 
nel tempo ha assunto la più generica definizione di “torre pendente irakena”. Il 
minareto è stato, infatti, uno dei simboli più riconoscibili di tutta la Mesopota- 
mia, da sempre usata dai muezzin di Mosul per richiamare i fedeli alla preghiera!5. 
Nel giugno del 2017, il minareto fu purtroppo distrutto dai miliziani del califfato 
islamico (Isis) in ritirata quando ormai per loro era tutto perduto. In fondo, il 
significato dell’edifico andava oltre la sua intrinseca importanza storica, artistica 
e architettonica, definendo un’appartenenza civica che trascendeva le distinzioni 
etniche e confessionali. E il caso anche del minareto della moschea degli omayya- 
di di Aleppo, costruito in epoca selgiuchide, che rappresenta la struttura più 
antica della moschea sopravvissuta per più di nove secoli a diverse catastrofi fino 
alla sua distruzione avvenuta il 24 aprile 2013 durante violenti combattimenti tra 
forze governative siriane e quelle dei ribelli!’. Secondo l’agenzia dello Stato siria- 
no, a i esplodere il minareto sarebbe stato il gruppo di dottrina sunnita Jibhat 
an-Nusra alleati del cosiddetto stato islamico. È possibile affermare che la causa 
principale della distruzione del minareto è insita nella sua identità, ovvero per ciò 
che rappresenta, come simbolo di una data dottrina religiosa. In eftetti, il monu- 
mento è stato la vittima sacrificale del conflitto tra sunniti e sciiti. L'iscrizione di 
carattere naskhi d'epoca selgiuchide collocata sulla facciata del minareto riporta, 
oltre a un versetto U Corano della sura di “AL’Ahzab”, i nomi dei dodici imam 
sciiti discendenti del califfo Ali ibn Abi Taleb. Tutto ciò conferma la presenza 
della dottrina sciita sul monumento che ha dato l'avvio alla reazione nefasta nei 
confronti del monumento sacro da parte del gruppo estremista sunnita. 

In conclusione, possiamo dire che il minareto può quindi essere interpretato, 
a giusta ragione, come un'espressione simbolica della cultura islamica rivolta in 
prima istanza ai non musulmani. È anche interessante notare che la proliferazio- 
ne dei minareti ornati da splendide composizioni, nei successivi modelli urbani 
come ad Isfahan, ad Istanbul o al Cairo, non indichi solo una semplice espressio- 
ne architettonica per il richiamo dei fedeli alle funzioni religiose, bensì esercita 
una forte carica simbolica, un palcoscenico che spiritualizza il tessuto della socie- 
tà islamica, assurgendo a riferimento per la topografia della città. 


18 Petersen A., Dictionary of Islamic Architecture, London: Routledge, 1999, pp. 188-190; Fisk 
R., The Destruction of the al-Nuri Mosque in Mosul is another example of the “Culturecide” weve become so 
used to, «The Independent», 29 June 2017 (4ttps:/www.independent.co.uk/voices/mosul-minaret-mosque- 
irag-isis-47814366.html) (Accessed October 23, 2022). 

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Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


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116 


Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


Fig. 1: Siria, Il minareto di Gesù “Isa” della moschea degli omayyadi a Damasco. 


Lamia Hadda 


Fig. 2: Tunisia, minareto della moschea Sidi Okba a Kairuan. 


118 


Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


Fig. 3: Marocco, minareto della Kutubiyya a Marrakesh. 


119 


Lamia Hadda 


Fig. 4: Spagna, la Giralda a Siviglia. 


120 


Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


Fig. 5: Marocco, minareti nella medina di Fez. 


121 


Lamia Hadda 


Fig. 6: Iraq, minareto della moschea di Samarra “al-Malwiya”. 


Fig. 7: bava, minareto della lago di Ibn Tulun al Cairo. 


122 


Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


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Fig. 8: Afghanistan, minareto di 


Jam. 


Fig. 9: India, Qutb Minar della moschea Quwwat al-Islam a Delhi. 


123 


Lamia Hadda 


Fig. 11: Turchia, minareti della moschea Sultan Ahmed a Istanbul. 


124 


Architettura dei minareti: forme, modelli e strutture 


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Fig. 12: Iraq, minareto pendente “al-Hadba” della grande moschea di al-Nuri a Mosul. 


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Fig. 13: Veduta della medina del Cairo. 


125 


Francesco d'Assisi, le allodole e Federico II 


MICHELE FEO 


Dedicato a Donatella Coppini 
che vive in terra francescana per bellezza 
e quasi federiciana per svettar di torri 


Il cappuccio di sorella allodola 

Tutti gli strumenti furono perfidamente cercati e messi in atto per costruire 
una immagine rassicurante di Francesco, santa, anzi santissima, ma innocua. Le 
biografie furono riviste e corrette, molti ricordi e aneddoti furono cancellati, al- 
tri i. inventati. La storia dell’irriducibile ribelle fu irregimentata, la Regola 
fu ‘aggiornata’ ai tempi e alle esigenze, i frati si edificarono sedi magnifiche e 
indossarono vesti degne della più raffinata eleganza, le università si aprirono ai 
francescani e le nascenti biblioteche, fossero teologiche o giuridiche, scientifiche 
o umanistiche, a Venezia, a Firenze, a Cesena, furono affidate alla custodia dei 
nuovi detentori del sapere. Ma una minoranza di seguaci restò sempre fedele al 
Francesco più autentico, e si preoccupò anche di raccoglierne vestigia, parole, 
aneddoti e prodotti letterari messi in ombra dalla vulgata ufficiale. A capo di que- 
sta resistenza c'era Leone, il devoto frate che salvò il Cantico di frate Sole o delle 
creature. E nacque intorno a lui la raccolta assisiate di ricordi che va sotto il nome 
di Compilatio Assisiensis o Leggenda Perugina. Lì è raccolto il ricordo di molte e 
preziose curiosità, autenticate dall’affermazione che quelli che le tramandano vis- 
sero con Francesco e ascoltarono la sua viva voce e videro con i loro occhi i suoi 
comportamenti. Uno di quegli aneddoti è dedicato al suo amore per le allodole": 


Dicebat beatus Franciscus de lauda: «Soror lauda habet caputium sicut religiosi, 
et est humilis avis, que vadit libenter per viam ad inveniendum sibi aliqua frumenta, 
etiamsi invenerit ca inter stercora animalium, extrahit tamen ea et comedit. Volan- 
do laudat Dominum, sicut boni religiosi despicientes terrena, quorum semper in 
celis est conversatio. Preterea cius vestimentum terre assimilatur, videlicet penne 
eius, exemplum prebens religiosis, ut non colorata et delicata vestimenta habere 
debeant, sed quasi mortua ad modum terre». Et propterea, quia beatus Franciscus in 
sororibus laudis considerabat hec predicta, multum diligebat eas et libenter videbat. 


!  «Compilatio Assisiensis» dagli Scritti di fr. Leone e Compagni su S. Francesco d'Assisi. Dal Ms. 1046 
di Perugia, a cura di M. Bigaroni, 2a ed. riveduta e corretta, Santa Maria degli Angeli, Porziuncula 1992, 
XIV 9-12, pp. 48-50 (di qui anche la traduzione); cfr. La letteratura francescana, Il: Le vite antiche di 
san Francesco, a cura di C. Leonardi, commento di D. Solvi, Fondazione Lorenzo Valla - Mondadori, 


Milano 2009”, pp. 454-455. 


127 


Michele Feo 


Francesco soleva dire dell’allodola: «Sorella allodola ha il cappuccio come i 
frati; è un uccello umile, che volentieri va sulla strada a cercarsi qualche chicco di 
frumento, e seppur lo trovi fra lo sterco degli animali, lo raccoglie e se lo mangia. 
Volando canta il Signore, come i buoni religiosi che, rifiutando le cose della terra 
conversano sempre su argomenti del cielo. Per di più il suo vestire (voglio dire le 
sue penne) assomiglia alla terra: monito ai frati che non si procurino vesti delicate 
o a vivaci colori, ma stinte: color terra». Vedendole così Francesco amava molto le 
allodole, e si fermava volentieri ad osservarle. 


L’aneddoto non poteva non essere confermato in forma molto simile dallo 
Speculum perfectionis, se è opera di frate Leone?: 


... prae cunctis avibus diligebat quamdam aviculam quae vocatur alauda et 
in vulgari dicitur lodola capellata, et dicebat de ca: «Soror alauda habet caputium 
sicut religiosi et est humilis avis, quia vadit libenter per viam ad inveniendum 
sibi aliqua grana. Et si invenerit ca inter stercora extrahit ca et comedit. Volando 
laudat Dominum valde suaviter sicut boni religiosi despicientes terrena, quorum 
conversatio est semper in caelis et intentio est semper ad laudem Dei. Cuius ve- 
stimenta assimilantur terrae, id est pennae cius, et dat exemplum religiosis ut non 
delicata et colorata vestimenta habeant sed vilia pretio et colore sicut terra est 
vilior aliis elementis. 


Amava su tutti gli uccelli un uccellino che si chiama ‘alauda’ in latino e in 
volgare ‘lodola capellataà’, e diceva di lei: «Sorella allodola ha il cappuccio come 
i frati ed è un uccello umile, perché volentieri va sulla strada a cercarsi qualche 
chicco di grano. E se lo trova nello sterco, lo raccoglie e lo mangia. Volando loda 
il Signore molto soavemente, come i buoni religiosi che, rifiutando le cose della 
terra conversano sempre su argomenti del cielo e sono protesi sempre verso la lode 
di Dio. Il suo vestito, cioè le sue penne, assomiglia alla terra, e così dà un esempio 
ai frati che non si procurino vesti delicate o a vivaci colori, ma povere, di scarso 
prezzo, e per essere del colore della terra, è più vile di altre realtà. 


E taccio per ora di altre affermazioni sul problema?, serbandole per una fase 
avanzata dell'esposizione. È noto l’amore che, fra tutte le creature, Francesco por- 
tava agli uccelli. Ne faccio cenno qui solo per meglio inquadrare nell’esperienza 
del santo l’episodio che mi accingo a raccontare. Nelle Laudes creaturarum non 
si fa menzione specifica degli uccelli, ma essi vanno ovviamente compresi nella 
universalità del coro, «cun tucte le creature». È stata comunque rinvenuta una 
preghiera, la Timete Dominum, che i critici sono concordi nel ritenere autentica, e 
nel ritenerla precocemente anteriore alle Landes, il cui v. 14 suona: 


omnes volucres celi laudate Dominum*. 


? Speculum perfectionis seu S. Francisci Assisisensis Legenda antiquissima, auctore fratre Leone, 
nunc primum edidit Paul Sabatier, Librairie Fischbacher, Paris 1898, XII 113, p. 224. Cfr. E. Balducci, 
Francesco d'Assisi, Giunti, Firenze-Milano 2004, pp. 135-136. 

3. Una rassegna ne fa E. Balducci, Francesco, pp. 134-139. 

4 Francesco d’Assisi, Scritti, ed. C. Paolazzi, Editiones Collegii S. Bonaventurae, Grottaferrata 


2009, pp. 38-39. 


128 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


Questa è la prima apparizione degli uccelli negli scritti di Francesco, ed è ci- 
tazione quasi letterale di Dan. III 80 («Benedicite, omnes volucres caeli, Domino: 
laudate et superexaltate eum in saecula»). Occorrerà altra volta trovare un punto 
di non-contraddizione con la logica delle Laudes. Qui sarò costretto a procedere 
prescindendo dai problemi posti dalla preghiera. 

Del rapporto affettuoso stabilito i Francesco con gli uccelli si hanno per 
altro famose testimonianze: nella sua biografia san Bonaventura racconta dei rap- 
porti del santo con un fagiano, che, donato ad altri, fu colto da depressione al 
momento del distacco, e ln con un falcone, al punto che, trovandosi il 
santo infermo, l’uccello non lo disturbava e lo lasciava dormire oltre la normale 
misura; e si abbandona ad autentici momenti di tenerezza quando racconta di 
agnellini, pecore, leprotti, pesci, cicale, tutti chiamati, per la coscienza dell’ori- 
gine prima di tutte le cose, coi nomi di fratello e sorella’. Notissima è la predica 
agli uccelli, raccontata dai Fioretti e fatta oggetto di rappresentazioni figurative®. 
Ho usato il plurale, perché il dipinto di Giotto ad Assisi nella chiesa superiore di 
san Francesco” non è l’unica attestazione. E stato notato* che nella vita di Bona- 
ventura non è detto quali siano gli uccelli, e che solo nella Vita { di Tommaso da 
Celano? si parla di colombe, cornacchie e corvi; comunque lo stato del dipinto 
non consente di distinguere le specie di uccelli, ma solo di intravedere che all’o- 
rigine le specie erano distinguibili. Altre rappresentazioni di prediche agli uccelli 
sono raccolte ed esibite in un volume dedicato a L'arte di Francesco; altre ancora 
sono raccolte in un’opera di Andrea Armati"! (purtroppo con indicazioni insuffi- 
cienti della loro ubicazione). La raccolta più numerosa è probabilmente quella di 
Chiara Frugoni;'? ma se si va sulla pagina specifica di “Google immagini’ si resta 
impressionati della vastissima quantità di presenze del tema. Ad esse aggiungo 
una miniatura del cod. Royal 19. B. XV della British Library, su cui Li. di 
necessità tornare. 


°. $. Bonaventura, Legenda maior s. Francisci, ed. a pp. Collegii s. Bonaventurae, VIII 10, in 


«Analecta Franciscana», X, fasc. V, Coll. S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas [Quaracchi] 1941, p. 596; 
La letteratura francescana, IV, Milano 2013, pp. 156-157. Cfr. E Cardini, Francesco d'Assisi e gli animali, 
«Studi Francescani», LXXVIII (1981), pp. 7-46; E. Balducci, Francesco, p. 137. 

6 Riprod. in: Gli scritti di San Francesco d'Assisi e «I fioretti», a cura di A. Vicinelli, Mondadori, 
Milano 1955, tav. XV; H. Thode, Francesco d'Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia, a cura 
di L. Bellosi, Note filologiche di G. Ragionieri, traduzione di R. Zeni, Donzelli, Roma 1993, fig. 15. 

7. W. Prinz, Uomo e Natura nella vita di san Francesco, in: Uomo e Natura nella letteratura e 
nell'arte italiana del Tre-Quattrocento, EDIFIR, Firenze 1991 (Quaderni dell’Accademia delle Arti del 
Disegno, 3), p. 9. 

8. Prinz, Uomo e Natura, pp. 9-10. 

Tommaso da Celano, Vita I, XXI 58-59; ed. a pp. Collegii s. Bonaventurae, in «Analecta Fran- 
ciscana», X, fasc. 1, Coll. S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1926, pp. 44-46; Id., Le due 
vite e il Trattato dei miracoli, nuova versione integrale, introduzione e note di Luigi Macali, Signorelli, 
Roma 1954, pp. 81-86. 

10 L'arte di Francesco. Capolavori d’arte italiana dal XIII al XV secolo, a cura di Angelo Tartuferi e 
Francesco D’Arelli, Giunti, Firenze 2015. 

!! Andrea Armati, Le stimmate dello sciamano. Il mito di San Francesco tra sangue e magia, Eleusi 
Edizioni, Perugia 2011”, pp. 73, 83, 97, copertina. 

Ch. Frugoni, Francesco e l'invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bona- 
ventura e Giotto, introduzione di A. Vauchez, Einaudi, Torino 2010: scorri tutta la sez. Figure, da 1 a 180. 


9 


129 


Michele Feo 


Ma prima di procedere nella valutazione di queste testimonianze che tendono 
a collocare il santo in una zona ideologica che sta fra l’animalismo estremo e una 
sorta di evoluzionismo panteista, sarà necessario esaminare alcune possibili, alter- 
native, vie interpretative che sembrano soddisfare la nostra esigenza di dare alle 
leggende un fondamento di razionalità. La prima è una via che potremmo defi- 
nire mitico-leggendaria anche se pretende da secoli di essere quella vera e, accolta 
dalla Chiesa, si riverbera massicciamente col suo fascino sulla credulità dei fedeli. 
Secondo questa interpretazione non ci sono dubbi: Francesco parlava ovvero pre- 
dicava agli uccelli e ad altri animali, e loro lo ascoltavano attenti e lo capivano. 
Ma, tranne un paio di casi, gli agiografi non trovano una spiegazione del perché il 
santo sentisse il bisogno di predicare o parlare agli animali. Una spiegazione eco- 
logica sta certamente nell'episodio del lupo di Gubbio (mantenere un equilibrio 
fra i bisogni diversi delle varie specie animali) o in quello degli uccelli di Bevagna 
(esortazione a non disturbare col loro chiacchiericcio altro discorso nel quale è 
impegnato Francesco). Ma per il resto siamo immersi in una atmosfera di favola. 
E siamo rimandati al tema archetipale della antichissima lingua degli uccelli. Se 
di leggenda si deve parlare, occorre infatti ricordare che Francesco parlava agli 
ui e che essi lo capivano. 


La lingua degli uccelli 

Certo Francesco parla alle creature anche in altre occasioni: parla, come si è 
detto, al lupo di Gubbio, parla a un leprotto, parla al fuoco, ma parla a queste 
creature, per quel che è dato capire, senza attendersi una apertura di dialogo. Con 
gli uccelli pare che le cose stiano diversamente. Pare cioè che Francesco conosces- 
se la lingua degli uccelli o che gli uccelli comprendessero le sue parole. Parla a 
un uccellino di fiume regalatogli da un pescatore. Parla alle rondini: dapprima, 
racconta l’Anonimo dei Fioretti, Francesco chiese alle rondini, «che cantavano, 
ch'elle tenessono silenzio, insino a tanto ch'egli avesse predicato. E le rondini 
ubbidironlo»!5. Ma la novella più bella, degna di rivaleggiare con Boccaccio, è 
quella che segue subito dopo, che tutti conoscono, ma che vogliamo rileggere 
tutta intera!” 


E passando oltre con quello fervore, levò gli occhi e vide alquanti arbori allato 
alla via, in su’ quali era quasi infinita moltitudine d’uccelli; di che santo Francesco 
si maravigliò e disse a compagni: «Voi m'aspetterete qui nella via, e io andrò a pre- 
dicare alle mie sirocchie uccelli». Ed entrò nel campo e cominciò a predicare agli 
uccelli ch'erano in terra; e subitamente quelli ch’erano in su gli arbori vennono a 
lui, e insieme tutti quanti stettono fermi, mentre che santo Francesco compiè di 
predicare; e poi anche non si partivano insino a tanto ch'egli diede loro la benedi- 
zione sua. E secondo che recitò poi frate Masseo a frate Jacopo da Massa, andando 
santo Francesco fra loro, toccandoli colla cappa, niuno però si movea. 

La sostanza della predica di santo Francesco fu questa: «Sirocchie mie uccelli, 
voi siete molto tenute a Dio vostro creatore, e sempre e in ogni luogo il dovete lo- 


15. I ftoretti di san Francesco, cap. XVI; ed. con prefazione e note di B. Bughetti, Salani, Firenze 


1926, p. 72; ed. Vicinelli, p. 311. 

14 I fioretti, cap. XVI; ed. Bughetti, pp. 73-74; ed. Vicinelli, pp. 311-313. La riprende puntual- 
mente Bonaventura nella Legenda maior, VIN 9 (ed. a pp. Collegii s. Bonaventurae, pp. 595-596; ed. 
Leonardi, pp. 155-157). 


130 


Francesco dAssisi, le allodole e Federico II 


dare, imperò che v’ha dato libertà di volare in ogni luogo; anche v'ha dato il vesti- 
mento duplicato e triplicato; appresso, perché egli riserbò il seme di voi nell’arca 
di Noè, acciò che la specie vostra non venisse meno nel mondo; ancora gli siete 
tenute per lo elemento dell’aria che egli ha deputato a voi. Oltre a questo, voi non 
seminate e non mietete, e Iddio vi pasce e davvi i fiumi e le fonti per vostro bere, 
davvi i monti e le valli per vostro refugio, e gli alberi alti per fare il vostro nido. E 
con ciò sia cosa che voi non sappiate filare né cucire, Iddio vi veste, voi e i vostri 
figliuoli. Onde molto vama il Creatore, poi ch'egli vi dà tanti benefici. E però 
guardatevi, sirocchie mie, dal peccato della ingratitudine, ma sempre vi studiate 
di lodare Iddio». 

Dicendo loro santo Francesco queste parole, tutti quanti quegli uccelli comin- 
ciarono ad aprire i becchi, distendere i colli, aprire l’ali e reverentemente inchinare 
i capi insino in terra, e con atti e con canti dimostrare che le parole del padre 
santo davano a loro grandissimo diletto. E santo Francesco insieme con loro si 
rallegrava e dilettava, e maravigliavasi molto di tanta moltitudine d’uccelli e della 
loro bellissima varietà e della loro attenzione e famigliarità; per la qual cosa egli in 
loro divotamente lodava il Creatore. 

Finalmente compiuta la predicazione, santo Francesco fece loro il segno della 
croce e diede loro licenza di partirsi; e allora tutti quegli uccelli in ischiera si leva- 
rono in aria con maravigliosi canti, e poi secondo la croce ch'avea fatta loro santo 
Francesco si divisono in quattro parti; e l'una parte volò inverso l'oriente, l’altra 
inverso l'occidente, la terza inverso il meriggio, e la quarta inverso l’aquilone, e 
ciascheduna schiera andava cantando maravigliosamente; in questo significando 
che, come da santo Francesco gonfaloniere della Croce di Cristo era stato a loro 
predicato e sopra loro fatto il segno della croce, secondo il quale eglino si divi- 
devano cantando in quattro parti del mondo; così la predicazione della Croce 
di Cristo rinnovata per santo Francesco si dovea per lui e per i suoi frati portare 
per tutto il mondo; i quali frati, a modo che uccelli, non possedendo niuna cosa 
propria in questo mondo, alla sola provvidenza di Dio commettono la loro vita. 


Più stringato, ma non meno bello e pittoresco, è il racconto di un episodio in 
cui Francesco si prodigò per alcune tortore, anch'esso tramandato dai Fioretti”: 


Uno giovane avea prese un dì di molte tortore, e portavale a vendere. Incon- 
trandosi in lui santo Francesco, il quale sempre avea singulare pietà agli animali 
mansucti, riguardando quelle tortore coll’occhio pietoso, disse al giovane: «O buo- 
no giovane, io ti priego che tu me le dia, e che uccelli così innocenti a’ quali nella 
Scrittura sono assomigliate le anime caste, umili e fedeli, non vengano alle mani 
de’ crudeli che le uccidano». Di subito colui, ispirato da Dio, tutte le diede a santo 
Francesco; ed egli, ricevendole in grembo, cominciò a parlare loro dolcemente: «O 
sirocchie mie tortore, semplici, innocenti e caste, perché vi lasciate voi pigliare? Or 
ecco io vi voglio scampare dalla morte e farvi i nidi, acciò che voi facciate frutto e 
moltiplichiate secondo il comandamento del vostro Creatore [Gen., I 22]». 

E va santo Francesco e a tutte fece nido. Ed elleno, usandoli, cominciarono 
a fare uova e figliare innanzi a’ frati, e così dimesticamente si stavano e usavano 
con santo Francesco e con gli altri frati, come se elle fosseno state galline sempre 
nutricate da loro. E mai non si partirono, insino a tanto che santo Francesco colla 
sua benedizione diede loro licenza di partirsi. 


5 I fioretti, cap. XXII: ed. Bughetti, pp. 91-92; ed. Vicinelli, pp. 325-326. 


131 


Michele Feo 


E al giovane, che le avea date, disse santo Francesco: «Figliuolo, tu sarai ancora 
frate in questo Ordine e servirai graziosamente a Gesù Cristo». E così fu, imperò 
che il detto giovane si fece frate e vivette nell'Ordine con grande santità. 


Ma per l’allodola, come abbiamo visto e come ancora potremo vedere, Fran- 
cesco mostra un'attenzione particolare. C'è in questi racconti quasi sempre un 
tocco di levità scherzosa o ironica, che non disturba la intrinseca sacralità delle 
situazioni. Sembra a tutta prima una scena facile e ingenua. Ma molte sono e 
diversificate le interpretazioni. Ne esaminerò alcune, cominciando dallo scettico 
che, dopo secoli di fede ingenua o eterodiretta, richiama la ragione laica ai suoi 
doveri. Trascuro qui di necessità, rinviandolo ad altra occasione, il problema della 
concezione francescana della Natura, che comporta anche una analisi del Cantico 
di frate Sole o delle creature. 


Francesco stregone? 

Letterarietà delle leggende. A mia conoscenza il primo degli scettici moderni, 
che tuttavia dallo scetticismo non fu sottratto all'amore per Francesco, fu Nino 
Tamassia, professore di storia del diritto e del diritto aa nell'università 
di Padova. Il suo libro S. Francesco d'Assisi e la sua leggenda uscì nel 1906", privo, 
a dire dell’autore stesso, della leggiadria di un Sabatier e appesantito di rude ma- 
teria erudita. A torto dimenticato, la sua ricerca, anche quando eccede, si fonda 
su una acutezza di osservazione dei particolari. Tamassia sospende il sogno, il 
culto della bellezza; si fa forte della «biblica poesia» e mette l’uomo e le sue azio- 
ni sotto la lente della ragione. Egli si accorge che Tommaso da Celano, l’autore 
della prima vita di Francesco, raccolse i francescani sotto la sua protezione e tutti 
i miracoli e i prodigi riportò alla tradizione e ai metodi della agiografia, alle sue 
meravigliose leggende. Per questo la Vita del Celano «è un tu forse il 
SR dell'impostura monastica del secolo decimoterzo»!. In sostanza Tamassia 
affida la figura di Francesco alla leggenda letteraria. Anche la predica agli uccelli 
viene riportata alla metodologia agiografica. Egli chiama in causa le narrazioni 
anteriori di padri e santi che ano avuto rapporti amichevoli con vari animali, 
dagli orsi ai coccodrilli, fino a chiamarli fratelli. La leggenda della predica fatta 
a Bevagna, la prima agli uccelli, nacque da una forzatura dell’elogio di Gesù in 
Matth. VI 26: «Respicite volatilia caeli, quoniam non serunt neque metunt ne- 
que congregant in horrea: et Pater vester caelestis pascit illa». Il ragionamento di 
Tamassia fu severamente criticato venti anni dopo dal frate Michael Bihl'5, ma bi- 
sogna dire che conserva un suo fondamento di credibilità, che appartiene proprio 
al metodo storico di ricostruzione della genesi delle leggende. Nel nostro caso 
Francesco va dietro a un tratto genuinamente evangelico e Tommaso, innestando 
altre fonti della tradizione cristiana (Ambrogio, Cesario di Heisterbach, Sulpicio 
Severo) in un’ “opera musiva”, forza mirabilmente i fatti e inventa la tradizione”. 


16 N. Tamassia, S. Francesco d'Assisi e la sua leggenda, Draghi, Padova, 1906. 
Tamassia, p. 109. 
M. Bihl, De praedicatione a S. Francisco avibus facta, «Archivum Franciscanum historicum», 
XX (1927), pp. 202-206. 

1° Cfr. Tamassia, pp. 80-81; Bihl, pp. 202 (sulle fonti), 204 (sull'opera musiva). Quanto a 
quest'ultima ricordo che Roberto Cardini ne fa un cavallo di battaglia dello stile compositivo di Leon 


18 


132 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


Se il francescano Bihl avesse letto il mirabile libro di mons. Francesco Lanzoni 
sulle leggende storiche, avrebbe con grande facilità, perché i passi sono ben re- 
gistrati negli indici, potuto prendere atto che la descrizione della formazione di 
tante leggende francescane è del tutto simile alla formazione delle leggende lai- 
che. Ecco alcuni di quei passi che per la loro tensione verso la verità fanno onore 
a un sacerdote che scrisse e pubblicò le sue scomode opinioni negli «Studi e testi» 
del Vaticano prima dei Patti Lateranensi? 


Che la vita di s. Francesco d'Assisi abbia avuto molti punti di somiglianza con 
quella di Gesù è tesi storica innegabile; ma il lavorio di quasi due secoli portò 
questa somiglianza su tutti i punti della vita tanto da fare del Poverello una copia 
in tutto e per tutto conforme a Gesù. 


... l'autore dei Fioretti ha introdotto, nelle biografie di s. Francesco d'Assisi e 
de’ suoi primi compagni, clementi desunti per lo più da fonti agiografiche anti- 
che, ma li ha elaborati, plasmati e foggiati con tanto squisito gusto e con tatto così 
fino, da farne succo e sangue della vita del Poverello e de’ suoi soci. 


Parecchi racconti dei Fioretti e di altri consimili documenti francescani, certa- 
mente non corrispondono (in tutto o in parte) alla realtà dei fatti esterni, ma sono 
verissimi di verità morale e psicologica... 


La seconda delle tre citazioni corrisponde perfettamente all’idea che Tamassia 
aveva delle leggende francescane. 


La voce delle immagini. Un romanziere francofono, Daniel Meurois, ci man- 
da la sua soluzione all’interno di una interpretazione tra fantastica ed eretica 
dell'amore tra Francesco e Chiara. Il libro si intitola nella traduzione italiana 
Francesco, l'uomo che parlava agli uccelli. Il segreto di Assisi, dove la prima parte 
strizza l'occhio a film popolari su uomini e cavalli, e la seconda a polizieschi. Ma 
in realtà più rispondente al contenuto è il titolo originario Frangois des oiseaux. 
Rinunziando a discutere la tesi del libro, che è arbitraria nella ricostruzione ro- 
manzesca e romantica, ma al fondo portatrice di qualche aspro-dolce verità, dico 


Battista Alberti (Mosaici. Il «nemico» dell’Alberti, Bulzoni, Roma 1990). Sull’invenzione della tradizione 
in età moderna vd. L'invenzione della tradizione, a cura di E. J. Hobsbawm e T. Ranger, trad. it. E. Ba- 
saglia, Einaudi, Torino 1987. 

20. E. Lanzoni, Genesi svolgimento e tramonto delle leggende storiche, Tipografia poliglotta Vaticana, 
Roma 1925. Le tre citazioni che sopra sono riportate si trovano in Lanzoni, alle pp. 56, 109, 266. Di 
lui vd. il vivido e affettuoso ritratto tracciato da Augusto Campana, Francesco Lanzoni, «Diario cattoli- 
co» (Rimini), III, n° 4 (15 marzo 1929), pp. 3-4; rist. nei suoi Scritti, a cura di R. Avesani, M. Feo, E. 
Pruccoli, III, t. 1, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2014, pp. 151-154: Campana definisce Lan- 
zoni «un grande ciclone che si abbatte senza rispetto sul Paese della Tradizione»; con Lanzoni la Chiesa 
dimostra di avere dentro sé stessa le armi della critica, sicché «non teme di riconoscere ella stessa quanto 
ci sia di fittizio nella propria storia; e ha il coraggio di adoprare ella stessa le forbici». 

2! Daniel Meurois, Francesco, l'uomo che parlava agli uccelli. Il segreto di Assisi, trad. it. di Daniela 
Muggia, Amrita, Torino 2008. L'opera è ignorata negli Atti del X convegno Pozzuolo Martesana 12 
ottobre 2019 che contengono i discorsi tenuti da Marco Ballarin, Paolo Bartesaghi, Milvia Bollat, Paolo 
Canali, M. Chiara: Le figure femminili nella vita di san Francesco, Edizioni Biblioteca Francescana, Mi- 
lano 2020. 


133 


Michele Feo 


che gli uccelli, soprattutto le allodole, fanno parte della scena come le dréleries 
nelle pagine miniate di manoscritti gotici; e ideologicamente sono una forma 
simbolica, che dal suo angolo gratifica, portando il suo contributo alla verità del 
mondo. Sul punto di morte questo Francesco, in parte inventato, ma che io non 
vorrei fosse gettato alle ortiche, chiama a sé Chiara e lentamente tira fuori a pezzi, 
con sofferenza, il suo mistero, che è quello di riconoscere l’unità dei corpi ma- 
schile e femminile, e ora riconosce nell'amore umano qualcosa come una prova 
dell’esistenza di Dio; ora ha capito che Dio «era una goccia di pioggia, un chicco 
di grano, la pietra di un muro, la bruma del mattino, il crepitare di una fiam- 
lb il pistillo di un fiore, la farfalla che vi si posava: era tutto questo contem- 
poraneamente; tutto ciò che il nostro sguardo poteva incontrare senza vederlo... 
soprattutto senza vederlo!»??. L'ha capito quando ha capito pericolosamente che 
Dio stava «anche nei corpi umani» e ne è disceso il Cantico delle creature, che 
fu un canto per Chiara. Ed è ora che Francesco accetta perfino che Chiara posi 
eroticamente la mano consolatoria sul ventre di un altro uomo morente accanto a 
lui. A Francesco Chiara osa sfiorare la fronte gelida con la mano e lui stesso pone 
le sue mani fra i capelli della donna. Allora, se Chiara finalmente è l'elemento 
che rivela e canta il Signore e tiene in unità il Signore e le creature, questa Chiara 
è, per logica di natura e di poesia, «il sole e la luna, l’acqua e la terra, il vento, la 
fiamma e le stelle del firmamento»?5. Quando gli vennero in mente le prime paro- 
le del Cantico Francesco era disteso sull'erba e vide «una pratolina che sollevava il 
capo verso il cielo». A queste parole finalmente l’ultimo mistero si scioglie: «Penso 
che fu per mezzo suo che udii tutto quanto: era come il ponte di cui il mio cuore 
era in attesa per riuscire a dilatarsi... Sai, Chiarina, le pratoline mi hanno fatto 
sempre pensare a te»?f, 

Gli uccelli hanno fatto parte di questo miracolo. Francesco ha saputo «parlare 
agli uccelli per immagini», ed essi gli hanno risposto allo stesso modo: forse ciò 
significa che «la semplicità che insegna al cuore è fatta più di immagini che di 
parole...»?°. Nell’istante supremo in cui Francesco tiene immobile la mano fra i 
capelli di Chiara, anche il mondo si è fermato, sono soli Francesco, Chiara e gli 
uccelli su un pezzetto di terra, fuori del tempo. Tutta la volta celeste intona il suo 
canto. Sopra il capo dei due amanti gli uccelli, le allodole, «ripresero a cinguet- 
tare, e Francesco aprì gli occhi come a cercarli, davanti a sé, nel mezzo della sua 
stessa luce»°®. Un attimo prima che si crei la leggenda con le sue forzature e falsità, 
Francesco torna ad essere un cavaliere e rivolge alla sua donna domande del rito 
matrimoniale: «Tu saresti allora la mia Dama, la mia Chiesa, colei che conduce 
a Lui; saresti Meryem, il Calice del Tempio [...]. Vuoi essere la mia Meryem?». 
[Meryem è Maria, la nostra Madonna, ma qui è una figura che unisce nella devo- 
zione cristiani e mussulmani]. Chiara scoppia a piangere. 


L'allegoria. Una raffinata studiosa di Francesco che ha usato con intelligenza 


2. Meurois, Francesco, p. 155. 
Meurois, Francesco, p. 167. 
Meurois, Francesco, p. 167. 
Meurois, Francesco, p. 160. 
Meurois, Francesco, p. 168; qui anche la cit. che segue. 


134 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


soprattutto le fonti iconografiche, Chiara Frugoni, medievista atea che qualcosa 
certamente deve al padre Arsenio, medievista cattolico, ha affrontato il proble- 
ma delle prediche agli uccelli con un metodo, diciamo così, a base allegorica”. 
La Frugoni si riconosce nell’opinione diffusa che Francesco nutrisse una predi- 
lezione per gli uccelli, fondata sui testi sacri, su una sorta di gerarchia feudale 
che avrebbe premiato quegli esseri con titoli di nobiltà, su una corrispondenza 
fra vita e costumanze dei volatili con i frati, sul loro privilegio di poter vivere 
nell'aria. Ciò premesso, la compianta studiosa aderisce al racconto di una antica 
cronica di Matteo Paris, ripresa dall'inglese Roger of Wendover?5, che trasporta 
la prima predica agli uccelli da Bevagna a Roma e presenta un Francesco irato 
contro i romani per non aver voluto ascoltare le sue prediche e per questo deciso 
a rivolgere le sue parole ad esseri non dotati di ragione, ma degli uomini più puri 
e innocenti, gli uccelli appunto. Ma proseguendo l’analisi, entra in zone non del 
tutto governate da logica e prove: gli uccelli che ascoltano devotamente il santo 
e obbediscono ai suoi ordini di partire alla fine della predica, diventano allegorie 
degli strati sociali emarginati e poveri.?? AI di là, poi, di questa debolezza della 
sua costruzione, la Frugoni non risponde, e lo fa consapevolmente, alla domanda 
se Francesco abbia realmente tenuto queste prediche. Essa vede, probabilmente 
a ragione, in questi racconti la raffigurazione del sogno che le classi sociali divise 
potessero essere ricondotte a unità e convivenza pacifica proprio dalla parola del 
santo, anche recuperando le profezie gioachimite, ma ui che non è suo 
scopo quello di anche solo discutere «se i fatti raccontati riguardo alla predica agli 
uccelli siano o no totalmente immaginari»?0, A me pare che ci sia qui una forzatu- 
ra del metodo warburgiano e panofskiano. Il ragionamento può avere un senso se 
il rapporto fra immagini e loro significato si mantiene entro i limiti del simbolo: 
ossia se è possibile vedere, anche al di là delle stesse intenzioni dell’autore, un 
riferimento più o meno esplicito e complesso a una situazione storica reale. L'al- 
legoria comporta invece un rapporto necessario e unidirezionale fra l’immagine 
e il suo significato recondito. E questo non può essere il caso delle prediche di 
Francesco, se vogliamo escludere dall’indagine l’arbitrarietà. E il tutto, abilmente 
narrato e suggestivamente argomentato, risulta alla fine una battuta di arresto 
rispetto alla via aperta con leggerezza e acutezza da Tamassia. 


27. Ch. Frugoni, Francesco e l'invenzione delle stimmate, tutto il cap. VI, pp. 233-268. 


28. Su ciò Francis D. Klingender, St. Francis and the birds of the Apocalypse, «Journal of the War- 
burg and Courtauld Institutes», XVI (1953), pp. 13-23, con 5 tavole £. t. 

% È una tesi già sostenuta, con maggiore cautela, da FE. Cardini Francesco d'Assisi, il quale (p. 27 
n. 57) era partito anche lui dal racconto di Wendover; sarà poi ripresa, in altra prospettiva, da Andrea 
Armati, Lo stregone di Assisi, Eleusi Edizioni, Perugia 2008?. Se dovessimo accogliere questa interpre- 
tazione, dovremmo di necessità, come Cardini del resto fa, ammettere che questo Francesco si pone 
consapevolmente nella direzione di «una condanna profetica alla città», laddove, anche tenuto conto 
del rapporto amichevole con la natura incontaminata e coi boschi, l'avventura francescana lungo tutte 
le biografie e lungo la tradizione iconografica scorse sul paesaggio storico i segni del fervore di vita delle 
città. 

30. Frugoni, p. 249. Anche in ciò è stata preceduta da Cardini, Francesco d'Assisi, che aveva dichia- 
rato (p. 16) senza mezzi termini che quello della «’veridicità” del rapporto tra Francesco e animali [...] 
è ovviamente uno pseudoproblema». L'analisi di Cardini rende ragione di questo suo a-priori; ma a mio 
parere è al metodo storico del tutto legittimo tentare anche la via della «veridicità». 


135 


Michele Feo 


La stregoneria. Abbiamo avuto le risposte possibili, ma fragili, di metodi scien- 
tifici applicati alle arti. Abbiamo avuto la risposta suggestiva della fantasia che 
pretende di lavare la storia. Arriva ora la risposta dissacratoria. E dice subito: 
Nossignori, tutto è una montatura per una cattiva commedia. Il falso predo- 
mina sul vero. Il san Francesco che conosciamo, dolce, parco, amabile, finisce 
per apparire stranamente mescolato con un alter che nega e umilia il poverello e 
mette a disagio i suoi affezionati seguaci. Questa quarta via interpretativa è ultra- 
razionalistica, rifiuta ogni beatificazione, ogni forma di miracolosità e si avventu- 
ra a fare di Francesco uno stregone del tutto estraneo alle linee esegetiche fin qui 
sperimentate. Ne è autore n Armati, con due libri che rovesciano la figura 
di Francesco e lo trasformano in un inedito mago o sciamano?', che riprendono 
e portano alle estreme conseguenze indagini che hanno già in passato catturato 
numerosi studiosi”. 

Francesco, secondo Armati, vide che l'imitazione dello spirito evangelico nella 
cristianità era ridotto a un mucchio di ritualità vuote che tradivano la storia vera 
di Gesù. Allora uscì dalle belle città borghesi dell’Italia tardo-gotica, si stancò 
anche di predicare un vangelo di pietà e di amore sociale a uomini sordi. Provò a 
vivere nei boschi, e quando dai boschi usciva le mamme probabilmente afferra- 
vano i loro piccoli per metterli al sicuro, più spaventate he dall’apparizione del 
lupo vorace. Non fece alcuna predica agli uccelli. Non fu esattamente un santo, 
ma più della santità ebbe la virtù trascinante del greco chàrisma. Pensò di far leva 
sui contadini, per altro spregevoli, per una rinascita del cristianesimo, e ad essi si 
presentò col viso e le panoplie del pagano, dello sciamano addetto a controllare 
e indirizzare il corretto cammino della paganità agricola lasciata in eredità dalla 
romanità schiacciata, ma non vinta. La Chiesa per parte sua cercò di cancellare 
tutto ciò che portava Francesco a sbandare fuori dell’ortodossia, con risultati 
spesso confusi. La tesi, come tutte le invenzioni che sovvertono clamorosamente 
la storia nota, ha le sue attrattive, ma più gravi sono le falle. 

Armati parte dalla constatazione inoppugnabile, perché garantita da fonti di- 
verse, che Francesco nella realtà della vita vissuta ebbe nei confronti degli uccelli e 
di altri animali tutt'altro atteggiamento che quello dell’innamorato fratello. Sono 
episodi e dichiarazioni particolarmente impressionanti. Leggiamoli. Così nella 
seconda Vita di Tommaso da Celano?*: 


3! Andrea Armati, Lo stregone di Assisi (cit. a n. 29); Le stimmate dello sciamano (cit. a n. 11). 


3 E. Delaruelle, S. Francesco d'Assisi e la pietà popolare, in: La religione popolare nel Medio Evo 
(Sec.VI-XII), a cura di R. Manselli, Bologna 1983, pp. 231-250; R. Manselli, Appunti sulla religiosità 
popolare in Francesco d'Assisi, in: Pascua Mediaevalia. Studies voor Prof. Dr. J. M. De Smet, Universitaire 
Pers Leuven, Leuven 1983, pp. 295-309; A. Bartoli Langeli, Le radici culturali della «popolarità» fran- 
cescana, in: Il francescanesimo e il teatro medievale, Società Storica della Valdelsa, Castelfiorentino 1984, 

. 41-58. 
RE 3 Sulla lotta secolare della Chiesa contro la ‘paganità e la ‘superstizione’ vd. J.-C. Schmitt, 
Medioevo «superstizioso», trad. di Maria Garin, Laterza, Roma-Bari 2005; ed. speciale per Il Giornale, 
Milano 2006. 

3 Tommaso da Celano, Viza ZI, pars II, cap. 151, $$ 199-200; ed. a pp. Collegii s. Bonaventurae, 
in «Analecta Franciscana», X, fasc. 1, p. 244; trad. it. L. Macali, p. 405. Dalla cura affettuosa che in que- 
sto passo dimostra per gli animali e dal desiderio che anche essi partecipino tutti della festa del Natale 
e mangino qualcosa in tale occasione il frate Paolazzi ricava la certezza che gli animali non sono esclusi 


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Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


Cum de non comedendis carnibus collatio fieret, quia dies Veneris erat, re- 
spondit fratri Morico dicens: «Peccas, frater, vocans quo Puer natus est nobis. 
Volo», inquit, «quod etiam parietes tali die comedant carnes, et si non possunt vel 
de foris liniantur!». Volebat hoc die pauperes et famelicos a divitibus saturari et 
annonam et foenum plus solito bobus et asinis indulgeri. 


Una volta che si faceva questione se si potesse mangiar carne il giorno di Nata- 
le venuto in venerdì, rispose a frate Morico, dicendo: «Pecchi, fratello, chiamando 
venerdì il giorno in cui ci è nato il Bambino. Voglio — soggiunse — che anche 
i muri in tale giorno mangino carne, che se non possono, ne vengano almeno 
spalmati al di fuori». Voleva che in questo giorno i poveri e gli affamati venissero 
nutriti in abbondanza e senza risparmio dai ricchi, e che ai buoi ed agli asini si 
desse pasto e fieno a volontà. 


Così nel Trattato dei miracoli dello stesso Tommaso: 


De Hispania regrediens sanctus Franciscus, cum non potuisset iuxta votum 
Marrochium proficisci, aegritudinem incurrit gravissimam. Nam egestate cum 
languore afflictus et hospitio hospitis rusticitate pulsus, per triduum loquelam 
amisit. Viribus tandem utcumque resumptis, per viam gradiens fratri Bernardo 
dixit se, si haberet, de una avicula comesturum. Et ecce, per campum quidam 
eques accurrit, avem portans peroptimam; qui beato Francisco dixit: «Serve Dei, 
suscipe diligenter quod tibi clementia divina transmittit!». Suscepit cum gaudio 
munus, et Christum sui haberi curam intelligens, ipsum per omnia benedixit. 


Tornando dalla Spagna, senza aver potuto, come era suo desiderio, raggiun- 
gere il Marocco, san Francesco si ammalò gravemente, sicché, sprovvisto di tutto, 
malato e cacciato di casa dalla villania dell’ospite, per tre giorni perdette la parola. 
Come riebbe alquanto le forze, camminando per via confidò a frate Bernardo che 
se ne avesse, avrebbe mangiato volentieri un po’ di carne di uccello. Ed ecco da 
un campo sbucare in corsa un cavaliere che gli offre un uccello di ottima carne, 
dicendo: «Servo di Dio, accetta e gradisci ciò che ti manda la divina clemenza». 
Fu ben felice del dono, e comprendendo che era Cristo a prendersi cura di lui, lo 
benedisse e ringraziò con tutto il cuore. 


Armati non s'accorge delle contraddizioni interne alla sua costruzione. Se gli 
episodi animaleschi sono momenti di un distacco dall’ortodossia e in particolare 
parlare agli uccelli è opera di magia, e quindi punibile severamente da parte della 
chiesa ufficiale, e se questi momenti sono acquisiti alla biografia di Francesco 
come festa, gioia, successo, dove sta la colpa? E se lo scopo dei biografi accreditati 
era quello di ripulire Francesco da ogni incrostazione che ledesse la sua santità, 
perché si è consentito che fossero celebrate con grande spazio le ‘magiche’ e paga- 
ne prediche agli uccelli? Ciò è evidentemente avvenuto perché per ibi e per 


dall’affratellamento universale del Cantico di frate Sole: cfr. C. Paolazzi, Lode a Dio creatore e «Cantico di 
frate Sole», «Antonianum», XCIV (2019), p. 782. 

3. Tommaso da Celano, Tractatus miraculorum, cap. V 34; ed. a pp. Collegii s. Bonaventurae, in 
«Analecta Franciscana», X, fasc. 1, Coll. S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1926, p. 285; 
trad. it. L. Macali, pp. 468 e 470. 


137 


Michele Feo 


le autorità ecclesiastiche le prediche agli uccelli non erano peccati da scomunica. 

Il mio interlocutore può obiettare Li nella vita vissuta di Francesco si registrano 
clamorosi casi di controsenso sulla questione animali. Egli ricorda correttamente 
che, dopo aver lodato gli uccellini e dopo essersi preoccupato che qualcuno pensi a 
non farli morire di inedia, lui stesso dichiara che avrebbe mangiato volentieri uno 
di essi; e in altra occasione divora con avidità un bel piatto di pesce spada. Nessuna 
obiezione. I due episodi avvengono durante una malattia del poverello, e allora bi- 
sogna tener conto della situazione contingente e dei bisogni di frate corpo, il quale 
esiste anche per Francesco e ricopre miseramente un'anima infuocata. 

Su ciò le fonti sono concordi. Ne ricordo alcune. Dalla Compilatio Assisiensis:3° 


Non verecundabatur beatus Franciscus per publica civitatum fratri infirmo 
carnes conquirere. Monebat tamen languidos patienter ferre defectus, nec consur- 
gere in scandalum si eis non esset per omnia satisfactum. 


Francesco non si vergognava, per un frate malato, di andare questuando carne 
per la città. Esortava però i malati a sopportare pazientemente i bisogni e a non 
andar in collera, qualora non venissero soddisfatti in tutto. 


In un mondo in cui la povertà imponeva agli strati più bassi della popolazione 
restrizioni alimentari gravissime e faceva apparire sul desco la carne solo in parti- 
colari e rare festività, la continenza imposta da Francesco aveva un significato che 
andava ben oltre gli obblighi religiosi e si può capire che le malattie, in molti casi 
determinate proprio da inedia, potessero costituire eccezioni costrette da neces- 
sità, da rispetto per la vita e da amore per gli altri fratelli. E tutto ciò comunque 
entro la regola del rispetto degli animali, all'insegna della pazienza e della fede 
nel soccorso del Signore. Ciò valeva naturalmente anche per altri cibi un po’ più 
delicati del pane, e valeva per Francesco stesso. C’era una volta un frate anziano 
che se la passava male. \deudolo il santo si mosse a pietà. I frati a quel tempo, 
malati o sani, «abbracciavano la povertà come fosse una ricchezza» e nelle malat- 
tie non ricorrevano a medicinali”: 


dixit ad seipsum beatus Franciscus: «Si frater iste summo mane manducaret 
de uvis maturis, credo quod prodesset illi». Et ideo surrexit quadam die sum- 
mo mane secreto et vocavit fratrem illum et duxit illum in vineam que est iuxta 
candem ecclesiam, et elegit quamdam vitem, in qua erant bone et sane uve ad 
manducandum. Et sedens cum illo fratre iuxta vitem, cepit de uvis comedere, ut 
non verecundaretur solus comedere; et manducantibus illis laudavit Dominum 
Deum frater ille... 


Francesco disse tra sé: «Questo frate, se di buon mattino mangiasse dell'uva 
matura, credo gli farebbe bene». Così un giorno, di nascosto, si alzò di buon mat- 
tino, chiamò quel frate, lo condusse nella vigna vicina a quella della chiesa, scelse 
una vite di buoni grappoli e, sedutosi con lui vicino alla vite, cominciò a mangiare 
l'uva, perché l’altro non si vergognasse di mangiarla da solo. Mentre mangiavano, 
quel frate prese a lodare il Signore Iddio... 


36 Compilatio Assisiensis, ed. Bigaroni, XLV 1-2, pp. 98-99. 
87. Compilatio Assisiensis, ed. Bigaroni, LIII 3-7, pp. 122-123. 


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Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


A Fontecolombo presso Rieti Francesco fu costretto a dimorare per la malat- 
tia che aveva agli occhi. Il medico della città andò a visitarlo e poi volle restare a 
pranzo coi frati. Ma questi non avevano cosa da offrirgli che avanzi di pane, vino 
ed erbe. Erano a dl quando qualcuno bussò alla porta”: 


Exurgens unus de fratribus ivit et aperuit ostium. Et ecce quedam mulier ap- 
portans magnum canistrum plenum de pulchro pane et piscibus, mastillis gam- 
marorum, mele et uvis quasi recentibus, que miserat ad beatum Franciscum que- 
dam domina cuiusdam castri, quod distabat ab heremitorio quasi .vii. miliaria. 
Quibus visis, fratres et medicus ille mirati sunt valde considerantes sanctitatem 
beati Francisci. 


Un frate andò ad aprire, ed ecco una donna che portava un gran canestro pie- 
no di buon pane e di pesci, pasticci di gamberi, miele ed uva quasi fresca, il tutto 
mandato a Francesco da una donna del castello, distante dall’eremo quasi sette 
miglia. A tal vista i frati ed il medico restarono grandemente ammirati, conside- 
rando la santità di Francesco. 


Se poi i gamberi e la buona uva guarissero anche gli occhi, era affare che spet- 
tava al medico presente testimoniare. Una giustificazione del banchetto lucullia- 
no era comunque trovata e Francesco poteva anche dimostrare di essere ospite 
gentile con chi gli faceva visita. 

E chiudo con un altro cedimento di frate Francesco al piacere del pesce. Di- 
morava nel palazzo del vescovo di Rieti, quando si sentì molto male. Vedendolo 
«valde infirmus», «fratres rogabant ipsum et confortabant ut conmederet. Ipse 
autem respondit eis: “Fratres mei, non habeo volumptatem conmedendi, set si 
haberem de pisce qui dicitur squalus, forsitan conmederem!». Guardate l’arte di 
sottacere il desiderio con giri retorici quasi gesuitici, e poi di scoprirsi nel deside- 
rio di un pesce prelibato, con l’ingenuità di un bambino. 


Et hiis dictis, ecce quidam apportabat canistrum, in quo erant tres magni 
squali bene parati et cuppi de gammaris, de quibus libenter comedebat sanctus 
pater, quos miserat ad ipsum frater Girardus, minister Reate. 


Appena detto questo, ecco un tale con tre bei squali in un canestro, già custo- 
diti, e piatti di gamberi di cui volentieri si cibava il padre santo, mandatigli da fr. 
Gerardo, superiore di Rieti5?. 


È questo fra tutti l'episodio apparentemente meno edificante. Pare di assistere 
agli atti di regalia diffusi in tutta la nostra Italia meridionale, in specie se il desti- 
natario ha una funzione sociale o un'aria di rilevanza pubblica; e qui Francesco, 
oltre ad essere malato, risiede nel palazzo del vescovo. 


Francesco ecologista? 
Usciamo un poco dagli schemi Ali dalla ripetizione acritica, usciamo 
dalla stretta biografia di Francesco e vediamo cosa è accaduto e cosa accade nel 


3. Compilatio Assisiensis, ed. Bigaroni, LXVII 9-11, pp. 188-189. 
% Compilatio Assisiensis, ed. Bigaroni, LXXI 3, pp. 198-199. 


139 


Michele Feo 


mondo più ampio. Vedremo che Francesco non è solo e che esiste una larga tra- 
dizione mitologica e poetica che guarda con amore e ammirazione agli uccelli. 
Potrei limitarmi a Sia alla memoria del lettore l’occhio di Leonardo che 
cerca di carpire il segreto del volo; e con spericolato salto l'Elogio di Leopardi per 
quelle creature felici che volano e cantano.‘ Ma fra gli estremi non c'è il vuoto. In 
mezzo, prima, accanto, dopo c'è tutta una affascinante storia. C'è il sogno biblico 
di ricevere in dono le ali di colomba e volare, c'è il Vangelo, c'è la novellistica po- 
polare, ci sono i fabliaux medievali, e prima c'era l’aruspicina etrusca e romana. 
C'è un poema che viene dall’Islam e porta nell’Occidente medievale il tema della 
lingua o canto degli uccelli del persiano Ad-din al-'Attar Farid (1136-1230), che 
è un inno dell'anima che va in cerca della divinità”; ma è anche l’apertura di 
un'altra sorta di metafisica o teologia poetica, quella dell’esistenza di una lingua 
preumana, comune a tutti gli esseri viventi”, ovvero la lingua delle rondini che 
più non si parla, mito che perverrà anche a Pascoli e lo indurrà a trarne ragione 
per fondare la teoria che n lingua della poesia sia lingua degli uccelli, lingua 
morta e dimenticata“. Nell’Inghilterra medievale ci sono graziosi poemetti, i cui 
protagonisti sono gli uccelli: Zhe Ow/ and the Nightingale (sec. XIII), il Parlia- 
ment of Foules di Chaucer, e il Cuckoo and Nightingale (1403). E ci sono i trattati, 
che da Alberto Magno alla Caccia degli uccelli di Vincenzo Tanara (sec. XVII)", 
séguito della Economia del cittadino in villa, ai moderni manuali di Ornitologia, 
costeggiano Federico II, senza attingerne la forza e la simbolicità. E ci sono i canti 
di grandi poeti: come Hòlderlin e Shelley e La primavera di Kleist, il Paulo Uc- 
cello del citato Pascoli, che a Francesco è direttamente debitore; e i canti di umili 
amanti che vorrebbero volare veloci alla loro bella, e quello per bambini «Augello 
e chi tha dato così felice stato», che riprende un tema evangelico, per arrivare 
all’inversione orrorifica del gioco con gli Uccelli, film del 1963 di un Hitchcock 
spiritato, confuso e soprattutto molto inferiore alla sua fama, cui seguì immedia- 
tamente una sorta di vendetta artistica attuata da Pasolini nel 1966 con Uccellacci 
e uccellini. Francesco sta nel gruppo, sta nella folla, anche se con un modo tutto 
suo, ma sta nella grande folla. 

A quanti si ostinano a considerare Francesco padre della moderna ecologia, io 
dico, ripeto, che Francesco ecologista non fu e non poteva esserlo uno che aveva 
tanto rispetto e tanto amore per la natura da non osare insegnarle come com- 
portarsi e da accettare qualunque fosse stato il suo comportamento, insomma da 
non pensare nemmeno lontanamente di comandare ai ghiacciai di contenersi o di 
sciogliersi. Mi trovo a dissentire da chi vuole trasformare Francesco in un mago 
o sciamano, fondandosi sulle sue contraddizioni, o piuttosto sulle sue pretese 


40 Giacomo Leopardi, 7utte le opere, con introd. e a cura di Walter Binni, Sansoni, Firenze 1969, 
I, pp. 152-155. 

4! Il canto degli uccelli, a cura di C. Saccone, SE, Milano, 2007. 

4 Cfr. E. Balducci, Francesco, pp. 134-135. 

4... Cfr. Alfonso Traina, // latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico, nuova ed., Le Monnier, 
Firenze 1971, p. 13, con rinvio a Canti di Castelvecchio, Addio! 

44 Vincenzo Tanara, La caccia degli uccelli, per cura di Alberto Bacchi Della Lega, Commissio- 
ne per i testi di lingua, Bologna 1886, rist. 1969. Cfr. p. 8: «La varia voce poi degli uccelli non è ella 
mirabile? Altra armoniosa e soave come quella dell’usignuolo, quella de’ merli e d’altri; ... e le allodole 
stando librate su l’ale in aria cantano»; e p. 33: «Questa allodola... canta soavemente». 


140 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


contraddizioni, una volta definita arbitrariamente la sua ideologia. Ma devo ri- 
conoscere e rendere omaggio a una intuizione di Franco Cardini, quando in una 
lucida pagina affronta la questione della magia di Francesco”: 


Figlio di quell'area dell’Italia centrale che ha il suo centro nei Monti Sibillini 
fra Norcia e Ascoli Piceno, e che anche ai nostri giorni è una delle grandi riserve 
di cultura folklorica della penisola, Francesco sembra spesso pensare e agire in una 
temperie sospesa fra religiosità popolare e magia. Nell’ordalia dinanzi al sultano 
come quando parla con gli animali, quando scrive per frate Leone assediato da 
una tentazione una chartula di benedizione che ha indubbi contatti formali con 
il «breve» — la striscia di carta su cui si scriveva una formula magica e che, portata 
addosso, preservava da malattie e pericoli — come quando pronunzia, come qui 
[scil. nella preghiera al fuoco di temperare il suo ardore], una preghiera che sembra 
un incantesimo, egli ci lascia interdetti: sta ripercorrendo quasi istintivamente le 
vie di una religiosità sincera certo ma sotto il profilo formale eclettica: quella pro- 
pria dei laici i/litterati del tempo che, senza alcuna intenzione ereticale, adattavano 
alla fede cristiana gesti e formule di essa ben più antichi, conservati attraverso le 
generazioni? Si può davvero credere che, dopo un ventennio dalla conversio, dopo 
aver frequentato papi e cardinali e aver partecipato magari ai lavori di un Concilio 
ecumenico e senza dubbio a quelli dei Capitoli dell'Ordine, e dopo aver per giunta 
conseguito il diaconato, egli potesse restare ciò nondimeno attaccato a certe forme 
di religiosità popolare e acriticamente ricorrervi? O si deve piuttosto ritenere che in 
quegli estremi momenti della sua vita riemergessero vecchie, tenere usanze familia- 
ri, parole e gesti che sembravano dimenticati? Sta comunque di fatto che, come al 
di là di qualche somiglianza formale nessuna confusione può nascere tra l’atteggia- 
mento di Francesco dinanzi alla natura e posizioni panteistiche, allo stesso modo 
nessun equivoco può sussistere riguardo a supposte componenti magiche della sua 
personalità e delle sue azioni. Sotto il profilo formale, è noto — ed è ovvio — che 
la preghiera e l'incantesimo si somigliano. Quella che tuttavia le distingue è che il 
presupposto della prima si fonda unicamente sulla volontà di Dio: il fiat voluntas 
Tua è la necessaria premessa di qualunque preghiera, almeno nel mondo delle re- 
ligioni trascendenti e rivelate. Al contrario il presupposto del rito magico è che le 
occulte connessioni fra le cose possano essere attivate e condizionate da riti adatti 
sulla base di un puro meccanismo di causa-effetto: se il mago conosce la natura e sa 
con quali parole e quali gesti ad essa si comanda, può ottenere quel che vuole me- 
diante la semplice esecuzione corretta del rito. Per questo preghiera e incantesimo, 
tanto simili sotto il profilo morfologico, sono opposti e inconciliabili sotto quello 
concettuale: almeno quando si crede in un Dio unico, Creatore e Signore della 
natura, onnipotente e assolutamente giusto e buono. In questo caso ogni ricorso 
al fiat voluntas mea della magia è illusorio nella misura in cui la natura è soggetta 
solo al Creatore, ed empio in quanto rappresenta una ribellione al volere di Dio. Se 
teniamo presente questa distinzione, ci accorgeremo che non può nascere alcuna 
ambiguità: quelle di Francesco sono sempre e soltanto preghiere. 


Il ragionamento è teologicamente perfetto, salvo l'esclusione troppo perento- 


5. Franco Cardini, Francesco d'Assisi (edizione speciale per il Giornale), Mondadori, Milano 1989 
(Biblioteca storica, 39), pp. 264-265. Ma il problema del «tessuto folklorico» che fa da sfondo al mondo 


francescano Cardini aveva già visto nell’art. più volte cit. Francesco d'Assisi e gli animali. 


141 


Michele Feo 


ria e immotivata di una tangenza con il panteismo (su ciò mi permetto di rinviare 
ad altro mio futuro intervento a proposito di Francesco e il paesaggio). Qui faccio 
solo due piccole osservazioni, una sulla magia in generale e uno sulla coerenza. È 
vero che e magica si fonda sulla possibilità che le interconnessioni fra 
le cose possano essere attivate dal rito operato dal mago, ma ancor prima è neces- 
saria la premessa che fra le cose esista una interconnessione e che nelle cose non 
ci sia lb una inerzia vegetativa determinata e immutabile dalla semplice volontà 
dell’uomo, che anzi nella natura stessa delle pietre, delle stelle, delle piante e degli 
animali ci sia un mana, una forza latente, una energia non necessariamente pigra 
e inattiva, che, come un vulcano spento per secoli può svegliarsi in tempi e in 
modi a noi inconoscibili, e pure da certi sistemi neurologici, non malati, ma rari 
entro la regola, registrabili come vengono registrati prima dell'evento da molte 
specie animali, quali cani, galline, cavalli e altre bestie domestiche. Non si offen- 
derà san Francesco se lo ll momentaneamente ad alcune specie animali. 

E veniamo al punto spinoso della coerenza. Premesso che trovo giusto mettere 
nel conto i momenti in cui Francesco sembra discostarsi dall'amore per gli anima- 
li, si deve anche riconoscere più apertamente di quanto non si faccia che France- 
sco aveva carattere e che l'imitazione di Cristo, l’umiltà, la pietas non gli impedi- 
vano arrabbiature, sfoghi e cedimenti umani di varia natura: non gli impedirono 
di rimproverare un frate fannullone e di chiamarlo frate Mosca, di maledire a 
morte una scrofa che aveva ucciso un agnellino, non gli impedirono di rivolgere 
parole scortesi a un contadino fastidioso, non gli impedirono di desiderare una 
moglie e dei figli come tanti uomini qualsiasi, non gli impedirono atteggiamenti 
altezzosi al limite della scortesia nei confronti di un papa che lo aveva invitato 
a cena alla sua mensa, non gli impedirono di aver paura della cauterizzazione e 
di invocare da frate fuoco di avere pietà del suo dolore, non gli impedirono di 
amare due donne e, davanti alla morte, di lasciare Chiara sola nella sua solitudine 
lontana e consentire che Giacoma lo consolasse con un mostacciolo e accogliesse 
le sue spoglie. La verità è che l’amore per gli animali di Francesco appartiene 
a grande e nobile filone medievale, che onda le radici nell’antico Fisiologo, 
che cerca di acquisire una conoscenza e una familiarità meno selvaggia con gli 
animali, pur restando entro i limiti di un antropocentrismo egoistico e di una 
indiscutibile superiorità dell’uomo su bestie selvatiche e domestiche. Il rovescio 
dell’antropocentrismo e lo sforzo più grande di accostamento e di fratellanza con 
gli animali da parte di Francesco è affidato alla poesia del Cantico di Frate Sole o 
delle creature. Ricordo a qualcuno che anche Francesco homo era. 

Ma c'è forse anche un altro modo di vedere il rapporto di Francesco con 
gli animali e di valutare il suo diverso comportamento nei confronti di diversi 
animali e di diverse specie. Posto che gli animali che riempiono le pagine delle 
biografie sono numerosissimi, si può ipotizzare che essi costituiscano quasi una 
società parallela a quella degli uomini e come quella umana questa sia composta 
di esseri buoni e esseri cattivi, di felici e infelici, di miti e feroci, e che dunque essi 
non meritino indiscriminatamente affetto, ma caso per caso i sentimenti acconci 
ai loro comportamenti, ferma restando la tensione verso la realizzazione di una 
famiglia unita nella gioia e nella gratitudine verso il Creatore. 

E anche possiamo far nostre alcune riflessioni di Raul Manselli. In manie- 
ra meno articolata, ma altrettanto aderente al cammino umano di Francesco, il 
Manselli sottolineava l'adesione del santo alla religiosità ‘popolare’. I contempo- 


142 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


ranei sentirono in lui rivivere Cristo proprio per l'umiltà di uno che sapeva «di 
non essere teologo, di non essere maestro, di non potere insegnare ad altri...»; 
Francesco non obbedì a direttive definite, e si mosse in una grande autonomia, 
perché, come lui stesso spiega nel Testamento, «postquam Dominus dedit mihi de 
fratribus, nemo ostendebat mihi quid deberem facere», 

Ho detto poco fa e ripeto che Francesco homo era, e l’espressione mi viene alla 
mente dal ricordo della sorte del tribuno Cola di Rienzo e delle contraddizioni 
umane che lo portarono alla rovina.’” La contraddizione in Francesco fra amare 
gli uccelli e desiderare di mangiarne uno si spiega in parte, come ho già accen- 
nato, con l'oppressione di una malattia; ma rivela quanto egli fosse veramente la 
novella incarnazione di Cristo, se si deve stare alla teologia che fa di lui vero Dio 
e vero uomo, e se i vangeli ce lo descrivono morente ùl. croce mentre chiede al 
Padre se può passare quell’amaro calice, e per i più avveduti cristiani in quel mo- 
mento egli dismette di essere vero Dio e solamente e semplicemente si comporta 
come uomo, anzi è vero uomo. 

Vorrei concludere questa parte riportando il mio lettore alla miniatura Londi- 
nese cui ho già fatto cenno. Il cod. è il Royal 19. B. XV, sec. XV in., della British 
Library. Al £. 37v°° c'è la miniatura che ci interessa (fig. 1). Essa viene attribuita 
all'artista del Salterio della regina Maria, e illustra Apoc., XIX 17-18, in francese: 
un angelo bellissimo in piedi, a sin., con ali tutte aperte, capigliatura a riccioli 
tipicamente francese, parla agli uccelli indicandoli con l'indice della destra. Gli 
uccelli stanno appollaiati su un albero stilizzato e sono di diverse specie, ma tutti 
di una certa corposità, non passerotti; a terra altri uccelli trampolieri dal lungo 
becco e un pappagallo; in una tana rannicchiato un coniglio. Sotto la figura il 
testo dell’Apocalisse in francese, che io qui riporto al suo originale latino: 


Et vidi unum angelum stantem in sole, et clamavit voce magna, dicens omni- 
bus avibus quae volabant per medium coeli: «Venite, et congregamini ad caenam 
magnam Dei; ut manducetis carnes regum, et carnes tribunorum, et carnes for- 
tium, et carnes equorum, et sedentium in ipsis, et carnes omnium liberorum et 
servorum et pusillorum et magnorum». 


E vidi un angelo che stava dritto contro il sole, e gridò con forte voce, dicendo 
a tutti gli uccelli che volavano in mezzo al cielo: «Venite e adunatevi per la cena 
grande di Dio; per mangiare le carni dei re, e le carni dei tribuni, e le carni dei 
potenti e le carni dei cavalli, e di quelli che siedono su di loro, e le carni di tutti, 
liberi, e servi, e piccoli e grandi. 


46 Manselli, Appunti sulla religiosità, p. 31; cfr. Testam., 14 (Letteratura francescana, 1, p. 222). 

4. Anonimo Romano, Cronica, cap. XXVII; a cura di G. Porta, Adelphi, Milano 1979; rist. 1981, 
p. 196. Su origine e storia del detto vd. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, BUR, Milano 
2007!9, n' 506 e 1294. 

48 Cfr. l'intensa pagina, profondamente cristiana, di Antonio Cassese, Kafka è stato con me tutta la 
vita, postfazione di Maria Fancelli, Il Mulino, Bologna 2014, p. 131; da me ripreso in Gezhsemani, «Il 
Grandevetro», XL, n° 227 (primavera 2016), p. 33. 

4. Margaret Rickert, La miniatura inglese dal XII al XV secolo, Electa, Milano 1961, tav. 34, pp. 
9, 12, 21; Klingender, St. Francis and the birds, tav. 5b. 


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Michele Feo 


Il passo dell'Apocalisse si riallaccia a uno di Ezechiele, XXXIX 17: 


Tu ergo, fili hominis, haec dicit Dominus Deus: «Dic omni volucri et uni- 
versis avibus, cunctisque bestiis agri: “Convenite, properate, concurrite undique 
ad victimam meam, quam ego immolo vobis, victimam grandem super montes 
Israel: ut comedatis carnem, et bibatis sanguinem”». 


Tu dunque, figlio dell’uomo, questo ti dice il Signore Dio: «Dì a tutti i volatili 
e a tutti gli uccelli, e a tutte le bestie del campo: “Radunatevi, affrettatevi, correte 
da ogni le alla mia vittima, che io immolo per voi, una vittima grande sui mon- 
ti di Israele: affinché ne mangiate la carne e beviate il sangue». 


In realtà la scena apocalittica non ha nel codice Londinese la sua unica ma- 
nifestazione figurale, come in un primo momento ho creduto. Klingender?° l’ha 
sapientemente raccordata a tutto un filone artistico inglese. Ma la sua ricostru- 
zione va in direzione opposta a quello che intravedo io. Klingender attribuisce 
a quelle immagini apocalittiche la simbologia storica del i tra papato e 
impero per la supremazia del potere terreno, la rovina dell'impero e di Roma, il 
sogno e nello stesso tempo la fine dell’ideale cavalleresco, il desiderio di un nuovo 
patto di amore in parte fondato anche sul gioachimismo; ma tutto ciò, attinto a 
una interpretazione forzata della predicazione agli uccelli e fuso artificiosamente 
con una predica ‘politicizzata’ di Francesco, suona molto bello storiograficamente 
e anche un po’ freudianamente, ma è un immenso grattacielo arbitrario. A me 
pare che la tradizione francescana italica abbia attinto per qualche via a quella 
inglese. E anche questo episodio confermerebbe la teoria di Tamassia sulla genesi 
delle leggende, che per nascere devono ancorarsi a storie e fatti già narrati e su 
di essi costruire fino alla falsificazione e all'invenzione. Sono dunque decisamen- 
te orientato a credere che Francesco e il francescanesimo avessero anche questi 
passi biblici dietro di sé, nella loro formazione spirituale. Richiamo però anche 
con tutta forza l’attenzione su un aspetto della vicenda che è l’inversione del 
tema fatto proprio, e questo è aspetto non raro del rapporto nel meccanismo 
culturale della ricezione e risemantizzazione. Assumendo lo schema iconografico 
dell'angelo apocalittico, il francescanesimo gli ha tolto la componente guerresca, 
lo ha depurato proprio di tutti gli aspetti apocalittici, macabri e disgustosi della 
violenza biblica e di quella terrena della contemporaneità, e, coerentemente con 
il suo pacifismo, ha trasformato il discorso in battaglia di pace, di amore, di fra- 
tellanza universale, di bellezza per il presente. La Frugoni i fatto propria quella 
costruzione, di Klingender, perché anche qui, con forzatura, il percorso esegetico 
della predica agli uccelli si collega immediatamente nel tempo con l'invenzione 
delle stimmate, e purtroppo è sempre facile cadere nell’errore dell’adagio “post 
hoc, propter hoc”. 

Per il credente la predica agli uccelli è destinata a restare uno dei segni della 
«misteriosa capacità» di Francesco «di entrare in dialogo con tutte le creature», 
in «una specie di democrazia cosmica in cui, in deroga all’antropocentrismo al- 
lora come oggi imperante, il dominio dell’uomo sugli animali è sostituito da 


50 


Klingender, St. Francis and the birds, tav. 5b, ma priva della fonte biblica. 
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Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


una mutua obbedienza». Per tutti è possibile, certamente, e scientificamente 
legittimo cercare le vie più segrete e meno ‘francescane’ di spiegazione di questi 
comportamenti di Francesco, e magari giungere a conclusioni sorprendenti; ma 
a chi scrive pare di evidenza immediata che la spiegazione più ovvia del rapporto 
di Francesco con gli animali e in specifico con gli uccelli, sia quella che fa perno 
su un rapporto e un messaggio di amore. 


«Se un giorno parlerò all’imperatore...» 
Raccontano concordi lo Speculum perfectionis” e la Compilatio Assisiensis: 


Nos qui fuimus cum beato Francisco et scripsimus haec, testimonium perhi- 
bemus quod multoties audivimus eum dicentem: «Si locutus fuero imperatori, 
supplicando et suadendo dicam sibi ut amore Dei et mei faciat legem specialem 
quod nullus homo capiat vel occidat sorores alaudas nec faciat ipsis quidquam 
mali. Similiter quod omnes potestates civitatum et domini castrorum et villarum 
teneantur omni anno in die Nativitatis Domini compellere homines ad proicien- 
dum de frumento et aliis granis per vias extra civitates et castra, ut habeant ad co- 
medendum maxime sorores alaudae et etiam aliae aves in tantae sollemnitatis die. 

[...] volebat quod tali die omnis christianus in Domino exultaret atque, pro 
eius amore, qui semetipsum nobis donavit, omnes non solum pauperibus, sed 
etiam animalibus et avibus largiter providerent. 


Noi che vivemmo col beato Francesco e che abbiamo scritto queste memorie, 
possiamo testimoniare di averlo sentito dire più volte: «Se un giorno parlerò all’im- 
peratore, supplicandolo e persuadendolo lo pregherò che, per amore di Dio e mio, 
faccia un’ordinanza scritta, che nessuno prenda le sorelle allodole o faccia loro del 
male. Vorrei pure che tutti i podestà delle città ed i signori dei castelli e villaggi siano 
obbligati ogni anno a Natale, a costringere la gente a spargere frumento ed altri 
semi lungo i sentieri fuori delle città e castelli, perché gli uccelli, ma soprattutto le 
allodole, in un giorno di così grande solennità abbiano di che mangiare». 

[...] voleva che, in quella ricorrenza, ogni cristiano si rallegrasse nel Signore, e 
per amore di colui che diede se stesso a noi, tutti provvedessero abbondantemente 
non solo ai poveri, ma anche agli animali e agli uccelli. 


53 


Conferma il primo grande biografo, Tommaso da Celano, nella Vita seconda”: 


Volebat hoc die pauperes et famelicos a divitibus saturari, et annonam et foenum 
plus solito bobus et asinis indulgeri. «Si locutus», ait, «fuero Imperatori, supplicabo 
constitutum fieri generale, ut omnes qui possunt frumenta et grana per vias proi- 
ciant, ut die tantae sollemnitatis abundent aviculae, praecipue sorores alaudae». 


Voleva che in questo giorno [Natale] i poveri e gli affamati venissero nutriti in 
abbondanza e senza risparmio dai ricchi, e che ai buoi ed agli asini si desse pasto e 


51 
52 


E. Balducci, Francesco, pp. 209 e 137. 
Speculum, XI 114; ed. Sabatier, p. 225. Riporto il testo Sabatier e rinuncio a segnalare qualche 


insignificante differenza della Compilatio; mia è la traduzione. 


53 


54 


Ed. Bigaroni, XIV 2-8, pp. 46-49. 
Tommaso da Celano, Vita II, pars II, cap. CLI, $ 200; ed. in: «Analecta Franciscana», X, fasc. 


1, Coll. S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1926, p. 244; trad. it. Macali, pp. 405-406. 


145 


Michele Feo 


fieno a volontà. «E se avrò modo di parlare con l'Imperatore — diceva — gli chiede- 
rò di fare una disposizione generale in forza della quale tutti quelli che ne hanno 
possibilità, riversino nelle vie grande quantità di frumento e di grano, perché in 
un giorno così solenne tutti gli uccellini, ma specialmente le sorelle allodole, ne 
abbiano in abbondanza». 


Ma parla sul serio Francesco o sta celiando? Se un poco lo si è frequentato, 
ogni sospetto di scherzo vola via. Francesco doveva pensare del tutto seriamente 
a un tentativo di acquisire alla sua battaglia persino l’imperatore e non doveva 
essere molto lontano dal progetto di dara di un diritto degli animali, 
non diverso da quello che propone Luigi Lombardi Vallauri o dalla legge, di 
cui abbiamo discusso col solito furore, che dovrebbe disciplinare la salvaguardia 
della biodiversità come estensione dell’art. 9 della Costituzione. Intanto diciamo 
subito che, se di un imperatore si deve far questione, questo non può essere che 
Federico II di Svevia, il sovrano morto nel 1250, quindi ben un quarto di secolo 
dopo Francesco. L'incontro sarebbe stato possibile, ma è bene essere subito chiari 
e senza illusioni: non ci fu. Questo non ci libera tuttavia da un, sia pure tenue, 
rimprovero a quei biografi antichi e moderni del santo che neppure nominano 
Federico, come pure a quelli di Federico che non nominano il santo. Al contrario 
merita tutta la lode il grande libro su Federico di Ernst Kantorowicz, dove Fran- 
cesco ha uno spazio e un rilievo storicamente significativo.’ E tuttavia nemmeno 
Kantorowicz fa menzione dell'episodio ricordato dall’Anonimo Assisiate. 

Se mancano i dati certi, al loro posto si collocano le leggende. La più nota è 
quella che vuole che i due si siano incontrati nel castello di Bari.?° Francesco vi 
si sarebbe recato per ammonire il popolo e i nobili; e in quell’occasione Federico 
avrebbe mandato a Francesco una malafemmina per tentarlo; ma il tentativo fallì 
e Federico, lasciata la corte, si intrattenne per ore ad ascoltare il santo che lo am- 
monì sulla salute dell'anima. Un'altra leggenda vuole che Federico II, su richiesta 
di frate Elia, abbia contribuito alla costruzione della basilica di Assisi, assoldando 
e inviando sul posto il famoso (e forse inesistente) architetto Jacopo. La storia, 
raccolta con sorprendente ingenuità da Ivan Gobry?” è stata severamente sottopo- 
sta a critica da Henry Thode?* e nessuno le dà più credito. Fu probabilmente un 
gesto politico di apertura verso il papa il desiderio espresso a Marburg di essere 
ricordato nelle preghiere dai francescani”. 

Francesco e Federico non si incontrarono mai, ma la storia non è solo un tessu- 


E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, Bondi, Berlin 1927-1930; Federico II imperatore, 
trad. it. di G. Pilone Colombo, Garzanti, Milano 20005. Su Kantorowicz e la sua opera federiciana vd. 
Friedrich IL, Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahbr 1994, hg. v. A. Esch u. 
N. Kamp, Niemeyer, Tiibingen 1996. 

5% L. Wadding, Annales Minorum seu trium ordinum a s. Francisco institutorum, II, ed. secunda, 
Typis Rochi Bernabò, Romae 1732, pp. 41-42, cap. 16; ma Kantorowicz, Federico II, pp. 138 e 158, la 
ritiene del tutto infondata. Cfr. anche Thode, Francesco d'Assisi, p. 492 n. 50; e E. Horst, Federico II di 
Svevia, trad. di G. Solari, Rizzoli, Milano 1981, p. 134. 

7. L Gobry, Sar Francesco, traduzione di E Piovano, presentazione di M. Scotti, Salerno Ed., 
Roma 2004, p. 330. 

98. ‘Thode, Francesco d’Assisi, p. 173. 

..H. Houben, Federico II imperatore, uomo, mito, Il Mulino, Bologna 2009, p. 49. 


146 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


to di fatti, di idee e di passioni, ad essa appartengono anche i sogni, le fantasie, le 
leggende. E nel racconto di questo intreccio è stato maestro il Kantorowicz. Con 
grande penetrazione e con autentica partecipazione passionale egli ha esposto il 
senso del rapporto profondo che unisce e divide Federico e Francesco, questi due 
giganti che si son trovati a vivere lo stesso dramma di civiltà da pu diverse. 
È quel libro degli anni Venti del secolo passato, che furono terribili per l'Europa, 
non invecchia col tempo e col progredire delle ricerche. Federico e Francesco 
appuntavano le loro armi contro gli stessi nemici, la curia romana, i suoi intrighi 
e la sua immersione nelle ricchezze e nei privilegi del mondo, il potere temporale 
dei papi, l’uso strumentale della natura, e miravano agli stessi fini quando pro- 
ponevano come ideale di vita la povertà, guardavano con ammirazione gli uccelli 
e il loro volo, e prevedevano già il trionfo del volgare sul latino®°. Ma i due non 
potevano incontrarsi sul campo, perché uno usava le armi della forza, della legge 
e della politica, l’altro quelle indifese, ma non meno potenti, dello spirito e della 
poesia. Entrambi quelle della parola. Sono pagine memorabili ii di Kanto- 
rowicz°. Così sulla povertà: 


L'«imperatore della riforma» sembrò d'improvviso strettamente apparentato a 
san Francesco: chi voleva rinnovare il tempo di Augusto, aveva necessariamente 
bisogno d’una chiesa quale era stata nell'impero antico; e quando il santo voleva la 
chiesa delle origini (e più fortemente di lui il suo ordine, che sperava di sottentrare 
nell'ufficio al da corrotto come generazione nuova), si rinnovava, per converso € 
involontariamente, il concetto che al tempo degli apostoli doveva corrispondere 
il tempo d'Augusto. 

Il santo, che aveva d’occhio solo il risanamento della chiesa, non aveva certo 
coscienza delle conseguenze; laddove Federico II percepiva il quadro generale e 
vedeva che il suo impero era ancora in grado di far proprio il massimo movimen- 
to dell’epoca, anzi che l'impero romano poteva essere tenuto in piedi soltanto in 


6 Dissente da questi accostamenti E. Pispisa, Medioevo fridericiano e altri scritti, Intilla, Messina 


1999, tendendo a collegare piuttosto gli innegabili aneliti religiosi di Federico alla tradizione gioachi- 
mita, e appoggiandosi ad analisi di H.M. Schaller, // rilievo dell’ambone della cattedrale di Bitonto: un 
documento dell'idea imperiale di Federico II «Archivio storico pugliese», XII (1960), pp. 40-60; poi 
L'ambone della cattedrale di Bitonto e l’idea imperiale di Federico II, con contributi di E. Paratore e R. M. 
Kloos, «Quaderni Bitontini», I (1970), pp. 19-39; testo tedesco: Das Reliefan der Kanzel der Kathedrale 
von Bitonto. Ein Denkmal der Kaiseridee Friedrichs II, «Archiv fur Kulturgeschichte», XLV (1963), 
pp. 295-312; rist. in: Stupor mundi. Zur Geschichte Friedrichs IL von Hohenstaufen, hg. v. G. Wolf, 
Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1982, pp. 299-324, e nella sua raccolta Stauferzeit. 
Ausgewiihlte Aufséitze, Hahn, Hannover 1993 (MGH, Schriften, 38), pp. 1-23. Ma con tutto il rispetto 
per studiosi del valore di Schaller e Pispisa, devo ribadire che per me la superba visione di Kantorowicz 
mantiene tutto il suo fascino. E sospetto che sulle scelte di Schaller e Pispisa facciano malamente aggio 
le moderne teorie del potere che rifiutano sempre più decisamente la perennità della delega e proclama- 
no al contrario la sua relatività e revocabilità. 

6 Kantorowicz, Federico II, rispettiv. pp. 625 e 325. Le condivide Horst, p. 133. Sulla religiosità 
di Federico, sui suoi buoni rapporti pratici con vari ordini mendicanti e in particolare coi francescani vd. 
anche i più recenti contributi di G. Barone, Federico II di Svevia e gli Ordini Mendicanti, Mélanges de 
l’École frangaise de Rome», Moyen Age - Temps modernes, XC (1978), pp. 607-626; D. Berg, Staufische 
Herrschafisideologie und Mendikantenspiritualitit. Studien zum Verhiltnis Kaiser Friedrichs II zu den Bet- 
telorden, Wissenschaft und Weisheit», LI (1988), pp. 26-51, 185-209; H.M. Schaller, Die Frommigkeit 
Kaiser Friedrichs IL, Deutsches Archiv fi Erforschung des Mittelalters», LI (1995), pp. 493-513. 


147 


Michele Feo 


società con un papa francescano, angelico. Qui lo Staufen anticipava la grande 
visione universale di Dante: un papa povero, simile a Pietro, accanto a un im- 
peratore possessore di tutte le ricchezze, simile ad Augusto: ambedue insediati 
direttamente da Dio. 


E sulla natura: 


Si è spesso notato come il libro sulla falconeria segni una svolta nel pensiero 
occidentale: l’inizio della scienza sperimentale in occidente. Ci si ricordi, dunque, 
anche qui, dell’antagonista di Federico II, Francesco d'Assisi, a cui si fa spesso 
risalire il nuovo senso della natura. Certo, diversi erano gli organi con cui afferrare 
questa natura: mentre lo Staufen, il primo intelletto a guardare con occhi concre- 
ti, scruta le leggi eternamente eguali della natura e della vita in tutta la gerarchia 
delle specie, Francesco d'Assisi, il primo forse a guardare con gli occhi dell'anima, 
accoglieva la natura primigenia e la vita come miracolo, e sentiva in ogni essere 
vivente lo stesso alito celeste. In Dante si avrà la congiunzione di ambedue i modi. 


Preludi di umanesimo, esercizi di retorica ed equilibri fra realtà e poesia 
nel mondo federiciano 
È su questo scenario che credo si possano capire origine e senso dell’aneddoto 
da cui siamo partiti e di altri episodi che sembrano ad esso collegati. Quando 
la voce popolare porta all’Anonimo della Compilatio il racconto di un progetto 
di Francesco di proporre a Federico un editto a protezione delle allodole, può 
risicatamente farsi eco di qualcosa di vero, ma può essere anche il punto d'arrivo 
di una diceria, di una sorta di propaganda o persino di una versione scherzosa e 
quasi parodica del francescanesimo creaturale. Io propendo a pensare a quest'ul- 
tima interpretazione. Mi induce a questa soluzione il ritorno alla memoria di 
una lettera immaginaria (fingierter o erfundener Brief direbbero i tedeschi), di 
uelle che si componevano nelle scuole come esercitazioni per apprendere l’ars 
ictaminis e di cui sono stati trovati esempi spassosi proprio nel mondo federicia- 
no. Penso alla lettera in latino degli animali del Regno di Puglia ai loro colleghi, 
scoperta e pubblicata da Wilhelm Wattenbach e da me altra volta tradotta‘. La 


6 Lalettera è tramandata dal cod. 1275 (J. 743) [ex 1043.743] della Bibliothèque Municipale di 
Reims, sec. XIII ex., f. 43rv (xii), da dove l’ha trascritta C. Rodenberg per conto di Wattenbach. Cfr. H. 
Loriquet, Manuscrits de la Bibliothèque de Reims, II 1, Plor, Paris 1904, rist. 1979 (Catalogue général des 
manuscrits des bibliothèques publiques de France, Départments, XXXIX), pp. 398-437, a p. 404; W. 
Wattenbach, Uber erfundene Briefe in Handschriften des Mittelalters, besonders Teufelsbriefe, «Sitzungsbe- 
richte der k. Preuss. Akademie der Wissenschaften zu Berlin», 1892, 1, pp. 91-123, a pp. 93-95; C. 
Rodenberg, Die Vorverhandlungen zum Frieden von San Germano 1228-1230, «Neues Archiv der Gesell- 
schaft fir altere deutsche Geschichtskunde», XIII (1893), pp. 177-205; W. Wattenbach, Beschreibung 
einer Handschrift der Stadtbibliothek zu Reims, ivi, pp. 491-526, a p. 494. La mia traduzione sta in 
M. Feo, 3 lettere facete, «L'almanacco dell’altana», 2003, pp. 151-156; era stata già utilizzata nel corso 
universitario Antichi testi carnevaleschi, Firenze 1995-1996. L'edizione di Wattenbach è stata riproposta 
da E Delle Donne, Narrativa zoologica, letteratura romanza ed epistolografia cancelleresca latina in epoca 
sveva, in: Il miglior fabbro. Studi offerti a Giovanni Polara, a cura di A. De Vivo e R. Perrelli, Hakkert, 
Amsterdam 2014 (Supplementi di Lexix, LXIX), pp. 323-338; piccoli brani riporta P. Morpurgo, L'idea 
di natura nell'Italia normannosveva, CLUEB, Bologna 1993, p. 156. Io ho potuto ricontrollare la lezio- 
ne del codice su una scansione messa gentilmente a disposizione dalla Biblioteca nella persona del sig. 


148 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


lettera nell'unico testimone noto è adespota. Ma un grande esperto del mondo 
federiciano, Hans Martin Schaller, ne ipotizzò autore Terrisio di Atina, maestro 
intelligente, sorridente, devoto agli Staufer. Di Terrisio conosciamo ancora un 
inno per Federico II, la lettera alle meretrici del Regno in difesa dei poveri stu- 
denti, quella della Pecunia, e il sottoscritto gli ha attribuito la lettera del cavallo 
perfetto, e, con circospezione, il carteggio fra il Leone da una parte e l’Asino e la 
Volpe dall'altra‘. 
Riporto qui di seguito il testo della lettera degli animali selvatici pe di Pu- 
lia in una mia nuova edizione e con la mia traduzione riveduta per la sua rarità 
biblici Divido il testo in paragrafi, e lo arricchisco di due apparati, uno del- 
le lezioni, l’altro di commento. R = cod. di Reims; Watt. = Wattenbach, DDonne 
= Delle Donne. Poiché sembra che l’autore riecheggi una lettera di Giacomo di 
Vitry del 1221 e poiché si fa allusione alla regola Falla del 1224, deduco che 
la lettera degli animali sia da collocare a dopo questa seconda data, dunque pro- 
babilmente vivo Francesco. Ho sanato il testo in sei punti: $$ 1, 3, 4, 8, 25, 30. 


'Universis animalibus eadem lege viventibus fere [bestie] de regno Apullie, 
gressus eligere tuciores. 

?Communis participii Regula nos monere vos ammonet, et a nobis ipsis addi- 
cimus, quod vestram innocenciam cupimus edocere. *Cottidiane siquidem retri- 
butionis experiencia cognita, quid de vobis futurus eventus insinuet, infallibiliter 
sillogizat. ‘Nam, cum ad hoc nostra creata sint corpora, ut fuge semper presidium 
amplectamur et timoris nos species apprehendat, de quibus canes peribent testi- 
monium veritatis, ’prout in hoc nostra mutetur condicio, cui naturalis conve- 
niencia suffragatur, argumentum ex impossibili formaretur. 

SLicet ergo sit nobis lex eadem et condicio non diversa, in hoc precipue sta- 
tus noster relevatus esse dignoscitur, quod, quamquam non perpetuo, temporali 
tamen utimur privilegio libertatis. ’Princeps enim gencium, cui terra favet, quo 
mare stupet, de cuius potencia sol et luna mirantur, de nostra et nostrorum visi- 
tatione letatus, quem nostra presencia recreat, quem noster ludus renovat, nolens 
nos esse subditos, sub cuiuslibet pedibus conculcari, ’nolens etiam, ut capta de 


Frédéric Mongin attraverso il website «Virtual Library of Medieval Manuscripts» al permalink https:// 
bvmm.irht.cnrs.fr//consult/consult.php?reproductionId=4887. 

6 Un perfetto sguardo d’insieme su tutta questa produzione letteraria offre H.M. Schaller, Scherz 
und Ernst in erfundenen Briefen des Mittelalters, in: Filschungen im Mittelalter. Internationaler Kongreft 
der Monumenta Germaniae Historica, Miinchen 16.-19. September 1986, V, Hahn, Hannover 1988 
(MGH, Schriften, 33), pp. 79-94; rist. nella sua Stauferzeit, pp. 129-144. 

6 Per l’inno vd. E Torraca, Maestro Terrisio di Atina, «Archivio storico per le province napoleta- 
ne», XXXVI (1911), pp. 231-253; Id., Aneddoti di storia letteraria napoletana, Il solco, Città di Castello 
1925, pp. 56-59; H. M. Schaller, Zum “Preisgedicht“ des Terrisius von Atina auf Kaiser Friedrich IL, in: 
Geschichtsschreibung und geistiges Leben im Mittelalter. Festschrift fiir Heinz Liwe zum 65. Geburtstag, hg. 
v. K. Hauck u. H. Mordek, Bòhlau, Kòln 1978, pp. 503-518; rist. nella sua Stauferzeit, pp. 85-101; 
per il carteggio fra le meretrici e gli studenti: Torraca, Aneddoti, pp. 53-55; e Feo, 3 lettere facete, pp. 
156-157 (trad.); per la lettera della Pecunia: Ch. H. Haskins, Latin Literature under Frederick II, «Spe- 
culum», II (1928), pp. 129-151, a pp. 142-143; rist. nel suo Studies in mediaeval culture, Clarendon 
Press, Oxford 1929, pp. 138-139, e Feo, 3 lettere facete, pp. 154-155; per il cavallo: Feo, // cavallo per- 
fetto (Una lettera faceta di età sveva), nvigilata lucernis», XV-XVI (1993-1994), pp. 99-145; qui anche 
cenni al carteggio fra Leone e Asino/Volpe. In generale sulla cultura di età federiciana E Delle Donne, 
La porta del sapere. Cultura alla corte di Federico II di Svevia, Carocci, Roma 2019. 


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Michele Feo 


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nobis preda, que ora solummodo delicata perfundit, illorum ventrem reficeret, 
quem miliarius crebro panis vix reficit famescentem, 'treugam cum rege ferarum 
iniit et securitatem nobis prestitit temporalem; !gressus nostros, de quibus motus 
predicatur et cursus, in melius dirigens, in quietis nos vertit speciem, et artem 
nostram mutans in Regulam et vertens naturalia in statutum. '’Leporis etiam fra- 
tris nostri passus agilitas in actum non proditur, 'îsororis nostre Vulpis ingenium 
nullum sue artis operatur effectum, !‘et desertum in parte deseritur feris silvestri- 
bus habitandum. !'’Cuncta nobis arrident prospera, fertilitatis gaudemus indiciis, 
super aquas refectionis est locus noster, solito more non quatimur, cursu precipiti 
non vexamur. '‘Tacet pro nobis acuta lancea, laquei non parantur insidie, canis 
insequentis austeritas nec vocem provocat nec singultum, et viri sanguinum, ut 
nostre sint cedis immunes, manus in cinere lavaverunt. '*Invitamus vos, fratres, 
ad terram vivencium, ad terram fluentem securitatis ex amne, ut cortina cortinam 
trahat, et congregationis nostre dispersio coadunetur ad invicem et societatis no- 
stre diffuse particule reducantur ad punctum, !’et tunc dicat qui viderit: «Ecce 
quam bonum et quam iocundum habitare fratres in unum». 

2°Quid enim in hac vita felicius quam libertas? °'Quid miserius quam timide 
subiectionis instancia? °°Sane si opinionis recte iudicium investigatur ad plenum, 
si facti qualitas verum prebeat intellectum, si sensualitatis nostre credulitas que 
omnem sensum exuberat, utpote tot et tantis ornata ministris, veritatem exqui- 
rat, “ad quid aliud fremuerunt gentes meditantes inania, nisi ut crescat nostre 
societatis industria? 2#O quam vane sunt cogitationes hominum, quam insipien- 
ter reducuntur ad metam! ®Numquid enim tute domestici stabunt in domibus 
et homines castra repetent, cum compago nostri corporis intacta remanserit et 
excrescat silvestrium multitudo? °°Quod si aliud excogitate fraudis nequitia in- 
caute precogitent, ut, cum ferarum copia fuerit, copiosa sibi preda paretur, pro 
preda forsan guerram invenient et pro cibo vulnera reportabunt et plagas, et sic 
frustrabitur eorum oppinio et evacuabitur iniquitas preoccupata. 

Cum igitur, quod a pluribus queritur, facilius soleat inveniri, ‘*omnes unani- 
miter properetis ad iter, et idemptitatis spiritum inducentes totis viribus armemur 
ad bellum, °ut, cum necessitatis imminebit articulus, nostram victoriosam poten- 
ciam armatam inveniant, et a sue furiositate voluntatis exclusos et a sua nequitia 
senciant se deceptos. 3°Esset namque forte possibile, ut nostre congregationis ar- 
mata milicia, de sui hostibus triumphando, obtineret triumphum. 


! bestie del. Feo | eligere Watt.: elegere R DDonne //° interp. Watt. Feo Il ? quid Feo: quid vel 
quod incert. R, quod Watt. DDonne | vobis Watt.: verbis R/futurus Watt.: facturus, ut vid., RI/ 
‘ veritatis Feo: veritati R Watt. DDonne //' visitatione R, an visione corrigendum? | letatus Watt.: 
locatus A //8 esse R: suos Watt. DDonne / conculcari Watt.: cunc- R//!° ferarum Watt.: ferrarum 
R/I'* ex amne corr. Watt.: examen R//? compago Watt.: cum- R / excrescat corr. Feo: excrescet 
R Watt. DDonne // °° ferarum Watt.: ferrarum R//°8 ad corr. Watt.: ab R//® triumphando recte 


R, triumphante Wart. DDonne. 


'A tutti gli animali che vivono sotto le stesse leggi le fiere del regno di Puglia 
augurano di trovare passi più sicuri. 

La Regola della comunità e della partecipazione ci esorta ad esortarvi, e da 
parte nostra aggiungiamo che desideriamo erudire la vostra innocenza. *L'espe- 
rienza invero fatta della quotidiana resa dei conti ci sillogizza infallibilmente che 
cosa pronostichi di voi il futuro. ‘Infatti, essendo i nostri corpi stati creati col 
destino di ricorrere sempre al presidio della fuga e di essere afferrati dallo spettro 
della paura — e di ciò offrono testimonianza di verità i cani —, pensare a come 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


sotto questo aspetto la nostra condizione, sostenuta com'è dalla convenienza della 
natura, potrebbe mutare, sarebbe un’argomentazione che parte dall’impossibile. 

‘Benché noi siamo sottoposti a stessa legge e condizione, non diversa dalla 
vostra, in questo si vede che la nostra vita è particolarmente alleviata, che godiamo 
di un privilegio di libertà, se non perpetuo, almeno temporaneo. ‘Infatti il princi- 
pe delle genti, che la terra onora, di fronte al quale il mare è stupefatto, la cui po- 
tenza ammirano il sole e la luna, allietato della visita nostra e dei nostri, 8ricreato 
dalla nostra presenza, rinfrescato dal divertimento che gli offriamo, non volendo 
che noi siamo sudditi, che siamo messi sotto i piedi da alcuno, non volendo 
anche che la preda fatta tra noi, che delizia soltanto bocche delicate, riempisse il 
ventre di gente che non riuscirebbero a sfamare migliaia di pezzi di pane, !°strinse 
una tregua col re delle fiere e ci garantì una sicurezza temporanea; dirigendo in 
meglio i nostri passi, di cui si predicano movimento e corsa; mutando altresì il 
nostro stile in Regola e, volgendo la natura in statuto, ci trasformò in una specie 
quieta. Di più: l'agilità di passo di nostro fratello Leprotto non viene portata in 
atti, l'intelligenza di nostra sorella la Volpe non realizza effetto alcuno della sua 
arte, !“e il deserto è lasciato in parte come abitazione delle fiere silvestri. 'Tutta la 
realtà ci sorride prospera, godiamo di segni di fertilità, siamo stati condotti all’ac- 
qua ristoratrice, non siamo perseguitati come solitamente avveniva, non siamo 
tormentati da fughe precipitose. !°La lancia aguzza giace a terra davanti a noi, non 
si preparano insidie di lacciuolo, la durezza del cane inseguitore non provoca stri- 
da né singhiozzi, e gli uomini sanguinari, per essere immuni delle nostre stragi, 
lavarono le loro mani nella cenere. !SVi invitiamo, o fratelli, a venire alla terra ci 
viventi, alla terra irrorata dal fiume della sicurezza, affinché una cortina tiri l’altra 
e la nostra congregazione dispersa si aduni e le particelle sparpagliate della nostra 
società si riducano a un solo punto, !°e allora dica chi ciò vedrà: «Ecco, quanto è 
buono e bello che i fratelli abitino in un sol posto». 

2°Che cosa è più felice in questa vita della libertà? ?!Che cosa è più misero 
dell’obbligo alla paurosa soggezione? ?°Naturalmente, se si esamina a pieno il giu- 
dizio della retta opinione, se la qualità della cosa offre la vera interpretazione, se la 
credulità dei nostri sensi, che travalica ogni senso, ornata com'è di tanti ministri, 
ricerca la verità, a che cos'altro mirarono ardentemente le genti che pensano 
vacuità, se non che cresca la produttività della nostra società? ?#O come sono vani 
i pensieri degli uomini, come insipientemente vanno alla meta! ‘’Forse che gli 
animali domestici non staranno al sicuro nelle case e gli uomini non andranno 
negli accampamenti militari, ove la compagine del nostro corpo resti intatta e cre- 
sca la moltitudine degli animali silvestri? ‘°Che se con nequizia di tramata frode 
incautamente altro meditano, cioè che con l'abbondanza di fiere abbiano a dispo- 
sizione abbondanza di preda, invece di preda forse troveranno guerra e invece di 
cibo riporteranno ferite e piaghe, e così sarà frustrata la loro opinione e l’iniquità 
preordinata si svuoterà. 

Poiché dunque ciò che si cerca da molti, più facilmente si trova, ’*tutti una- 
nimemente affrettatevi a mettervi in viaggio e, rivestiti dello spirito di consenso, 
armiamoci con tutte le forze alla guerra, ?9sì che, quando incomberà la gravità 
della necessità, trovino la nostra invincibile potenza armata, e provino la sconfitta 
della loro pazza volontà e lo svelamento della loro nequizia. ‘Non sarebbe infatti 
impossibile che le milizie armate della nostra congregazione riportassero il trion- 
fo, trionfando sui loro nemici. 


151 


Michele Feo 


152 


Commento: 

! fere sono gli animali selvatici, bestie quelli domestici; ma poiché autrici della 
lettera sembrano essere solo le fere, è possibile che bestie sia una lezione alternativa, 
rimasta attiva e precipitata nel testo; per la differenza semantica tra fere e bestie vd. 
il ritorno dei termini ai $$ 10, 14, 25, 26. 

7 Princeps: i. e. Fridericus imperator Il Per le alte lodi rivolte all’imp. Federico 
vd. Delle Donne, Narrativa zoologica, pp. 328-329. 

* Allude all'amore di Federico per gli animali domestici e no e al suo portare 
nei viaggi con la corte anche un serraglio di animali esotici, cammelli, elefanti, a 
non dire dei falconi (vd. l’epigrafe riminese scoperta da Augusto Campana e resa 
nota in vari seminari, su cui basti A. Roncaglia, Le corti medievali, in: Letteratura 
italiana, dir. A. Asor Rosa, I. Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, p. 
141); non mi convince la congettura sos da esse del cod.: in primo luogo perché 
è paleograficamente improbabile; in secondo luogo perché la lez. tràdita dà senso: 
Federico non accetta che alcuni del suo entourage (sos), siano uomini che anima- 
li, perdano la libertà e diventino sudditi di qualcuno. 

!° Il re delle fiere è il Leone, protagonista del carteggio di cui ai $$ 12-14. Con 
molta cautela Delle Donne, Narrativa zoologica, p. 330, ipotizza che il re sia papa 
Gregorio IX e che la tregua sia la pace di Ceprano nel 1230 tra Federico e il papa. 

!! Regula: allude alla Regola dei francescani, approvata dal papa Onorio III 
nel 1224 e nota come Regola bullata; mentre definisce la prima originaria più che 
regola un'ars. 

12-14 Tre allusioni al carteggio fra il Leone da una parte e la Lepre e l’Asino 
dall’altra: la velocità del Leprotto, l’astuzia della Volpe, e il luogo di emissione 
della lettera del Leone, che nel codice di Cortona suona: «Data secus desertum 
Babilonis in obsidione silvarum, in quibus quedam fere pessime morabantur»; 
cfr. anche la datazione nella lettera degli uccelli alla Quaresima che qui segue di 
qualche pagina. Ma l’uomo di Federico nega che la sua corte stia in un deserto e 
che vi abitino bestie pessime. E notevole che il Leprotto sia chiamato frater e la 
Volpe soror, ambedue con termini francescani; cfr. ancora i $$ 18 e 19. 

1° Dicendo che la velocità del Leprotto non vien portata in atti vuol forse dire 
che il Leprotto non ha bisogno di fuggire i pericoli e quindi la sua fuga non viene 
acquisita in un eventuale processo contro gli assalitori degli animali. 

!5 Per Delle Donne, p. 330, la Volpe potrebbe essere Federico II, ma Federico 
è già presente come il princeps ($ 7). 

15 aquas refectionis: Psalm., XXI 2. 

!6 Federico ha realizzato la profezia biblica di trasformare il ferro della lancia in 
vomere: Isai., II 4; Mich., IV 3. 

!” viri sanguinum: II Reg., XVI 7-8; Psalm., V 6; XXV 9; LIV 23, etc. // in 
cinere lavaverunt: i seniori della città vicina al ritrovamento di un uomo ucciso, 
per allontanare da sé l'accusa di essere gli autori dell'omicidio, uccidevano una 
vitella vergine e lavavano le loro mani nel suo sangue (Deuter., XXI 1-9); qui per 
ricomporre senso e cursus occorrerebbe sostituire în cinere con in cruore vitule o 
in sanguine vitule; ma non oso correggere, perché l’autore forse intende dire che 
gli uomini sanguinari di Puglia hanno lavato le loro mani nella materia sbagliata, 
dimostrando così di essere davvero delinquenti. 

!8 terra vivencium: cfr. Ezech., XXXII 24-32, dove la terra dei viventi è la terra 
d'Egitto, nella quale Dio minaccia di spargere il terrore di trasformarla in terra 
dei morti; qui ha un valore antifrastico / cortina cortinam: questa espressione a ca- 
rattere proverbiale, che vorrebbe dire ‘una cosa tira l’altra’ si incontra più volte in 
autori medievali, come Tommaso d'Aquino, Summa theol., in opuscoli attribuiti a 
san Francesco, come risalente a Mosè di Exod., XXVI 3, fino a Savonarola, Predi- 


Francesco d’Assisi, le allodole e Federico II 


che ai fiorentini, III 2, ed. 1930, p. 555. Non si trova nell’Esodo, che registra invece 
una forma vagamente simile, che potrebbe stare all’origine della strana tradizione. 
L'attestazione più antica a me nota è quella di Giacomo di Vitry, nella lettera I, per 
altro da alcuni ritenuta spuria (Lettres de Jacques de Vitry, éd. critique par R. B. C. 
Huygens, Brill, Leiden 1960; ed., trad. e comm. in La letteratura francescana, I, 
pp. 234-235, 475); qui si dice che i frati minori hanno raccolto molti successi, «ut 
qui audit dicat: Veni, et cortina cortinam trahat»; e per questo la moltitudine dei 
fedeli «erat cor unum et anima una». E precisamente l’autore federiciano invita 
gli altri animali a scendere in Puglia, in modo che la loro società si ricomponga e 
tutte le sue parti «reducantur ad punctum»($ 18). 

!9 Ecce - in unum: Psalm., CXXXII 1 «Ecce quam bonum et quam iucundum 
habitare fratres in unum». 

23 ad quid - inania: cfr. Psalm., II 1 «Quare fremuerunt gentes, et populi me- 
ditati sunt inania?». 

2 Cfr. Psalm., XCIMN 11 «Dominus scit cogitationes hominum, quoniam va- 
nae sunt». 

2 uso anomalo di numquid , “non è forse vero che?” / domestici: allude all’amo- 
re di Federico per tutti gli animali, in particolare i cavalli e forse i falconi; e vuol 
dire che la crescita della selvaggina non reca danno agli animali domestici. 

26 guerra: nota in questa lingua sostanzialmente classico-cristiana con forti 
influssi biblici un termine di origine provenzale. 

? Per il senso di articulus vd. M. Feo, Lettere dal Medioevo fantastico, in: Kon- 
tinuitit und Wandel. Lateinische Poesie von Naevius bis Baudelaire. Franco Munari 
zum 65. Geburtstag, Weidmann, Hildesheim 1986, p. 565 n. 29. 


Ricapitoliamo. Il principe delle genti è ovviamente Federico e tutta la lettera 
si muove all’interno di una cultura che si richiama da scuola a scuola. Ne fa prova 
anche l’uso del cursus, che la federiciana cancelleria tratta con arte impareggia- 
bile. Nella lettera vengono esplicitamente richiamate le due del carteggio del 
Leone da una parte e dell’Asino e della Lepre dall’altra, oggetto di studio da vari 
anni da parte del sottoscritto in tutta la loro variegata tradizione e nel frattempo 
uscite in edizioni utili, ma perfettibili.9° L'ipotesi che ora mi pare più credibile è 
che gli animali di Puglia rispondano proprio al carteggio del Leone. 

Aveva un senso la speranza di Francesco di incontrare Federico e di chiedergli 
il decreto a protezione degli uccelli? La realtà qui si mescola col mito ed è difficile 
acquisire all’archivio dei documenti un sogno. Io sono tuttavia propenso a crede- 
re che Francesco, coerentemente con la sua visione utopica del mondo, anche in 
questo caso parlasse seriamente. La questione è capire se la politica di parte im- 


6 Il cursus di gran lunga più messo in atto è il velox; seguono il tardus e il planus. Andrebbe ve- 


rificata una eventuale forma di adesione alle regole di maestro Bene, del quale Terrisio scrisse un elogio 
in morte. Del Candelabrum di Bene da Firenze abbiamo ora l'ed. critica a cura di Gian Carlo Alessio, 
Editrice Antenore, Padova 1983. 

6 Cfr. W. Muller, Reinaert in de Kanselarij, «Tijdschrift voor Nederlandsche Taal- en Letterkun- 
de», XXIX = n. s., XXI (1910), pp. 207-228 (per me tradotta generosamente da Livia Fasola); e Delle 
Donne, Narrativa zoologica, pp. 331-332. Il secondo esibisce il carteggio nella forma in cui appare nel 
cod. Fitalia (Palermo, Biblioteca della Società siciliana per la storia patria, I. B. 25), nel quale il seg- 
mento da me riferito nel commento alla lettera degli animali 12-14 non appare. Per altre edd. vd. la 


bibliografia di Delle Donne, p. 325, 


153 


Michele Feo 


periale potesse spingersi fino a questi aspetti nella collaborazione anti-papale con 
un movimento in fase fluida e in parte sfuggente. Se ci fermiamo agli anni prima 
del 1226, in cui un incontro sarebbe stato possibile, si deve riconoscere in astratto 
che molte cose fanno obiezione a una concreta intesa. Francesco ha abbandonato 
la guida del movimento, nella sfiducia di poterne dominare e contenere le spinte 
verso forme di istituzionalizzazione che ne fanno un ordine simile a tanti altri. 
E dall’altra parte Federico è, per motivi strategici, volto ad arroccarsi nei castelli 
invece che penetrare nella vita dei comuni, e, per scelte ideologiche, poco attirato 
dalla intellettualità delle università dipendenti dalla protezione della Chiesa; più 
in generale i francescani si muovono in una dimensione universalistica mentre 
l’imperatore deve dominare una moltitudine di difficili equilibri politici. 

Come ho già detto, ha sostenuto Hans Martin Schaller, con tutta la sua auto- 
rità di severo studioso di Federico II, che la lettera degli animali sia da attribuire 
con tutta probabilità a Terrisio di Atina, un maestro dell'ambiente federiciano, 
che anche in altre occasioni alle lodi per il suo imperatore unisce qualche accen- 
no di critica. Ma questo a me pareva e pare ancora un equilibrio troppo difficile. 
Scrivevo a commento della traduzione di tre lettere nel 2003 che l’invito rivolto 
agli animali a trasferirsi nel regno di Puglia, «come in una terra promessa, dove, 
sotto, la protezione di Federico II, troveranno libertà e sicurezza» «è una trappola: 
l’imperatore garantirà certo loro incolumità contro la caccia per fame dei villani. 
Ma riserberà per sé e per la sua corte l’attività venatoria come esercizio di nobiltà 
e cavalleria. Da Castel del Monte a Gravina a Lagopesole i poderosi castelli fede- 
riciani dovevano essere soprattutto residenze di caccia. Nella Germania lontana 
il Tannhauser, un cantore della Minne, poteva sentire la nostalgia di quelle terre 
ricche di selvaggina: “Beato chi ora può cacciar col falco / nella campagna di 
Puglia!” Aggiungerei ora che c'è nel sottofondo della lettera degli animali una 
sferzata contro l’illusione francescana che Federico possa essere arruolato alla loro 
causa, e forse forse il colpo è diretto proprio contro l’idea attribuita a Francesco 
dall’Anonimo della Compilatio. Né io riesco a liberarmi della convinzione che il 
maestro che ha scritto questa eruditissima e sofisticata pagina avesse in mente il 
modello italiano di età umanistica, probabilmente milanese, che all'origine tra- 
duce da noi il prototipo francese della stupidità ‘politica’ di colui che si rivolge al 
suo peggior nemico per chiedere soccorso contro un nemico di minore potenza. 
Ciò avveniva quando le Galline e i Capponi, per sfuggire alle stragi che a Car- 
nevale facevano di loro gli uomini, mandavano una ambasceria alla Volpe per 
chiederne l'alleanza, e questa invitava gli stolti ad abbandonare la vita accanto 
agli uomini e a trasferirsi nelle selve, dove avrebbero trovato l'amicizia appunto 
della signora Volpe. Insomma la lettera sbeffeggia l'illusione di Francesco di ot- 
tenere da Federico la protezione degli animali e taccia di ipocrisia la magnanimità 
ecologica di Federico. Per usare l’espressione dello Schaller la lettera cammina 
funambolescamente su uno strapiombo che sta fra Scherz und Ernst, fra il gioco 


67 


M. Feo, 3 lettere facete, p. 152. Il passo del Tannhauser in: Minnesinger. Codex Manesse (Pala- 
tinus Germanicus 848). Una scelta dal Grande Manoscritto di Heidelberg, a cura di P. Wapnewski, E. M. 
Vetter e M. V. Molinari, Franco Maria Ricci, Milano 1983, p. 138 (trad. M. V. Molinari). 

68M. Feo, // nemico e l'alleato, in: Manipulus florum. A Eugenio Garin, [VII], C. Cursi, Pisa 1980 
(I Libretti di Mal’aria, 317). 


154 


Francesco dAssisi, le allodole e Federico II 


irresponsabile del mettere in berlina le migliori idee e la serietà dell'opposizione 
politica; e, se è così, potrebbe provenire dal mondo curiale ecclesiastico, diffiden- 
te del naturalismo francescano e ostile al totalitarismo imperiale. 

Ad usura metterò sul banco dell’accusa altre lettere carnevalesche di età incer- 
ta, ma fuor di dubbio post-francescane. Una è la lettera degli uccelli alla Quare- 
sima, trovata in due redazioni”, l’altra una delle tante lettere di Carnevale. Co- 
mincio col riportare qui la lettera degli uccelli nella forma che mi è parsa quella 
originaria, con una traduzione italiana: 


Epistola avium ad Quadragesimam pro mortalitate ipsarum 


Omni veneratione dignissime omnique sobrietate referte venerabili Quadra- 
gesime Cappones, Galine, Anseres, Anates ac omnium animalium silvestrium 
corus salutem in ieiunio et moram diuturnam in terris et ad dominum Yehsum 
Christum humanum genus posse convertere. 

Cogunt adversa que patimur ad unicum tue sobrietatis solamen recurrere. 
Sperabamus equidem tuum morantes adventum miserabilem mortem effugere. 
Nunc autem diebus istis tanta nostrorum strages constratum incessit, ut vere 
possimus illud poeticum dictum allegare: «Orcho dimittimur omnes» [Verg,, 
Aen., Il 398]. Quis enim tantas desolationis angustias, quis tot generum clades, 
quis tantos intollerabiles cruciatus, quis demum innumerabiles volatilium strages 
valeat sine lacrimis preterire? Hi namque effusis visceribus ferventem mittuntur 
in aquam, ibique tam diu natare coguntur, quod ossa possunt carnibus denudari. 
Tandem sacro pipere baptizati et aromatico pulvere perfusi in hominum viscera 
demerguntur. Quidam vero linguis abscissis per ora effuso cruore veruque per 
posteriora immisso ac per anteriora transacto iuxta prunas ardentes adusque qua- 
si harriditatem volvuntur. Hinc et volemi succo acriori humectati parumper sale- 
que aspersi acutiori pena torquentur, donec ventris lurchonum clauduntur erga- 
stulo. Ceterum alis collisis perfractisque ossibus tibiarum, ut molliores et etiam 
magis triti gustui videantur, in ollis et lebetibus constricti sine aqua coquuntur. 
Aliam pretereo cladem qua primo calore ferventi aqua decoquimur tandemque 
cogimur in faquat et pipere congelari. Taceo demum alias asperiores multipli 
cesque ferculorum delicias, in quibus frustatim cesi deglutimur. Advenias igitur, 
gloriosa, adsisque, beata, miserorumque cladibus invocata succurre, finemque 
nobis impone tantorum malorum, ut qui cruciatibus tam diris tradimur per 
te consequamur salutis remedium et, ab ore voracium lurchonum liberati, tibi 
incolumitatis nostre laudes et gracias referamus. 

Datum in concilio volatilium iuxta desertum fantasiarum, in coquina Fratrum 
Minorum. 


9 La lettera è stata pubblicata da me: // carnevale dell’umanista, in: Letteratura umanistica e tradi- 


zione classica. Per Alessandro Perosa, a cura di R. Cardini, E. Garin, L. Cesarini Martinelli, G. Pascucci, 
Bulzoni, Roma 1985, I, pp. 73-75; qui si ripropone con alcuni ritocchi al testo. La traduzione, già 
allestita per il corso Carnevale e letteratura, Università di Firenze, anno acc. 2010-2011, si pubblica qui 
per la prima volta. La seconda redazione, leggibile negli appunti dalle lezioni per il corso citato, è tradita 
entro un famoso zibaldone Vaticano, la Pandetta di Ramo Ramedelli. Qui, fra altre lezioni proprie, il 
copista omette il riferimento alla cucina dei Frati Minori. Sul codice vd. V. Sanzotta, Sulla «Pandetta» di 
Ramo Ramedelli («Vat. Lat.» 3134). Testi e florilegi a Mantova tra Medioevo e Umanesimo, in: Miscellanea 
Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, XIX, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2012, p. 499. 


155 


Michele Feo 


Lettera degli uccelli alla Quaresima per le loro stragi 


Alla venerabile Quaresima, degnissima di ogni venerazione e piena di ogni 
sobrietà, i Capponi, le Galline, le Oche, le Anatre e il coro di tutti gli animali 
silvestri augurano che goda salute nel digiuno e soggiorno diuturno sulla terra e 
che possa convertire al signore Gesù Cristo il genere umano. 

Le avversità che sopportiamo ci costringono a ricorrere all’unica consolazione 
della tua sobrietà. Aspettando il tuo avvento speravamo invero di fuggire una 
miserabile morte. Ora però, in questi giorni, una tale strage di noi ha riempito i 
banconi, che davvero possiamo allegare quel detto del poeta: «Tutti siamo manda- 
ti giù all’Orco». Chi infatti potrebbe senza lacrime passare accanto al dolore di tali 
devastazioni, chi al flagello di tante genti, chi a sì grandi e intollerabili tormenti, 
chi infine alle innumerevoli stragi dei volatili? Questi infatti, una volta strappate 
loro le viscere, sono immersi in acqua bollente e lì sono costretti a nuotare fin tan- 
to che le ossa si denudino delle carni. Alla fine, battezzati in sacro pepe e perfusi di 
polvere aromatica, sprofondano nelle viscere degli uomini. Alcuni, tagliate loro le 
lingue con versamento di sangue per la bocca, infilato uno spiedo nel posteriore e 
fatto passare per il davanti, vengono rivoltati sui carboni ardenti fin quasi a diven- 
tar secchi. Quindi umettati un po’ del succo agro di pera e aspersi di sale, vengono 
sottoposti ad ancor più aspra pena, finché non sono rinchiusi nella prigione del 
ventre di ghiottoni. Del resto, rotte le ali e spezzati gli ossi delle zampe, onde pa- 
rere più teneri ed anche più frolli al gusto, ristretti in pentole e caldaie, vengono 
cotti senza acqua. Trascuro un altro tipo di sventura, per cui siamo cotti in acqua 
fervente al primo bollore e quindi siamo messi a congelare sotto sale (?) e pepe. 
Taccio infine altre crudeli e molteplici delizie di pietanze, che ci vedono tagliati 
a pezzi. Vieni, dunque, o gloriosa, e assistici, o beata, soccorri i miseri nelle loro 
sciagure e poni fine a tanti mali, sì che noi, che siamo esposti a così duri tormenti, 
possiamo per tua opera conseguire il rimedio della salvezza e, liberati dalle fauci 
di voraci lurconi, levare a te lodi e grazie della nostra incolumità. 

Data nel concilio dei volatili, presso il deserto dei sogni, nella cucina dei Frati 
Minori. 


Concludo con un editto di Carnevale in persona a tutti i suoi sudditi: ha ap- 
preso che la sua nemica, la Quaresima, è in marcia bellica contro di lui e ha udito 
anche che intende invadere le sue mense”; 


Audivimus enim a relatoribus fide dignis quod fideles nostros cappones pin- 
gues intendit de mensa nostra penitus exulare, et dilectas commatres nostras co- 
turnices, anseres et gallinas et recommendatos nostros fasianos, pippiones, lepo- 
res, cuniculos, vitulos et montones et generaliter omnes domesticos et amicos, 
aereos et terrestres, omnino decrevit expellere de coquina et, quod maioris est 
periculi, replere intendit infelices ventres fabis, lentibus, ciceribus et fasiolis, que 
omnia ventositatem pariunt, humores grossos generant et inducunt egritudinem 
yliorum, nervos enervant, membra lentescunt et ingrossant acumina oclorum... 


Abbiamo appreso infatti da informatori degni di fede che essa intende bandire 
assolutamente dalla nostra mensa i nostri fedeli pingui Capponi, e che ha decreta- 
to di espellere dalla cucina le quaglie, nostre dilette commari, le oche e le galline, 


70 Feo, Il carnevale dell'umanista, p. 60; traduzione inedita per il corso Carnevale e letteratura. 


156 


Francesco dAssisi, le allodole e Federico II 


e i nostri protetti, fagiani, piccioni, lepri, conigli, vitelli e montoni e in generale 
tutti i famigli e gli amici, sia di terra che di aria, e, pericolo ancor maggiore, inten- 
de riempire gli infelici ventri di fave, lenticchie, ceci e fagioli, che producono tutti 
ventosità, generano umori grossi e causano malattie dei fianchi, snervano i nervi, 
allentano le membra e ispessiscono l’acutezza degli occhi... 


L’editto, tramandato dal cod. Corsiniano Rossi 241, è databile dopo il 1350 
e fa pensare che provenga da città vicina a Milano, forse Pavia. Alla fine Car- 
nevale afferma causticamente di aver posto il suo quartier generale nelle case 
dei Frati Minori e di aver firmato l’editto nelle loro cucine: «Datum in coquina 
Fratrum Minorum super ollam guardiani» (“Data nella cucina dei Frati Minori 
sulla pentola del guardiano”). E una storia che ricorda l’analoga evoluzione anti- 
francescana di un altro testo largamente diffuso, la lettera di Lucifero al clero per 
denunciare la corruzione alimentare dell’ordine”!. 

Non sfuggirà a nessuno che la lettera è spedita dalla cucina dei Frati Minori 
e che in quella stessa cucina è emesso il decreto di Carnevale. Ciò vuol dire che 

li uccelli si sono riuniti in assemblea nel luogo dove avviene la loro strage e di 
ì hanno inviato alla Quaresima la loro richiesta disperata di soccorso: alla Qua- 
resima, perché durante il regno di quella signora è interdetto l’uso delle carni. Il 
gioco è gioco e fino a un certo punto si può scherzare su tutto. Ma qui gli uc- 
celli scrivono dalla cucina dei Frati Minori, non perché quello sia per loro asilo 
di libertà e salvezza, ma perché lì sono stipati in attesa di essere ordinatamente 
sgozzati, spennati, spezzettati, arrostiti, lessati, ben conditi e divorati da capienti 
e insaziabili stomaci capaci di distruggere tutte le creature, nonché di amarle e 
lodarle. Carnevale invita alla resistenza contro la Quaresima anche lui da una 
roccaforte, che è la cucina del Frati minori. 

Insomma la vertenza è ormai indifendibile. I seguaci di uno che aveva predi- 
cato l’amore universale di tutte le creature, la povertà, la parsimonia e la gioia di 
convivere fraternamente con le creature animate, a cominciare da lupi e pesci per 
finire a tutte le specie dei volatili, sono diventati i più sanguinari nemici di quelle 
creature, quasi cannibali, se è vera la premessa che le creature, e prime fra tutte 
le creature capaci di innalzarsi al cielo e lì librarsi, sono tutte sorelle. Fu solo una 
calunnia? O ci fu davvero quella storica spaccatura nell’ordine con un degrado 
morale e con una conseguente guerra tra spirituali, settariamente ancorati alla 
professione francescana pura, e conventuali, fedeli a una vita religiosa più aperta 
allo studio e meno ascetica, restando gli uni e gli altri sempre minori? La guerra 
fu lunga e non ci furono né vincitori né vinti. La strage continua. Ed è diventata 
planetaria. 

Ma, accanto alla spaventosa maggioranza che in pratica regge le nostre vite in 
totale consonanza e connivenza, c'è una minoranza, dispersa in tutti gli angoli 
del mondo, che lavora quotidianamente nella prospettiva di proteggere gli ani- 
mali dalle trappole e dalle stragi, che strappa agli Stati sempre più ampie .- di 
libertà (divieti di caccia in periodi di fsrclivà, parchi naturali e altre isole franche, 
salvazione di specie protette), andando proprio nella direzione francescana di ot- 


©" Cfr. G. Zippel, La lettera del Diavolo al clero, «Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il 


Medioevo e Archivio Muratoriano», LXX (1958), pp. 125-179. 


157 


Michele Feo 


tenere dal potere politico leggi e decreti in difesa delle specie animali. Francesco 
non fu dunque un astratto utopista e nemmeno uno stregone o sciamano legato 
a concezioni e pratiche di superstizione pagane. Così poté apparire nel tempo 
breve. Ma nella prospettiva dei secoli il suo messaggio si è rivelato e incarnato 
sotto molti aspetti. La storia cammina lenta ed è probabilmente lontana dalla 
calata del sipario. 


«Un giubilo che sapeva di pianto» 

Aveva ragione il Francesco di Pasolini in Uccellacci e uccellini”? Avevano ascol- 
tato la sua predica, le sue parole d’amore e di fratellanza, di pace; erano state 
convinte le sorelle uccelle. Ma poi le più forti si mangiavano le più piccole e più 
deboli. Non c’era forza di preghiera, non c’era forza di magia che mutasse l’or- 
dine della natura, tranne il riconoscere che i cieli narrano la gloria del Signore e 
che il Signore va riconosciuto e lodato per le sue creature, attraverso le cose che 
esistono e che da lui sono state create, "i sole, le acque e persino la morte. 

Quando gli fu chiaro che la sua breve vita era alla fine, Francesco non rifiutò 
né la pietas crudele e inutile dei medici, né il dolore delle ferite e i morsi dei topi, 
volle riconciliarsi con la madre terra e con gli affetti terreni. Si denudò per Pulci. 
ma volta nella sua vita, si fece stendere sul nudo e duro suolo, e attese che fratello 
fuoco lo cauterizzasse facendolo soffrire il meno possibile, ma chiese anche che gli 
desse l’addio per l’ultimo viaggio una donna amata, la romana Giacoma o Jacopa 
dei Sette Troni. Il fuoco forse attenuò la sua forza o forse la carne di Francesco, già 
quasi morta, non sentì molto la sofferenza. Certo non lo guarì. Giacoma accorse, 
preparò il dolcetto al santo tanto caro, il mostacciolo, lui ne poté assaggiare un mor- 
so. Poi, mentre i frati umanamente piangevano, Giacoma lo prese sulle ginocchia, 
come avrebbe fatto Maria nella michelangiolesca Pietà vaticana. Non piangevano 
le allodole, ma presero a volteggiare nel cielo sopra la Porziuncola, e fu il loro il rito 
di un funerale sacro e magico, in naturale e uu: letizia o al contrario in perfetta 
tristezza. Meravigliosamente descrive la scena ancora Tommaso da Celano”?: 


Alaudae, aves amicae meridianae lucis et crepusculorum tenebras horrescen- 
tes, co sero quo sanctus Franciscus de mundo transivit ad Christum, cum iam 
esset noctis secuturae crepusculum, venerunt super tectum domus et diu cum 
magno rotantes strepitu, an gaudium an tristitiam suo modo cantando monstra- 
verint ignoramus. Flebilis iubilus et iubilans fletus resonabat ab cis, sive quod 
filiorum plangerent orbitatem, sive quod patrem innuerent aeternae gloriae pro- 
pinquantem. 


Le allodole, uccelli amici della luce meridiana e nemiche acerrime delle tene- 
bre, la sera che san Francesco passò dal mondo a Cristo, pur nel crepuscolo della 
notte ormai imminente, vennero sul tetto della casa, e rimasero a lungo a volarle e 


72 P. P Pasolini, Uccellacci e uccellini, film Italia 1966, con Totò e Ninetto Davoli. 

7. Tommaso da Celano, Tractatus miraculorum, IV 32; ed. a pp. Collegii s. Bonaventurae, in 
«Analecta Franciscana», X, fasc. 1, Coll. S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1926, p. 284; 
trad. it. Macali, pp. 467-468; cfr. anche Speculum perfectionis, XII 113, ed. Sabatier, p. 224; Compilatio 
Assisiensis, XIV, ed. Bigaroni, pp. 46-47; Bonaventura, Legenda maior, XIV 6, ed. pp. Collegii s. Bona- 
venturae, p. 623. 


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Francesco d'Assisi, le allodole e Federico II 


strepitarle intorno, non saprei dire se per dar segni di gaudio o di tristezza a modo 
loro. Flebile giubilo, e pianto giubilante era la loro voce, come a piangere sulla 
orfanezza dei figli, o come a significare che il padre si avvicinava alla gloria eterna. 


Eserciti pacifici di migliaia di storni si esibiscono di sera nei nostri cieli in 
volteggi perfetti come fossero una unica morbida massa cui la volontà di un regi- 
sta ordina di prender forme artistiche. Non sono seguaci di san Francesco, o noi 
non lo sappiamo. E, infastiditi dai loro naturali residui, siamo impegnatissimi a 
spingerli con esortazioni e inganni ad andare a festeggiare altrove. 

È il giorno 3 ottobre del 1226. Federico II è sempre più coinvolto in una 
guerra per la costruzione di una città dell’uomo più razionale. Ma non ha mai 
abbandonato il suo più caro di tutti i progetti, quello di studiare e capire degli 
uccelli, fuori da ogni metodologia religiosa, magica o anche solo favolistica e 
allegorica, di capire «ea que sunt, sicut sunt‘. 


7 Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus. L'arte di cacciare con gli uccelli. Edizione e 


traduzione italiana del ms. lat. 717 della Biblioteca Universitaria di Bologna collazionato con il ms. Pal. 
Lat. 1071 della Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di Anna Laura Trombetta Budriesi, Laterza, Roma- 
Bari 2009, P. I. 3; a p. 4. 


159 


Michele Feo 


Fig. 1. Cod. London, British Library, Royal 19. B. XV, sec. XV in., £. 37v: L'angelo e gli uccelli (Apoc., 
XIX 17-18). 


160 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni 


popolari dialogico-narrative raccolte a San Miniato 
negli ultimi tre decenni del XX secolo! 


ROSSANO NISTRI 


La canzone narrativa nella tradizione Toscana 

Nella tradizione popolare europea è conosciuto quasi ovunque un particolare 
tipo di canzone narrativa, ben distinta per forme e contenuti da altre tipologie di 
canto, poiché definisce, solitamente in modo piuttosto sintetico, una storia o una 
vicenda, alla quale si sottintende una morale (l’accettazione o il rifiuto da parte 
della comunità di specifici comportamenti e di modi relazionali condivisi e ben 
consolidati) senza i questa sia esplicitamente dichiarata. La denominazione di 
canto narrativo 0 canzone per questo tipo di composizioni è usata per la prima volta 
da Costantino Nigra i sua fondamentale raccolta di canti popolari data alle 
stampe nel 1888. Il filologo piemontese la adotta, come afferma, per seguire l’uso 
popolare, poiché tali “componimenti cantati, all'infuori degli strambotti e stornelli, 
(...) sono detti dal nostro popolo canzoni”?. Nigra esprime anche la convinzione, 
sufficientemente argomentata, che queste canzoni narrative siano una peculiarità 
dell’Italia “superiore” e siano “invece, straniere al centro e al mezzodì della penisola” 
dove sono “indigeni” i canti lirici, come gli strambotti e gli stornelli?. 

Vero è che le canzoni toscane appaiono spesso modellate su canti provenienti 
da altre regioni’, soprattutto dai territori padani, a loro volta non di rado derivati 
da canti d'Oltralpe, soprattutto provenzali, come testimoniano le molte versio- 
ni nordiche, pubblicate dal Nigra, ricche di particolari e di episodi secondari, 
complesse e articolate nella narrazione. E anche vero che in qualche misura i ri- 
facimenti vernacolari toscani possano essere stati inquinati dalla diffusione avuta 
tra ‘8 e ‘900 dei cosiddetti fogli volanti ceduti per pochi spiccioli dai cantastorie 
girovaghi che frequentavano 1. piazze e le fiere di paese, dalle Alpi alla Sicilia. E 


1 I canti sono stati da me registrati su magnetofono direttamente dalla voce di quattro infor- 


matrici: Luisa Brunelli — L. B. (San Miniato, 1892-1986), Bruna Brunelli - B. B. (San Miniato, 1908- 
1991), Vera Busoni - V. B. (Empoli, 1909 — Montelupo Fiorentino 2007), Marina Fontanelli — M. 
E. (San Miniato1927-2018). Tutte le informatrici hanno dichiarato di aver appreso i canti nella loro 
infanzia o comunque prima della seconda guerra mondiale. 

2 Nigra, p. XXXV. 

3. Ivie segg. 
A questo proposito Pasolini, p. 65, rileva che “qualunque sia l’origine storica dei canti popolari 
toscani — provengano dalla Sicilia o no, siano autoctoni o vi abbiano soltanto stazionato (...) — essi si 
presentano sempre come prodotti indigeni e autonomi”. La chiosa pasoliniana si riferisce specificamen- 
te ai caratteri stilistici dei canti ma, come vedremo, si applica anche ai contenuti che talvolta si svilup- 
pano in maniera icastica e autonoma da variante a variante della stessa composizione, anche in territori 
limitrofi e culturalmente omogenei, a identificare una diversa visione comunitaria. 


4 


161 


Rossano Nistri 


altrettanto vero però che nella tradizione toscana è presente un buon numero di 
canzoni narrative, sulle quali l’attenzione dei folkloristi si è posata, seppure con 
un interesse minore rispetto a quello accordato alle composizioni liriche, sin dalla 
metà del XIX secolo, con decine di varianti sia nel testo sia nella melodia?; e che 

ueste canzoni hanno strutture narrative e caratteristiche formali in tutto con- 
ormi allo spirito toscano. Il racconto è ridotto all’indispensabile, sintetico come 
non si rileva nelle versioni di altre regioni, soprattutto in quelle dell’Italia setten- 
trionale, tendenzialmente verbose e attente ai dettagli; la vicenda ha in prevalenza 
uno sviluppo dialogico, perché lo scambio rapido di battute a botta e risposta, 
evidenziando l’azione molto più del carattere dei personaggi, permette di entrare 
direttamente nel vivo della storia attraverso le parole dei dialoganti, trascurando 
antefatti e descrizioni che appesantirebbero inutilmente l’incisività del racconto. 
All’inizio del ‘900, Giovanni Giannini, seguendo il Nigra, aveva raggruppato 
questo tipo di componimenti sotto la denominazione di “canzoni narrative”; più 
recentemente, in relazione al modo di esposizione, “mista di dialogo e narrazio- 
ne, con inizio narrativo”, Alessandro Fornari propose la definizione di “canzone 
dialogico-narrativa”, che a noi sembra molto pertinente. 

Come già aveva notato il Nigra, anche nella poesia popolare “trova la sua 
legittima applicazione la doppia legge darwiniana della trasmissione ereditaria 
e dell'adattamento. Il popolo si va continuamente adattando la propria poesia. 
(...) Non è quindi a stupire se della stessa canzone noi troviamo modelli quasi 
perfetti in un luogo, e corrotti avanzi in un altro. (...) La stessa canzone, cantata 
in due luoghi ni vicini, o dalla stessa persona in epoca diversa presenta sempre 
varianti più o meno notevoli”*, non solo nel testo, aggiungiamo noi, ma spesso 
anche nella frase musicale. Proprio partendo da questa considerazione, con For- 
nari, argomentiamo che alla fin fine poco interessa da dove provenga il modello 
né tanto meno la sua perfezione (perché non si tratta di poesia, come pensava 
il Nigra). Probabilmente di modello, in quanto tale, non si può parlare, se non 
in senso cronologico rispetto alla data di raccolta o di pubblicazione; esistono 
invece, e hanno valore, le varianti, ciascuna autonoma e completa (perfetta) nella 
forma in cui è stata raccolta. Ogni variante ci permette di individuare gli elementi 
fondanti della cultura che l’ha generata e tramandata, “elementi che stanno alla 
base delle tradizioni e richiamano alcuni fondamentali contrasti che caratteriz- 
zano la vita comunitaria”. E certo che oggi l'evoluzione del costume e delle re- 
lazioni sociali ha profondamente cambiato il modo di intendere, di accettare, di 
subire o di rifiutare, i parametri culturali che costituiscono la sostanza di questi 
canti. Ci piaccia o no, questa era la cultura delle nostre famiglie, prima dell’indu- 
strializzazione: noi veniamo da lì — e non dobbiamo dimenticarlo. 


5 


Tra le raccolte più importanti, quelle del Tommaseo (1842), del Tigri (1856), del Giannini 
(1902) e del Fornari (1972 e 2002). Nelle prime tre raccolte l'interesse è rivolto principalmente ai canti 
lirici (strambotti e stornelli), mentre poco rilievo è dato ai canti narrativi, in ciò convalidando l’idea del 
Nigra che le canzoni fossero prerogativa delle regioni settentrionali. 

6 Giannini G., pp. 211 segg. 

7. Fornari 1982, p. 55. 

Ù Nigra, p. LIV. 

? Fornari 2009, p. 13. 


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SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


Desiderare qualcosa e superare l’ostacolo che impedisce di ottenerla 

In un precedente contributo al Bollettino, abbiamo già accennato allo stru- 
mento di analisi per i materiali orali di produzione popolare creato da Alessandro 
Fornari e da lui definito con l'acronimo MOSE (Motivazione, Ostacolo, Supe- 
ramento, Esito)!°, basato sull’esame della fortuna dei singoli personaggi. I nostri 
canti narrativi sono strutturati su uno schema che, non considerando le varianti 
formali, potremmo definire unico, a prescindere dalla loro lunghezza e dai loro 
contenuti. Ognuna delle storie rievocate dalle canzoni ha due o più personaggi 
i quali agiscono secondo motivazioni identificabili sempre con un istinto, una 
pulsione o un forte desiderio che trova uno o più ostacoli sulla via del proprio 
soddisfacimento. I protagonisti della vicenda devono riuscire ad aggirare gli im- 
pedimenti per arrivare a soddisfare l'impulso generatore, ma non sempre ci rie- 
scono. Sostanzialmente ogni canzone narrativa descrive il contrasto e lo scontro 
tra i bisogni primari individuali che reclamano di essere appagati e le norme 
sociali (o lui che tentano di imbrigliarli!!: una sorta di scontro tra Io e Super-Io 
portato sul piano della cultura comunitaria. 

L'idea sulla quale si regge questa indagine nasce dal convincimento che l’ap- 
plicazione dell’analisi testuale basata sulle funzioni appena descritte permetta 
di rileggere in maniera nuova e non scontata i contenuti delle undici canzoni 
dialogico-narrative, registrate con il magnetofono a San Miniato e zone limitrofe 
negli ultimi tre decenni del secolo scorso; tutte canzoni conosciute in Toscana e 
che, forse proprio per questo, nessuno in precedenza si era mai preoccupato, sul 
nostro territorio, di raccogliere e pubblicare, nella convinzione che, essendo ma- 
teriale tradizionale, fossero di pubblico dominio. Forse una volta lo erano, oggi 
non più, sebbene molte di queste canzoni ormai defunzionalizzate, siano state 
oggetto, dopo gli anni ’60 del ‘900, di edizioni discografiche, nell’ambito del co- 
siddetto folk-revival, che hanno imposto una sorta di imbalsamazione a quei testi 
e a quelle frasi musicali che prima erano invece fluttuanti ed esposte ai continui 
venti della memoria ad un’incessante rielaborazione culturale. Le nostre infor- 
matrici non hanno sicuramente conosciuto le esecuzioni discografiche e hanno 
dichiarato di aver appreso i canti per via di tradizione (cioè oralmente) nella loro 
infanzia o comunque prima della seconda guerra mondiale. Le loro versioni non 
si allontanano se non in misura minima da quelle raccolte altrove e pubblicate 
nelle sillogi a stampa più conosciute tra ’8 e ‘900. Meritano però di essere pub- 
blicate, perché in realtà crediamo che questi canti nel mondo della tradizione 
non fossero semplice fonte di svago, ma facessero parte di un implicito processo 
educativo comunitario e servissero per tramandare, affidandoli al piacere della 
musica e del canto, alcune delle norme e dei valori propri di una società chiusa e 
autoreferenziale, rinunciando alla sentenziosità del moralismo dichiarato. 

Ne risulta un quadro interessante. Innanzitutto la considerazione che gli un- 
dici canti, salvo quello di Grillo e formica (che pure è di argomento matrimonia- 
le), condividono sostanzialmente un unico tema: l’immettersi di un sentimento o 
di una passione amorosa nello svolgersi normale della vita di tutti i giorni, tale da 
generare uno o più eventi che ne modificano il corso. A questa pulsione primaria 


0 Nistri 2016, p. 468. 
!!v. Fornari 2009, pp. 13 segg. 


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Rossano Nistri 


possono affiancarsene altre (l'avidità, come nella canzone del Pellegrino; il deside- 
rio di ascesa sociale, come in Nella città di Mantova; o il contrasto generazionale, 
come in Caterin Caterinetta ecc.), ma la passione amorosa resta sempre il motivo 
prevalente. A ben guardare, non si tratta di composizioni genericamente amoro- 
se, come potrebbero essere gli stornelli o gli strambotti. Il tema comune, sebbene 
sotto le velature proprie delli cultura (alice è dato dal rapporto tra i sessi, 
dalla presenza del sesso nelle relazioni umane. 

Per rendere più accettabile questa presenza fantasmatica, ad alcune canzoni si 
è tentato, da parte degli studiosi di Storia più che di cultura popolare, di trovare 
agganci o riferimenti con le vicende di personaggi realmente esistiti o di eventi 
noti. Se pure così fosse, ma il fatto a nostro avviso è irrilevante, una volta entrata 
nel flusso dell’elaborazione popolare, la vicenda perde ogni riferimento al reale e 
diviene in un certo senso paradigmatica. Il vero contenuto dei canti non è mai 
riferibile a una persona precisa, a un Io individuale riconoscibile, ma pertiene 
sempre a un lo collettivo, alla comunità, alle sue norme e ai suoi valori, sia che 
essi vengano affermati, in quanto positivi, dall’esito della vicenda, sia che risul- 
tino negati perché non ammessi negli ambiti della comunità che ha adottato il 
canto. In tal caso non si tratta, il più delle volte, di una negazione che invita alla 
trasgressione e al rifiuto della norma, bensì di una negazione che riafferma la 
positività del valore che va apparentemente negando. “La norma viene affermata 
mediante la descrizione della trasgressione e la normalità attraverso l’eccezione”!?. 

I valori comunitari che emergono dall’esame delle nostre canzoni (il numero dei 
testi è forse troppo esiguo per permetterci di trarre conclusioni generali) appaiono 
semplici, ma molto radicati. Uno dei più rilevanti è la scarsa considerazione per il 
sesso femminile. La donna, è generalmente tenuta nel conto di un oggetto, senza 
volontà propria, che deve essere guidata dai familiari maschi — il padre o i fratelli 
nella famiglia d’origine, il marito in quella di riproduzione — e che i maschi estranei 
alla famiglia possono tentare di conquistare sollecitandone la vanità, usando sotter- 
fugi oppure soltanto sfruttando la propria superiorità maschile. 

La famiglia dovrebbe essere l’istituzione sociale che, in questa prospettiva cul- 
turale accettata da tutti, ha il dovere di proteggere l'oggetto di proprietà (la mo- 
glie, la figlia), ma non sempre ci riesce a causa di limiti soggettivi o oggettivi. Le 
norme tra loro complementari su cui si basa la famiglia tradizionale sono la fedel- 
tà coniugale e il rispetto della donna altrui. Il fatto che il sentimento amoroso e la 
pulsione sessuale si manifestino al di fuori di questo ambito, in una società che li 
stigmatizza, non fa che confermare che una volta istituita la norma è sempre pos- 
sibile trasgredirla con i rischi che ciò comporta. Non solo, ma si può dare il caso 
in cui la trasgressione, come sembra a proposito della Pinotta o della “ragazza bel- 
la” di Mantova, potrebbe portare alla modifica della norma, affermandosi come 
nuovo valore. Il sesso non è visto come un male, ma come una forza che invade 
la scena ed entra in contrasto con le altre forze (norme e regole comunitarie). La 
trasgressione è prevista e accettata dalla comunità purché non sia palese e venga 
espressa con un linguaggio indiretto o simulato, cui deve adattarsi chi viene da 
fuori se vuole raggiungere il proprio scopo. 

Chi non esercita l’azione di protezione sui componenti femminili della fa- 


1° Fornari 1982, p. 126. 


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SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


miglia non è degno di rispetto, perché diviene in un certo senso complice di 
chi non osserva le norme pur di raggiungere il proprio scopo. Tanto più se chi 
trasgredisce - la donna non opportunamente protetta che opera all’interno del 
proprio ambiente - si fa scoprire a dare confidenza a un forestiero 0, peggio, ad 
amoreggiare con lui. Non dà scandalo che una ragazza o una donna cerchino la 
propria soddisfazione sessuale (è parte della natura umana), quanto farsi vedere 
dagli altri ed essere chiacchierate. La chiacchiera coinvolge sempre la donna e non 
tocca minimamente il maschio. Ne deriva che alla comunità è affidato il compito 
di giudicare il comportamento, soprattutto se negativo, delle donne del gruppo. 

Dall'esame delle norme comunitarie di queste undici canzoni si può ricavare 
la conclusione che all’interno del microcosmo che le ha adottate e tramandate 
esse avevano lo scopo di indicare quanto fosse fragile il comportamento femmini- 
le (“la donna è mobile / qual piume al vento...”); quanto le donne, nubili o ma- 
ritate, fossero soggette al desiderio maschile cui era difficile sottrarsi; e che, nella 
maggior parte dei casi, era la donna a dover pagare lo scotto della trasgressione. 
Difetti come vedremo, l'esito della vicenda è quasi in ogni caso favorevole al 
personaggio maschile. È trascorso un secolo e più dal momento in cui alle nostre 
informatrici furono trasmesse, attraverso le canzoni, le informazioni di base cui 
abbiamo accennato ma, guardandoci attorno, si ha spesso l'impressione che non 
si siano fatti troppi progressi. 


1. NELLA CITTÀ DI MANTOVA (informatrice B. B.) 


Nella città di Mantova 
cè una ragazza bella. 
Il re che l’ha saputo 

e vòle anda’ a vedella. 


E si vestì da povero 

e via se ne andò. 

Quando fu a mezza strada 
‘lemosina chiedeva. 


“Mamma mia cara mamma 
uardalo quel villano 

z chiesto l’elemosina 

ha stretto la mia mano”. 


“Figlia di quindici anni 
è un povero pellegrin 
che chiede la carità 
lascialo pure anda’ ” 

Ma giunto a mezza strada 
tutti i soldati in pie’: 

“Evviva la regina 

Sposa del nostro re!” (Fig. 1). 


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Rossano Nistri 


Si tratta di una canzone narrativo-dialogica usata, fino agli anni dell’ultima 
guerra, anche dai bambini nei loro giochi, per dare sostanza intellegibile a una 
sorta di pantomima mirata a rafforzare attraverso la rappresentazione i concetti 
espressi dalle parole!. 

Il re di Mantova (personaggio A) si è invaghito di una bella ragazza (personag- 
gio B) e la avvicina (“ha stretto la mia mano”: motivazione di A) con l'espediente 
del camuffamento, per non svelare la propria identità e, si può presumere, per 
valutare la sincerità della ragazza, con la stessa dinamica usata nel Rigoletto di Ver- 
di dal duca di Mantova/Gualtier Maldè nei confronti di Gilda!. La ragazza, che 
pur sarebbe disposta ad accettare le profferte del re, chiede il parere della madre 
(personaggio C) che consiglia alla ragazza di non accettare (ostacolo per A e per 
B). Nella società tradizionale non c'è infatti preclusione al matrimonio di un’ado- 
lescente (“figlia di quindici anni”) ma c'è una profonda diffidenza nei confronti 
di chi appartiene a una classe sociale diversa (poco importa se più elevata o più 
bassa, come in questo caso: “’lemosina chiedeva”), tanto più se è un forestiero 
(“un povero pellegrino”), perché una ragazza per bene non può dare confidenza 
né accettare il corteggiamento di chi viene da fuori. In questo caso, però, ben- 
ché giovanissima, la ragazza non ascolta il consiglio e fa di testa sua, sebbene il 
racconto non lo dichiari (superamento dell’ostacolo da parte di B), e così riesce 
a dare lo sbocco desiderato alla vicenda, come si ricava dall'ultima strofa, in cui i 
soldatini acclamano la ragazza come “regina / sposa del nostro re!” (esito positivo 
per ambedue i personaggi). 

Il canto testimonia 2 anche in una società chiusa è possibile provare il de- 
siderio di promozione sociale, l'aspirazione a una vita migliore, e che questa può 
realizzarsi per una serie di cause concomitanti, quali potrebbero essere l’incontro 
con una persona capace di favorire questa promozione (sebbene provenga da 
fuori) e il coraggio di rifiutare la norma comunitaria che imporrebbe di non avere 
contatti con i forestieri, anche a costo di rifiutare i vincoli parentali. 


2. DONNA LOMBARDA (informatrici B. B. e M. E) 


“Donna lombarda perché non mami? 

Donna lombarda perché non mami?” 

(49 Pi #% P) *3”) 
Perché ho mari’ — perché ho mari 


“Se hai marito, fallo morire 
fallo morire, fallo mori”. 


13. v. Giannini G., pp. 64-65; Nistri 2021, pp. 28-29. Una canzone dallo stesso inizio si trova in 
Giannini A. 1891, p. 68, ma con vicenda che si avvicina a quella della Leardra del Nigra o a quella della 
nostra Violetta (v. successivo n° 10). 

14. Siè tentato da più parti di legare la vicenda della “ragazza bella” all’opera verdiana e al romanzo 
di Victor Hugo al quale Verdi si era ispirato. Le date però non lo consentono. Hugo pubblica Le roi 
samuse nel 1832; la prima di Rigoletto è del 1851; il Nigra pubblica la prima versione della sua Leandra 
(corrispondente piemontese alla “ragazza bella” toscana) nel 1854. Impossibile in un arco di tempo così 
limitato che una storia popolare ricavata da una creazione d’autore raggiunga la diffusione testimoniata 
dalle nove versioni pubblicate dal Nigra (pp. 313-322), il quale, figlio del suo tempo, si sforza di riferire 
le vicenda a storie longobarde o barbariche che coinvolgerebbero Autari, Clodoveo o addirittura Attila. 


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SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


Prend’i’sserpente che gliè nell'orto 
taglia la testa e piglia i'vvelen... 


Metti il veleno in un bicchiere 
e daglielo a be — e daglielo a be 


?p°? 


Torna immarito stanco e assetato 


Ti chiede da be’, ti chiede da be. 


(<4 . . . INCI 
Marito mio, di quale tu vòi 
d’ibbianco o dinner - d’i'bbianco o d’i’nner?”. 


“ Ss DEE] ‘x “x 
Dammi d’i’ nnero, sarà più bono 
Dammi d’iînnero — dammi d’i’ nner”- 


C'era un bambino di nove mesi: 
“Babbo ‘un lo be’, che c'è i'vvelen!” (Fig. 2). 


La canzone rievoca una vicenda conosciuta in molte regioni d’Italia, con svi- 
luppi e particolari molto spesso non coincidenti con quelli del testo qui presen- 
tato: basti pensare alle quattordici versioni piemontesi pubblicate dal Nigra assie- 
me al nutrito elenco di altre versioni provenienti dalle diverse regioni Sell'Iralia 
centro-settentrionale!. D'altronde una delle prime versioni toscane del canto, 
raccolta sulla montagna lucchese e pubblicata nel 1902, ha uno svolgimento mol- 
to più articolato di quelle raccolte in seguito e una conclusione che si avvicina a 
quella di molte versioni del Nigra!°. 

Quattro personaggi: la lombarda (A), moglie di un lavorante stagionale!, che 
sembra disposta a venir meno all’obbligo di fedeltà nei confronti del marito (mo- 
tivazione di A); un maschio (B), che dovrebbe essere il padrone, poiché si rivolge 
alla donna con l'appellativo di lombarda: è una persona appartenente a un livello 
sociale superiore, e ha mire sessuali nei suoi confronti (motivazione di B conver- 
gente con quella di A); il marito della donna (C) che deve essere tolto di mezzo 
(ostacolo per A e per B); il figlio della coppia (D) che permette alla vicenda di 
arrivare al suo esito senza la vittoria degli impulsi contrari all’uso corrente rispet- 
to alla fedeltà coniugale. Riassumendo: l'amante B, non rispettando la norma 
che vieta di desiderare la donna d’altri, vuole che la lombarda A gli si conceda e 


15 Nigra, pp. 3-18. Anche in questo caso Costantino Nigra va a rovistare nelle cronache longo- 
& q g g 


barde, per individuare analogie tra le vicende della donna lombarda e personaggi titolati della Storia. 
Non riesce a mettere insieme qualcosa di probante; ma seppure così fosse, alla eventuale realtà storica 
della signora longobarda è probabile che nel passaggio della vicenda alla cultura toscana sia seguito il 
sovrapporsi dei significati di cui alla successiva n. 17. 

6 Giannini G., pp. 217-218. 

A proposito del significato di lombardo come servitore, uomo di fatica o oprante , v. Nistri 
2013, p. 140 e n. 143. Nello stesso significato del termine, merita ricordare la zuppa lombarda, pane 
e fagioli, il cibo per i servi; e l'abito del lombardo / che para lo freddo e para lo cardo, lo stesso vestito 
d’inverno e d’estate proprio di chi è costretto a indossarne uno solo in qualsiasi stagione perché non ne 
possiede altri. 


167 


Rossano Nistri 


che perciò uccida il marito. La donna, debole e seducibile, disposta ad amare il 
padrone, sceglie di avvelenare il marito. Fin qui l'esito sembrerebbe positivo, ma 
c'è da superare un ostacolo imprevisto. Quando il marito C rientra assetato dal 
lavoro e chiede di bere, l'ostacolo è frapposto dal figlio D, che miracolosamente 
avverte il padre, usando, a soli nove mesi, un linguaggio perfettamente articolato, 
che il vino contiene del veleno e salva il genitore, sventando la tresca e il complot- 
to. L'esito della vicenda è negativo per A e B, positivo per C (e si può ipotizzare 
anche per D). 

Il canto ribadisce il concetto che all’interno della comunità vige l'istituto del 
matrimonio monogamico assoluto, da cui ai contraenti deriva il dovere della fe- 
deltà verso il coniuge; e che l'amante B, benché la sessualità maschile non tolleri 
limiti, tanto più se stimolata dall'assenza da casa del marito della consenziente 
donna-preda, non deve desiderare, né tanto meno insidiare, la donna d’altri. Ne 
deriva il postulato che, a causa dell’incostanza e della debolezza femminile, l’as- 
senza del marito da casa è un ostacolo alla coesione della famiglia e alla possibilità 
di sorvegliare il comportamento della donna, e di garantirsi così la sua fedeltà. 


3. CATERIN CATERINETTA (informatrice L. B.) 


“Caterin Caterinetta 
io vorrei dormir con te”. 


“Vien stasera all’undici ore 
quando il padre mio non c'è”, 


(13 e) «e n 
L’undici ore son sònate 
Caterina vieni a aprir”. 


“Sono scalza e in camiciola 
quand’ho fatto t'aprirò”. 


Co’ una mano aprì la porta 
e con l’altra l’abbracciò. 


Volle far troppo rumore 
che sua madre la sentì. 


“Caterin Caterinetta 
chi tu ci hai costì da te?”. 


“Ci ho il diavol che ti porti 
e ‘l mio amore che è venuto a mel” (Fig. 3). 


La protagonista di questa canzone, Caterina, ha, nella maggior parte delle 
versioni conosciute, un nome diverso: Pinotta; e Pirota è chiamata anche nelle 


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SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


due versioni pubblicate dal Nigra sotto il titolo Convegno notturno"8. È probabile 
che la versione toscana sia una derivazione di quella piemontese, perché il di- 
minutivo Pinotta per Giuseppina non è d’uso in Toscana. Lo svolgimento della 
vicenda del nostro canto, nelle sue linee di massima, è però identico sia a quello 
delle versioni piemontesi sia a quelle raccolte nella nostra regione — e non è stato 
possibile capire quando e perché sia avvenuto lo scambio di nome. Bisogna però 
tener presente che una Caterin Caterinella, raccolta nel senese, si ritrova sull’Ar- 
chivio del Pitrè nel 1898", in una versione dallo sviluppo simile, ma molto più 
ricca della nostra. 

Il personaggio A è l’innamorato che vuole avere un incontro amoroso con il 
personaggio B, Caterinetta (motivazione di A), la quale è ben disposta ad accon- 
sentire iL richiesta (motivazione di B), ma teme la sorveglianza del padre (1° 
ostacolo per A e B) e dà appuntamento all’innamorato dopo le undici di sera, 
quando il padre non sarà in casa. All’ora convenuta, l’innamorato si presenta, Ca- 
terina non è vestita; secondo le norme comuni si dovrebbe rivestire (2° ostacolo 
per B), ma il desiderio è più forte delle convenienze e, scalza e in camiciola, tira 
in camera l'amante (1° superamento da parte di A e di B di ambedue gli ostacoli, 
con un atto di trasgressione). Il convegno d’amore è però troppo rumoroso, la 
madre di Caterina (personaggio C) si sveglia e chiede alla figlia chi abbia in came- 
ra (3° ostacolo per A e B). Caterina manda al diavolo la madre e le rivela che sta 
facendo l’amore (superamento dell’ostacolo da parte dei due innamorati). L'esito 
della vicenda è positivo per A e B, negativo per C e per la tenuta delle norme 
comunitarie. 

Conclusioni: La donna, soprattutto una ragazza, è oggetto di richieste sessuali 
da parte dei maschi. I genitori devono garantirsi sorvegliandola assiduamente, 
perché le donne nubili non devono fare all'amore o, se lo fanno, non devono farsi 
scoprire per non venire chiacchierate. La ragazza che pretende di fare all'amore 
senza nascondersi genera un conflitto uti in seno al gruppo, e uno strappo 
generazionale in seno alla famiglia, che possono risolversi solo con una rottura. 
Interessante, a questo proposito la riflessione di Fornari: “Non si tramanderebbe 
una canzone sulla naturale sensualità di una bella Pinotta nuda, se simili conve- 
gni notturni fossero un fatto accettato pacificamente dalla comunità: l’afferma- 
zione, alla fin fine, nega”, ma Ra può indurre a cambiare le regole 
di relazione. 


4. GRILLO E FORMICUZZA (informatrici B. B. e M. E) 


C'era un grillo in un campo di lino 
la formicuzza gliene chiese un filino. 


Disse lo grillo: “Che cosa ne vuoi fare”. 
“Calze e camicie, mi voglio maritare!”. 


18 


Nigra, p. 456 segg. 
Corsi, p. 65; v. anche Fornari, pp. 52-53 per una versione raccolta negli anni ’50 del secolo scorso. 


20. Fornari 1976, p. 58. 


19: 


169 


Rossano Nistri 


Disse lo gio “Che ti sposo io!”. 
Disse la formica: “Ne son contenta anch'io!”. 


Gliera fissato i’ggiorno delle nozze 
du’ fichi secchi e du’ castagne cotte. 


Andetter’in chiesa pe mettisi l'anello 
cadde lo grillo e ssi spaccò i’ccervello. 


La formicuzza era vicin’a'i pporto 
e sente dire che i”grillo gliera morto. 


Séna le nove e di là dai pprato 
si sente dire che i’ ggrillo è sotterrato. 


La formicuzza dai’ ggrande dolore 
rese una zampina e se la ficco’ n'i'ccore (Fig. 4). 
p la fi Fig. 4 


Notissima canzone dialogico/narrativa, spesso ritenuta un trastullo per i bam- 
bini. Al contrario, come nelle favole di Esopo, i piccoli animali del prato rappre- 
sentano gli esseri umani, e sono anche loro campioni del pensiero comunitario. 
Se ne trovano due versioni già nel Nigra”, con una conclusione assai diversa, in 
cui la formicuzza non si sente obbligata a togliersi la vita, come pure in molte 
delle versioni raccolte in Toscana??. Nella maggior parte delle versioni toscane, i 
distici che formano le strofe sono intercalati da un ritornello onomatopeico che 
è escluso dalla versione delle nostre informatrici. 

Tre personaggi: il grillo (A) che vuole sposarsi e metter su famiglia (motivazio- 
ne di A), la formicuzza (B) che accetta di sposarlo (motivazione di B) senza che 
nessuno dei due esprima pulsioni amorose, ma soltanto, da quanto è dato capire, 
una scelta di convenienza. C'è inoltre un personaggio collettivo (C) che fa da 
sfondo (“... e sente dire...”) ma che non influisce direttamente sugli esiti della 
storia. La sposa prepara il corredo; è già stato fissato il giorno del matrimonio, 
ma ecco che accade l’imprevisto (ostacolo per A): il grillo cade e muore prima 
di poter mettere l’anello alla sposa (ostacolo non superato per A). Alla povera 
formicuzza, rimasta vedova prima di sposarsi, non resta che il suicidio (ostacolo 
non superato per B). Chiaramente l’esito della vicenda è negativo per ambedue 
i personaggi. 

In una società tradizionale, giunti a una certa età, l’uomo, ma soprattutto la 
donna, devono metter su famiglia, senza stare a guardare troppo per il sottile: non 
sembra infatti che i due personaggi siano legati da alcun sentimento o attrazione. 
L’uno si vuole maritare, l’altra si dichiara contenta di essere lei la sposa. Dopo 
la morte di A in seguito a un evento imponderabile, a B non resta tuttavia che 
accettare un destino di parificazione al coniuge che in questo caso supera l'istinto 
di conservazione: come dire, insomma, che quando muore il marito, la moglie, 
affranta dal dolore, come nell’antica cultura indù, deve seguirne la sorte. Nella 


2! Nigra, pp. 587-588. 
Nerucci, p. 532; Corsi 1898, p. 65 segg.; Giannini, p. 35, Fornari, pp. 66-69. 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


mentalità tradizionale, la morte è preferibile alla vedovanza, visto il patto di fe- 
deltà che lega indissolubilmente i coniugi. 

Che cosa sia l’imponderabile nel mondo contadino è difficile da definire. Può 
essere semplicemente tutto ciò che esula dalla volontà del soggetto, come ciò che 
deriva dalla volontà divina (senza distinzione se ciò sia frutto di consapevolezza 
religiosa o di superstizione); può dipendere infine dal non avere ottemperato 
convenientemente a protocolli comportamentali d’uso consolidato, come non 
aver pronunciato correttamente una formula di rito o di scongiuro, oppure non 
aver eseguito in maniera conveniente una sequenza di gesti in momenti partico- 
larmente sensibili. L'informatrice B. B. ironicamente commentava la vicenda del 
grillo e della formica: “Gli dovea pe’fforza succede’ quarcosa... Dovean sapello 
che ‘un si fanno le nozze co’ fichi secchi, porta male!”. 


5. ERANO TRE SORELLE (informatrice B. B.) 


Erano tre sorelle 
erano tre sorelle 


la-Ilà 


e tutt'e tre da maritar. 


La prima la più bella 


si mise a navigar. 


Nel navigar che fece 
l'anello le cadde in mar. 


“O pescator dell’onde 


vieni a pescar più in qua. 


Ripescami l’anello 
che m'è caduto in mar”. 


“Quando l’avrò pescato 
che cosa mi darai?”. 


“Cento zecchini d’oro 
e una borsa ricama’ “ 


“Non vo’ zecchini d’oro, 
voglio un bacin d’amor”. 


“E che dirà la gente 
se ci vedrà baciar?”. 


“Dirà che ‘gli è l’amore 
che ce l’ha fatto far” (Fig. 5). 


171 


Rossano Nistri 


Conosciuto anche come La pesca dell'anello??, questo canto ha numerose ver- 
sioni regionali, in alcune delle quali la vicenda inizia con la perdita dell’anello “al 
fosso” Lc. la bella è andata a lavare il bucato, o a una fontana, anziché sul mare, 
ma si chiudono in modo simile, senza concludersi davvero, perché, nonostante 
in qualche caso i due personaggi lo mercanteggino a lungo, non sapremo mai 
se i suo bel pescatore, quel bacin d'amor la i lo darà o non lo darà. L'analisi 
del testo, se non ci aiuta a risolvere questo problema, ci permette di capire di più 
rispetto al motivo per cui l'esito del racconto deve restare aperto. 

Sebbene la canzone si avvii evocando tre sorelle, due di loro sono di sfondo 
e non hanno parte attiva nella vicenda. L'inizio con tre personaggi, di cui due 
fantasmatici, è anche in altri canti: C'erano tre tambur...?4 e Gl'eran tre falciatori®, 
oltre che in tante fiabe popolari, e possiamo ipotizzare abbia la funzione di ricor- 
dare che non tutte le persone sono uguali o hanno pari capacità, e che nel gruppo 
c'è sempre chi ha più intraprendenza, coraggio o fantasia per emergere e cercare 
la propria strada. Solo due personaggi, dunque, la più bella delle tre sorelle (A) e 
il pescatore (B) che rimane repentinamente folgorato dalle grazie della fanciulla. 
La bella si mette a navigare (cioè esce dal proprio ambiente, abbandona la propria 
casa d’origine) e perde l'anello in mare. Chiede al pescatore di Re 
(motivazione economica di A) e costui chiede una ricompensa (motivazione di B 
diversa da quella di A). Quando la bella offre al pescatore del denaro e una borsa 
ricamata, questi rifiuta i doni (ostacolo per A), e chiede “solo un bacin d’amor”; 
ma la bella oppone a sua volta dei dubbi (ostacolo per B), perché teme di essere 
chiacchierata (“E che dirà la gente...”). Il pescatore tenta di superare la resistenza 
della ragazza con un’asserzione di carattere generale: “è l’amore che ce l’ha fatto 
far” (superamento ipotetico dell'ostacolo), ma il canto non ha un epilogo narra- 
tivo seppure, nel non detto, si possa pensare a un esito positivo e trasgressivo per 
bi i personaggi. Caratteristica presente non solo nella nostra versione, ma 
anche in molte altre, in cui la ragazza pone una catena di ostacoli che il pescatore 
tenta di superare, ma senza riuscire a raggiungere i l’obiettivo. 

L'etica comunitaria vieta le effusioni ii amore fuori dai vincoli matrimoniali e 
dunque chi vuole praticarle deve assolutamente evitare di essere visto, perché la 
ragazza 0 la donna che si fanno chiacchierare per questo hanno poi difficoltà a 
trovare marito. Un modo per trasgredire è uscire ui proprio ambiente, cambiare 
scenario: mettersi a navigare. I due personaggi hanno motivazioni diverse, anche 
se poi tentano di farle convergere. Se una donna chiede un favore a un maschio, 
quest’ultimo preferisce una ricompensa amorosa piuttosto che una pecuniaria, 
perché la donna è sempre considerata oggetto sessuale. Il comportamento cor- 
retto per una ragazza sarebbe evitare di richiedere favori a un maschio per non 
trovarsi nella condizione di doverne rintuzzare le profferte amorose. E non tanto 
perché sia scandaloso fare l’amore: tutti sanno che la cosa è abbastanza normale 
anche nella società tradizionale, ma l'importante è non rendere la cosa di pub- 
blico dominio. “Si fa, ma non si dice”. Ed è questa la ragione per cui possiamo 


23 


Con questo titolo la pubblicano il Nigra, pp. 410-417 (sette versioni, molto disomogencee tra 
loro) e il Giannini G., p. 221. 
2 v. di seguito, canzone n° 7. 


25 Leydi, pp. 269-270. 


172 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


immaginare che, trasgredendo le regole comunitarie fuori dal proprio scenario 
consueto, la bella alla fine acconsentirà alle richieste del pescatore e gli darà il 
bacio tanto agognato. I due, però, saranno tanto astuti da non farsi vedere da noi, 
la comunità giudicante. 


6. LA CANZONE DI BISTA (informatrice L. B.) 
“...mettiti i fiocco nero 


ti porto a Montenero 
e ti ci lascio. 

Bell’e ffinito i’ cchiasso 
e la chiassaia. 


Mi pare un can che abbaia 
Biston con le parole 

che sempre moglie vòle 

e mai ne piglia”. 


“M°'ha messa in mantiglia 
in manicotti e guanti 

e siamo a Tutti i Santi 

e i freddo viene, 


adesso non conviene 
andare a letto sola 
che sotto le lenzuola 
non c'è niente. 


Cosa dirrà la gente? 

Mi son fatta i'vvestito 

con gli sbuffi, tirati 

in là — m'arruffi...” (Fig. 6). 


Si tratta del frammento di un canto conosciuto comunemente come Bista 
vol'essere sposo o anche La serva d'’ipprete, di cui si hanno le prime tracce nell’Ar- 
chivio del Pitrè?°. A seconda delle versioni, dopo un preambolo narrativo attribu- 
ibile alla “voce comune” in cui si cerca di dissuadere la protagonista, definita la 
“serva d’ipprete” dallo sposare Bista (che non compare sulla scena), s'imbastisce 
un vivace dialogo tra il prete stesso e la serva. Il prete prospetta alla perpetua una 
vita di triboli assieme a Bista, persona abituata a promettere e a non mantenere, 
mentre la perpetua s'inalbera a spiegare le sue ragioni fino a confessare che, non 
considerando le promesse di lusso fatte dall’amante, ha bisogno di qualcuno che 
le scaldi il letto perché sta arrivando la stagione fredda; e ciò prima di scagliare 


26. Barbi, p. 61; Giannini A. 1889, p. 285; Corsi, p. 65. 


173 


Rossano Nistri 


3 
un 


ria 


azz: 


in F 


174 


invettiva contro i preti cui non si deve mai dar retta’. Di tutto questo, dal 
nostro frammento (quanto la nostra informatrice ha potuto richiamare a memo- 
per averlo ascoltato negli anni precedenti la prima guerra mondiale) si evince 
poco. Del dialogo rimane solo la parte centrale del battibecco tra il prete (A) e 
la serva (B); e dalle poche battute è difficile trarre dei dati comunitari certi, sen- 
nonché, pur di stare con Bista (motivazione di A), nonostante ciò che può dire la 
gente (ostacolo), la serva è disposta a essere chiacchierata (superamento putativo, 
in mancanza di un esito). Come ciò rientri nel flusso della cultura comunitaria è 
impossibile ipotizzarlo, se non ricorrendo ad altre versioni più complete. Consi- 
derato però che queste non concordano tra loro, preferiamo in questo caso non 


ardare conclusioni. 


7. C'ERANO TRE TAMBUR (informatrice B. B.) 


C'erano tre tambur 
tornavano dalla guerra 
olì olì-olì olé 

tornavan dalla guerra. 


Il più bellin dei tre 
l’avea un mazzo di rose 
olì olì-olì olé 

l’avea un mazzo di rose. 


La figlia del re 

che Vera alla finestra 
olì olì-olì olé 

che l’era alla finestra: 


“Dimmi o tambur 

mi dareste codeste rose 
olì olì-olì olé 

mi dareste codeste rose?”. 


“e . 3 n 
Le rose io ti darò 

quando tu sarai mia sposa 

olì olì-olì olé 

quando tu sarai mia sposa”. 


“Vai o tambur 

vallo a chiedere a mio padre 
olì olì-olì olé 

vallo a chiedere a mio padre”. 


27 


ornari 2002, pp. 120-123. 


v. la bella versione, la più ricca e (parrebbe) completa, raccolta a San Colombano di Scandicci 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


“Bongiorno Re, 

mi dareste la vostra figlia 
olì olì-olì olé 

mi dareste la vostra figlia?”. 


“Dimmi o tambur 

quali sono le tue potenze 
olì olì-olì olé 

quali sono le tue potenze?”. 


“Le mie potenze son 

il tamburo e le bacchette 
olì olì-olì olé 

il tamburo e le bacchette...” 
“Vanne o tambur 

ti farò tagliar la testa 

olì olì-olì olé 

ti farò tagliar la testa”. 


“Il mio paese ha 

cannoni per vendicarmi 
olì olì-olì olé 

cannoni per vendicarmi!”. 


“Dimmi o tambur 

chi è il tuo signor padre 
olì olì-olì olé 

chi è il tuo signor padre?”. 


“Mio padre ‘gli è re 

di Francia e d'Inghilterra 
olì olì-olì olé 

di Francia e d'Inghilterra”. 


“Vanne o tambur 

e prenditi mia figlia 

olì olì-olì olé 

e prenditi mia figlia...”. 


“Al mio paese 

ce n'è delle più belle 

olì olì-olì olé 

ce n'è delle più belle” (Fig. 7). 


175 


Rossano Nistri 


Il solito Nigra ne dà due versioni, indicandole come generatrici di quella pe- 
netrata in Toscana?5 e pubblicata dal Nerucci nel 1865, nella quale, con analogo 
svolgimento si parla di “tre soldati” anziché di tre tamburini??. Successivamente il 
canto è stato pubblicato da altri studiosi, con pochissime varianti”. 

Come nel caso delle tre sorelle, due dei tamburini scompaiono subito dalla 
scena e l’attenzione si sposta sul protagonista, “il più bellin dei tre” (personaggio 
A) e sul suo mazzo di rose. Dalla finestra, la figlia del re (personaggio B) gli chiede 
di dargli i fiori (motivazione per B). Il tamburino glieli darà solo se la ragazza è 
disposta a sposarlo (motivazione per A, ma ostacolo per B). La figlia del re supera 
l'ostacolo mandando il tamburino a chiedere il permesso al padre (il re, personag- 
gio C). Il re, che vorrebbe dare alla figlia uno sposo del proprio rango (motiva- 
zione per C), pone ad A una domanda (ostacolo) a. alle sue ricchezze, cui 
il tamburino, che vuol restare in incognito come il “povero pellegrino” della città 
di Mantova, risponde in maniera insoddisfacente (l'ostacolo non viene superato), 
tanto che il re irato promette al tamburino di fargli tagliare la testa se non se ne 
va. Il tamburino rimane e fa sapere al re di avere a disposizione armi sufficienti a 
vendicarlo (ostacolo per C) poiché suo padre è il re di Francia e d'Inghilterra. Il 
re tenta di superare l'ostacolo concedendo immediatamente la mano di sua figlia 
al tamburino, ma la vicenda non giunge al suo esito positivo, perché il tamburi- 
no rifiuta di sposare la ragazza, dicendo sprezzantemente al re che al suo paese ci 
sono ragazze più belle. L'esito della vicenda è negativo per tutti e tre i personaggi. 

I ragazzi e le ragazze della comunità si scambiano messaggi amorosi a distanza. 
Anche se ciò non è ammesso apertamente, si sa che ciò avviene: nella pratica la 
finestra, il balcone o la porta aperta erano il tramite per far arrivare il messaggio 
da interno a esterno o viceversa per mezzo, ad esempio, di uno stornello, cantato 
al cielo e alle nuvole perché fosse ascoltato e compreso da chi doveva riceverlo. 
L’aver istituito una via di comunicazione e semmai ottenuto l’aperto consenso tra 
i giovani non è però sufficiente. Ai giovani, per cominciare a fare all'amore, oc- 
corre la benedizione dei genitori, soprattutto del padre, tanto più quando questi 
sia una figura di rango e, da quel che appare nel nostro canto, anche una persona 
un po spocchiona e arrogante, com'è il re. Non ci si sposa tra persone di ceto 
sociale differente perché, se mai inferiori dotati di ardimento, possono tentare 
la scalata al livello superiore, tra gli aristocratici “si può aspirare a formare una 
famiglia di riproduzione solo se si posseggono delle ricchezze”?! e titoli adeguati. 
Alla canzone si sottintende infine una morale tesa al rispetto delle gerarchie (la 
stessa esplicitata nella celebra novellina di Petuzzo): per quanto una persona possa 
essere potente, prima o poi, troverà un’altra persona più autorevole o più potente 
in grado di condizionarne i comportamenti e la sorte”. 


8 Nigra, pp. 446-450. 

?. Nerucci, p. 267. 

30 Cfr. Barbi, p. 60; Fornari 1976 e 2002 (due differenti versioni). 
3! Fornari 1982, p. 113. 

3 Nistri 2013, p. 117. 


176 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


8. PELLEGRIN CHE VIEN DA ROMA (informatrice B. B.) 


Pellegrin che vien da Roma 
con le scarpe rotte in pie’ 
o rotte în piè — o rotte in pié 
pellegrin che vien da Roma 
con le scarpe rotte in pie. 


“Bonasera signor oste 

ci ha una camera per favor? 
o per favor — 0 per favor 
Bonasera signor oste 

ci ha una camera per favor?” 


“Ce n'ho una sola sola 
dove dormo con la mi” moglie’ ”. 


“La mi faccia un po’ di posto 
ci si accomoda tutt'e tre”. 


E la notte a mezzanotte 
pellegrin si rizza in pie” 


“Birbaccion d’un pellegrino 
cosa fate alla mi’ moglie’?”. 


“Non gli ho fatto proprio nulla 
gli ho toccato solo un pie’ ” 


E dopo nove mesi 
venne al mondo un bel bambin 


che somigliava tutto 
al birbaccione del pellegrin (Fig. 8). 


È questa una canzone dialogica, preceduta da una strofa e conclusa da due 
strofe narrative. Tre versioni di Nigra”, una di poco precedente pubblicata dal 
Bolza*‘ in dialetto comasco, e molte altre in area padana, “molte più che non me- 
riti il soggetto”, ma nessuna con una conclusione così esplicita come nel nostro 
caso. Nole le varianti registrate in Toscana, in alcune delle quali sono presentati 
gli espedienti messi in atto dall’oste per impedire al pellegrino di avvicinarsi alla 
moglie”. 


3. Nigra, pp. 567-569. 
3. Bolza, p. 677. 
5 Nigra, p. 568. 


36. I più noti di questi espedienti sono quelli del filo di paglia e del campanellino messi a separare 


177 


Rossano Nistri 


Tre personaggi, due che abitano la scena (A e B, l’oste e sua moglie, ma 
quest'ultima non partecipa al dialogo ed è solo evocata dalle parole altrui e nella 
chiusa narrativa) e uno il viene da fuori (C, il pellegrino). Il pellegrino che ri- 
torna da Roma si ferma all’osteria e chiede una camera per dormire (prima moti- 
vazione di C). L’oste gli risponde che gli è rimasta una camera sola in cui dormo- 
no lui e sua moglie al per C). il pellegrino supera l’ostacolo asserendo che 
si possono aggiustare dormendo tutti e tre nello stesso letto (seconda motivazione 
per C). L'oste, per concludere l’affare e non perdere il guadagno (motivazione 
per A) accetta la proposta, ma il pellegrino, durante la notte, riesce ad avere un 
rapporto sessuale con la moglie dell’oste (esito positivo per C). Quando l'oste se 
ne accorge, è ormai troppo tardi (mancato ostacolo da parte di A). Interrogato, il 
pellegrino si giustifica iu che ha toccato solo un piede alla donna, smentito 
dopo nove mesi dalla nascita di un bambino in tutto somigliante a lui (ostacolo a 
posteriori che non è dato sapere come l’oste e la moglie supereranno), evento che 
conferma l'esito positivo per il pellegrino intraprendente, e negativo per l’oste 
venale e per la sua donna, troppo disponibile. 

La regola comunitaria è che la donna sia fedele al marito e intrattenga rap- 
porti sessuali solo con lui; d’altro canto il marito deve essere colui che protegge 
e guida la moglie, per non fare la parte del baggiano, dell’ingenuo sprovveduto. 
Se ne sottintende che la donna è debole e volubile, un oggetto senza volontà, che 
può essere sedotta facilmente, perché è nell’indole maschile e nel costume comu- 
ne essere cacciatore e considerare la donna come oggetto sessuale. D’altronde la 
scena si svolge in un'impresa commerciale, qual è un'osteria. La regola vuole che 
i desideri dei clienti siano soddisfatti. E però questa una regola di secondo livel- 
lo rispetto alla regola di primo livello che impone al marito di de sulla 
moglie e di proteggerla. L’oste che antepone la norma di secondo livello a quella 
primaria diventa complice del cliente pellegrino — tanto più che il cliente, proprio 
perché pellegrino, è un estraneo, viene da fuori e non avrà, in quella scena, se 
non la breve permanenza che gli permette di avere la propria soddisfazione senza 
pagarne lo scotto. 

Si può inoltre notare, in questa come in altre canzoni, l’uso formale delle buo- 
ne maniere che, come abbiamo indicato in un precedente contributo al Bo//etti- 
no, nel mondo della tradizione, servono soprattutto a celare le vere intenzioni di 
chi le utilizza. Qui “Bonasera, signor oste...”; “Bongiorno Re...” nei 7re tambur; 
“Sono scalza e in camiciola / quand’ho fatto t'aprirò...” nella Cazerinetta; “Prima 
lo fa entrare / e poi lo fa sedere ecc.” nello Spazzacamino, non sono nient'altro che 
formule di dissimulazione per mezzo delle quali si affètta cortesia, secondo l’uso 
comune, ma che servono in realtà a facilitare il raggiungimento di uno scopo 
pratico. 


gli occupanti del letto, che l’oste cialtrone alla mattina ritrova ai piedi del letto e che, secondo i cultori 
della genesi storica dei canti popolari non sarebbe nient'altro che il ricordo parodico dell’uso medievale, 
“quando il cavaliere errante accolto nel letto coniugale dell’ospite, metteva la propria spada tra sé e la 
moglie di lui, e sarebbe stato disonorato se avesse abusato dell’ospitalità” (Fornari 2002, p. 169). 

37. Nistri 2010, pp. 476-482. 


178 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


9. LO SPAZZACAMINO (informatrice B. B.) 


Su e giù per le contrade 
di qua e di là si sente 
un canto allegramente 
dello spazzacamin. 


S'affaccia alla finestra 
la bionda signorina 
con voce graziosina 
chiama spazzacamin. 


Prima lo fa entrare 

e poi lo fa sedere, 

gli dà mangiare e bere 
allo spazzacamin. 


Prima lo fa entrare 

e poi lo fa sedere, 

gli fa spazzare il buco 
il buco del camin. 


E dopo nove mesi 

gli nacque un bel bambino 
che somigliava tutto 

allo spazzacamin (Fig. 9). 


Con ogni probabilità non si tratta di una canzone genuinamente popolare, in 
primo luogo perché non è citata da nessuno degli etnografi e dei raccoglitori di 
cose i del XIX secolo e della prima metà del XX; secondariamente per- 
ché è composta in una lingua italiana esente dalle inflessioni vernacolari, quali 
invece si notano in tutte le canzoni precedenti. Si può ipotizzare si tratti di una 
canzone composta da un cantastorie girovago, poiché è conosciuta in quasi tutta 
la penisola, con contenuti simili e forme più o meno italianizzate. Nella versione 
cantata dalla nostra informatrice, risulta una canzone narrativa, senza dialoghi, 
quando in altre versioni, per es. quella in dialetto milanese, il contesto narrativo 
è inframezzato da strofe di dialogo”. di 

La “bionda signorina” (A) è una ragazza intraprendente che sentendo il canto 
dello spazzacamino si affaccia alla finestra, lo chiama e lo fa entrare in casa perché 
ripulisca il camino (motivazione per A). Per essere sicura che lo spazzacamino 
(B) non rifiuti il lavoro (possibile ostacolo da parte di B), la ragazza gli prepara il 
pranzo (superamento dell'ostacolo da parte di A). Lo spazzacamino accetta il la- 
voro (motivazione per B) e pulisce il camino senza trovare ostacoli (concomitanza 
delle motivazioni di A e di B). Come nella canzone precedente, la conclusione 


38. Brivio, p. 18; Castelli, p. 63-64. 


179 


Rossano Nistri 


della vicenda si fa evidente dopo nove mesi, quando la biondina dà alla luce un 
bambino somigliante allo spazzacamino (esito positivo per lo spazzacamino e, si 
può supporre, negativo per la ragazza). 

È abbastanza evidente che a grandi linee questa canzone derivi dalla prece- 
dente; legame sottolineato, almeno nella memoria della nostra informatrice, dalla 
somiglianza degli ultimi quattro versi delle due canzoni. In questo caso, però, la 
ragazza è sola in casa ed è lei ad attirare lo spazzacamino avendo già in mente 
che cosa si aspetta dal giovanotto. Palese è l’allusione a doppio senso, rispetto al 
lavoro che la ragazza richiede, e l’esito negativo per lei evidenzia il dato culturale 
che s'intende trasmettere. Le ragazze nubili non vanno lasciate sole in casa senza 
controllo perché non cedano alle tentazioni e non siano facile preda dei maschi; 
ed è assolutamente da evitare ogni loro contatto con gli sconosciuti che vengano 
da fuori. Mentre nella canzone del pellegrino è l'oste, il marito, a fare la figura 
del fesso, la sventurata biondina che partorirà un figlio senza una famiglia che li 
protegga, non solo sarà molto chiacchierata, ma avrà infinite difficoltà quotidiane 
che le renderanno difficile l’esistenza. 


10. LA VIOLETTA (informatrici L. B. e B. B.) 


E la Violetta la va — la va 

la va-la va-la va-la va 

e la Violetta la va — la va 

la va-la va-la va-la va 

la va nel campo e lavorava 

e cera il suo Gigin che la rimirava. 


“O che rimiri, Gigin d'amor 

Gigin d'amor - Gigin d’amor?”. 

“Io ti rimiro perché sei bella, 

se voi venir con me si va alla guerra”. 


“Io con te alla guerra non vo’ venir 

non vo’ venir - non vo’ venir 

non vo ‘ venire con te alla guerra 

perché si mangia male e si dorme per terra...”. 


“No, no, no, per terra non dormirai, 

non dormirai, non dormirai. 

Tu dormirai su un letto di fiori 

e quattro begli Alpin ti faran gli onori” (Fig. 10). 


Si tratta quasi certamente di una canzone risorgimentale o più probabilmente 
ascrivibile al periodo napoleonico (una versione di contenuto simile in dialetto 
piemontese intitolata La Lionetta si trova già nel Nigra?) diffusasi poi ovunque 


39. Nigra, pp. 559-560. 


180 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


con la prima guerra mondiale, tanto da essere accolta nel repertorio del Coro 
degli Alpini. Le nostre informatrici raccontavano di averla imparata al ritorno del 
fratello dal fronte, dopo Vittorio Veneto e che, negli anni tra le due guerre, era 
diventata una canzone da osteria, spesso straziata per le strade di San Miniato 
dagli ubriachi che rientravano a casa nottetempo. In città era divenuto idioma- 
tica la formula “cantare la violetta” per riferirsi a qualcuno divenuto rumoroso 
e molesto dopo aver alzato troppo il gomito. I versi con i quali Gigin chiede a 
Violetta di andare con lui alla guerra rivelano le origini ottocentesche (o addi- 
rittura precedenti) della canzone: all’epoca era infatti abbastanza comune che i 
soldati portassero fino nei pressi dei campi di battaglia le loro donne, cosa che 
invece era impensabile nelle trincee della Grande Guerra. A questo periodo è ne- 
cessariamente ascrivibile la modifica dell'ultimo verso in cui sono tirati in mezzo 
“quattro begli Alpin” (o “quattro fantaccini” come nella versione pubblicata da 
Pasolini), i quali, com'è logico, non compaiono nella versione del Nigra, in cui 
“la Lioneta ven a l’armada / la Lioneta a intra an Francia”. 

Dopo l'iniziale strofa narrativa, il dialogo si svolge tra Violetta (personaggio 
A) e Gigin (personaggio B). Violetta è una contadinella che mentre lavora nel 
campo sente addosso gli occhi di Gigin (il “suo” Gigin: si può supporre che i due 
abbiano già se non una relazione in corso, un'intesa fatta di sguardi e di segnali), 
e gli chiede il perché di tanta attenzione (motivazione dissimulata da parte di A). 
Gigin si dichiara attratto dalla bellezza di Violetta e la invita ad andare in guerra 
con lui (motivazione di B). La ragazza risponde che non vuole andare in guerra 
(ostacolo per B) perché in guerra la vita è scomoda (“si mangia male e si dorme 
per terra”). Gigin ribatte che invece dormirà in un letto di fiori, accudita (si può 
immaginare in che modo) da quattro begli alpini (tentativo di superamento 
dell'ostacolo da parte di B). Non sappiamo se l'ostacolo sarà superato, ma dal 
contesto si può ipotizzare che l’esito sarà positivo sia per Violetta (che avrà quat- 
tro amanti) sia per Gigin e gli altri alpini che si spartiranno i favori della ragazza. 

Una riflessione sulla cultura comunitaria tramandata in questa canzone 
crediamo debba tener conto della modifica immessa nella struttura originaria 
(che d’altronde possiamo solo ipotizzare a partire dalla versione del Nigra) da 
quell’ultima strofa con il riferimento agli Alpini e quindi a un periodo stori- 
co ben preciso (laddove i canti popolari sono tendenzialmente astorici), quale 
conseguenza della commozione generata in tutta Italia dall’ecatombe della pri- 
ma Guerra Mondiale. Nella società tradizionale, una ragazza che come Violetta 
prende l’iniziativa di abbordare un giovanotto, tanto più un soldato, sa bene di 
trasgredire le regole comunitarie. Può essere chiacchierata e tacciata di essere 
una ragazza facile o, peggio, di facili costumi. Quando c’è una guerra, però, è 
ammesso alle ragazze di accompagnarsi con i soldati ai quali, è noto, giova un so- 
stegno non solo morale. In questo caso, accompagnarsi con gli Alpini che stanno 
sacrificando le proprie vite nelle trincee per difendere la Patria, è per la ragazza 
come dare sostegno alla Patria stessa (ognuno dà come può il suo contributo alla 
lotta comune), senza dover essere considerata di facili costumi. Violetta è una 
benefattrice della Patria, al pari di una crocerossina. 


181 


Rossano Nistri 


11. IL FIGLIO DI BIRONCOLI DI VALLE (informatrice V. B.) 


E vi farò senti’ pene e dolori 

sì della prima notte in matrimonio 
che il piacere si cambiò co’ pianti 
così come succede a tutti quanti. 


Un figlio di Bironcoli di Valle 
sinnamorò della bella Giannina: 

ci aveva il petto grosso e anche le spalle, 
era un’appetitosa contadina. 

Poi l'aveva un mappamondo 

sì ben fatto, grosso e tondo; 

che chioma nera, 

sembrava proprio un fio’ di primavera”. 


E venne il giorno dello sposalizio, 
Giannina brillava come una stella 
e mentre l’ammirava, Maurizio 
diceva: “Alfin ti sposo, cara bella. 
Quando a ‘n dormi’ si pole andare 
quanti baci ti vo’ dare 

in allegria 

e allora ti dirò: Sei tutta mia!” 


‘Ppena mangiato quei bocconi buoni 
dissero tutti: “Noi si vuol ballare!” 

e presi du’ organini ed altri suoni 

e lì la festa incomincionno a fare. 
Ma allo sposo Maurizio 

gli sembrava un sacrifizio: 

con mente ascosa 

bramava d’abbracciar la cara sposa. 


Quando furon partiti gli invitati 
Maurizio si sentiva gongolare; 

in camera nuziale sono entrati, 

ma la Giannina ‘un si volea spogliare. 
Gli diceva. “Mi vergogno, 

via su, levati di torno...” 

Maurizio adagio 

la strinse al seno e glielo diede un bacio. 


A forza di parol’ la fe’ spogliare, 

prima il giacchetto, dopo i gonnella. 
Quando in camicia lei viene a restare 
Maurizio gridò: “Oddio, brutta gratella, 
dove sono ‘ fianchi e ‘l petto, 


182 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


tutto quanto è sotto il letto, 
che confusione! 
tu se’ più secca te che d’un bastone”. 


Maurizio tutto quanto invelenito 
‘un si potea da’ pace quella sera 

e rimaneva ancora rintontito 
quando le’ si levò anche la dentiera, 
poi la prese pe’ capelli 

ch'eran tutti neri e belli: 

“O dio che zucca!” 

e gli rimase in mano la parrucca. 


Maurizio, nel vede’ quell’orrendezza 
prese un bastone e principiò a menare, 
scese le scale con tanta sveltezza, 

da quella casa si diede a scappare. 
Prese ittreno, andò a Livorno, 

dalla sposa ’un c'è più torno, 

e la Giannina 

è andata in un convento cappuccina“9. 


Si tratta chiaramente di una canzone da cantastorie, sia per la complessità del- 
la storia dialogico-narrativa, sia per le scelte linguistiche. Se alcune forme (“pole” 
per può, “incomincionno” per incominciarono, “brutta gratella” per magrissima, 
“torno” per tornato) sono genuinamente vernacolari, viceversa altre forme lingui- 
stiche (“con mente ascosa”, “mappamondo”, “camera nuziale”) suonano lontane 
dal parlato popolare. Senza contare che la gente di campagna non potrebbe mai 
definire la Giannina, una loro pari, “un’appetitosa contadina”, con un termine 
classista che marca una separazione di livelli sociali, quale può essere utilizzato 
per esempio da una persona che appartiene a una classe superiore o da chi abita 
in città. La strofa iniziale di soli quattro versi è molto probabilmente la parte 
conclusiva di un’ottava di cui l’informatrice non è stata in grado di ricostruire 
l'incipit. 

Il protagonista è Maurizio (A), figlio di un non meglio precisato Bironcoli di 
Valle, che si è innamorato della bella Giannina (B), una contadina dalle forme 
generose, e ha deciso di sposarla. A voler essere pignoli c'è anche un terzo prota- 
gonista corale (C), la folla degli invitati allo sposalizio che ha la funzione comica 
di creare il primo ostacolo alle smanie di Maurizio. Una volta celebrato il matri- 
monio, Maurizio vorrebbe subito portare in camera la Giannina (motivazione 


4°. Di questa canzone mi è rimasto solo il testo. Non sono stato in grado di trascrivere la melodia 


perché dopo tanti anni dalla registrazione il nastro del magnetofono si è smagnetizzato. 

i! Conosco solo due altre versioni della canzone, la prima cantata da Caterina Bueno (// figlio di 
Sbiloncolo di Valle in Se vi assiste la memoria (Fonit Cetra LPP 263, 1974, album n° 28 della Collana Folk); 
la seconda, raccolta a Pelago (FI) nel sito /ttps:/docplayer.it/4005794-Canti-di-tradizione-orale-ricordati-e- 
interpretati-nel-territorio-di-pelago. html, intitolata Il figliolo di Biritroncolo di Valle (biritroncolo = ingenuo). 


183 


Rossano Nistri 


di A) ma gli invitati vogliono far festa e ballare (ostacolo da parte di C), perciò 
Maurizio è costretto a rimandare il momento tanto desiderato. Alla fine gli in- 
vitati se ne vanno e il ragazzo riesce a portare Giannina in camera (superamento 
dell’ostacolo da parte di A). Ecco che però si trova davanti una serie di nuovi 
ostacoli a vanificare la sua motivazione. Giannina infatti fa la vergognosa e non 
si vuole spogliare (primo ostacolo per Maurizio da parte di B). Il ragazzo vince 
la ritrosia della Giannina (superamento del nuovo ostacolo), la quale comincia a 
spogliarsi, o meglio a “smontarsi”, perché tutto ciò che sembrava bellezza e opu- 
lenza fisica non è altro che protesi, trucco e artificio: l’imbottitura dei fianchi e 
del petto, la dentiera, la parrucca... (tutti ostacoli posti da B alla motivazione di 
A). Vedendosi tradito Lele sue aspettative, Maurizio ha un solo modo per supera- 
re questi nuovi ostacoli: abbandonare il ruolo dell’innamorato e assumere quello 
del marito tradito, così bastona la novella sposa, l’abbandona e la ripudia. Esito 
negativo per lui, rispetto alla propria motivazione, ma esito positivo secondo la 
morale comunitaria, perché la moglie che inganna in qualsiasi modo il marito 
merita necessariamente di essere punita; esito negativo per la Giannina che, ab- 
bandonata dal marito, non troverà niente di ei che chiudersi in convento. 

Maurizio è un giovane completamente integrato nella sua società di prove- 
nienza dagli spiccati caratteri agrari, e ha convogliato le proprie attenzioni sull’u- 
nico prototipo femminile ammesso nel mondo contadino, ove non è accettato il 
modello della donna magra. La magrezza, infatti, oltre a essere poco appetibile 
sessualmente, è sinonimo di scarsa resistenza alla fatica, di salute incerta, di li- 
mitata capacità di procreazione, quando in campagna si ha bisogno di donne 
sane, robuste e in grado di mettere al mondo molti figli maschi, cioè molte paia 
di braccia da utilizzare nei campi. Nel contesto culturale che ha prodotto, accet- 
tato e tramandato la canzone, la mancanza di opulenza fisica è all’origine delle 
disgrazie di Giannina e causa dell’annullamento di fatto del matrimonio; la sua 
bastonatura è la logica conseguenza di una “frode in commercio” perpetrata ai 
danni dell’ignaro marito. Maurizio fa ciò che la comunità in cui vive si aspetta 
da lui. E la Giannina non è da meno. Chiudendosi in convento, la sposa abban- 
donata rinuncia concretamente a ogni rapporto con il fluire della fertilità e della 
vita, attestando la propria inutilità in un mondo, quello agricolo, che invece ha 
bisogno di cogliere, anche nelle più piccole manifestazioni della vita quotidiana, 
un'eco concorde con la voce che regola tutto l’universo. 


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185 


la citta 5 di Mavtova 


7 Si La 
ci iii bo-to eVo-\eaud®a ve dedi la, 


Donna lombarda 
pg =ilagaionimmamni 


a na_ lom-barnda ché non ami? Don-na lom— 


na prese e 


a da re nen ml i? Rrde Wo wa-ri {er 


peri di 


he o mr ri 


Cala Calterinetta 
BEER 


Ca tecrin Cate netta lo worse < dee miran le 


e ASA 


a- na Ca-tocri- nel-ta 10 reco -1 dee mir con 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 


Grillo e PBrmicozea 


in uncsn-padi \i - no 


E rano ha sele. 


sterrata 


e - rano li - re-o-lie la-((l €_ 


azazziaa 


rato fesa elle tut tetta da ma -ti-+ar 


La cantone Di Bista, 


PET === == 
ue) 
2 porto sis - met Li porkoeti ci 


la -sdo CARPE Le MPi ni tie-hhias-s0e | PURA: sa-ia 


187 


l'orane Fe cn 


Co- ra-no Tre ci. a na fg na dal -\agrisa o- 


b sea -====-:=:==22: 


o- 7 0. |M 0-k cle- SRMOT e tam bore -@rs dal 
= la quer. r2- 


Follegrin che vien da Roma 


Pelle — grin che vin da Po-ma can le scarpe rette in 


188 


SE HAI MARITO FALLO MORIRE! Undici canzoni popolari dialogico-narrative 
raccolte a San Miniato negli ultimi tre decenni del XX secolo 


Lo Sparta cam ho 


fr 


30% giò pe le on-tiarden Li quedi lè si smte— 
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Te Gn fo al le- GM -E Jel-lo Sfar ga uan 


bri bidelir ER: 


Go per lea i. da di quac dl si sen — 10 tl ca. ted 


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lenta — & del le spar- -2a- <a> MI _— 


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sii SS STESSIESSTT =: 
Tre ea rio e ati 


pa-Vae co-t@il 5U-9 Gi-gin Ze riomii - rava Reda miri no 4! 


189 


Donatello e la città e il territorio di Pistoia 


MARIO BRUSCHI 


Rapporti più o meno stretti fra Donatello (Donato di Niccolò di Betto Bardi; 
Firenze, 1386 circa-1466) e Pistoia erano, finora, risultati pressoché inesistenti o 
sconosciuti. 

Nel catalogo della grande e splendida mostra allestita a Palazzo Strozzi (e al Bar- 
gello) di Firenze nel 2022, che raccoglie opere d’arte di Donatello, e di altri sommi 
artisti del Rinascimento, conservate in gran parte a Firenze (SS. Annunziata, S. 
Maria Novella, S. Maria del Carmine, Museo Bardini, Museo di S. Marco, Casa 
Buonarroti, Galleria degli Uffizi, Museo del Bargello, Opera di S. Croce, Chiesa di 
S. Lorenzo) ma anche in altre città italiane (Bergamo, Bologna, Ferrara, Grosseto, 
Jesi, Massa Carrara, Milano, Napoli, Padova, Pesaro, Prato, Roma, Siena, Venezia) 
e all’estero (Berlino, Boston, Budapest, Detroit, Dublino, Lione, Londra, Monaco, 
NewYork, Oxford, Parigi, Vienna, Washington) si possono, qua e là, cogliere spun- 
ti, seppur labili e non eclatanti, che meritano attenzione per un approfondimento 
maggiore di tali interrelazioni. 

“Ricerche recenti hanno verificato che Niccolò di Betto, grazie al favore di un 
patrigno e politico fiorentino di lunga carriera quale Bonaccorso di Neri Pitti, 
membro della Parte Guelfa, era riuscito a ricoprire alcune cariche minori nel go- 
verno territoriale della Repubblica, trovandosi in particolare a Pistoia al passaggio 
fra il Tre e il Quattrocento come capitano della Fortezza di San Barnaba [così in età 
medievale, ma dall’epoca rinascimentale: S. Barbara], mentre Pitti vi era capitano 
cittadino. Questa circostanza spiega la prima carta d’archivio di cui Donatello è 
protagonista, nel gennaio 1401, per aver ferito con un bastone, proprio a Pistoia, 
un certo Anichino di Piero, originario “de Alemania”: episodio curiosamente analo- 
go a uno vissuto nel 1452 da uno tra gli ultimi allievi di Donatello, Verrocchio, alla 
medesima età del maestro. Ma, ai fini della storia dell’arte, è ben più importante 
che su Pistoia gravitasse dal 1400, come orafo nella grande impresa civica dell’altare 
di S. Jacopo in cattedrale, Filippo Brunelleschi, destinato a diventare presto una 
figura di peso tecnico e intellettuale primario nella vicenda di Donatello”! 

E ancora, per Brunelleschi-Donatello: “Negli anni in cui consolidava le sue abi- 
lità di orafo all'ombra di Ghiberti e affinava l’uso del trapano e dello scalpello sotto 
l'occhio ammirato e preoccupato -si può credere- di Lamberti, entrò prepotente- 
mente nella vita di Donatello Filippo Brunelleschi. Ne nacque un'amicizia che, 


! Cfr. Donatello. Il Rinascimento, a cura di Francesco Caglioti, con L. Cavazzini, A. Galli, N. 


Rowley, catalogo della mostra (Palazzo Strozzi), Marsilio 2022, p. 25. Alcuni esponenti della famiglia 
fiorentina dei Bardi sono ricordati, nel Cinquecento, sul Montalbano (Cfr. M. BRUSCHI, Gente di 
Leonardo, Nuova Fag litografica 2018, p. 585, ad indicem). 


191 


Mario Bruschi 


come tutte quelle sperequate per l’età (Brunelleschi aveva quasi dieci anni in più), 
fu cruciale per la crescita intellettuale di Donato”?. 

Una fonte storica pistoiese, riprendendo da Giorgio Vasari, su Brunelleschi ora- 
fo a Pistoia così si espresse: “Due mezze figure di Profeti nell’Altare di S. Jacopo. 
Filippo Brunelleschi Fiorentino, scultore e architetto esercitò il Niello, et il lavoro 
di grosserie, come alcune figure d’argento che sono due mezzi Profeti posti nella te- 
sta dell’altare di S. Jacopo di Pistoia, tenuti bellissimi, fatti da lui all'Opera di quella 
Città. Operò molto di basso rilievo dove mostrò d’intendersi tanto di quel mestiero 
che era forza che il suo ingegno passasse i termini di quell’Arte. Detto Filippo era 
amicissimo di Donatello, morì d’anni 69, l'Anno 1446”3, 

Tornando quindi a quanto riportato all’inizio, merita, a mio avviso, soffermarsi 
su alcune figure implicate con Pistoia e con vicende personali di Donatello: Bonac- 
corso Pitti, Anichino di Piero, Niccolò di Betto, tutti fiorentini. 

Bonaccorso di Neri Pitti, di parte guelfa, capitano di Pistoia, permise, con la 
sua potente protezione politica, a Niccolò di Betto di ricoprire la carica di capitano 
della fortezza di S. Barbara, a cavallo fra Tre e Quattrocento*. 

Anichino di Piero era originario “de Alemania”, cioè di Alemagna (Germania). 
Fra dunque tedesco. Venne “bastonato”, a Pistoia nel 1401, proprio da Donatello. 
Nella campagna fra Firenze e Pistoia, fra Tre e Quattrocento, rimangono docu- 
mentati vari “tedeschi” e vari “Arrigo”. Negli ultimi decenni del sec. XIV, all’altare 
d’argento di S. Jacopo nella cattedrale di Pistoia lavorò lungamente e con parti 
importanti il maestro orafo Piero (Pietro) d’Arrigo Tedesco?. Fra i battezzati del- 


2 Cfr. Donatello. Il Rinascimento, p. 110 (L. Cavazzini). 

3. Cfr. La Chiesa pistoiese e la sua cattedrale nel tempo, a cura di Alfredo Pacini, VI, Pistoia 1996, 
p. 271. Per l’altare di S. Jacopo, cfr. il fondamentale L. GAI, L'altare argenteo di San Iacopo nel Duomo 
di Pistoia, Allemandi 1984. Sabatino Ferrali, nel 1955, ricordando un “avvenimento di importanza sto- 
rica”, cioè la separazione della diocesi di Prato da quella di Pistoia, trovò modo di menzionare il capola- 
voro di Donatello nel Duomo di Prato: “Il primo dei provvedimenti parzialmente risolutivi dell’annosa 
questione venne da Pio II: un papa che, per la sua cultura umanistica, non poteva non nutrire ammira- 
zione per una chiesa che già si ornava del più bel sorriso dell’arte rinascimentale nel pulpito esterno di 
Donatello e Michelozzo e che, proprio in quello stesso tempo, si stava arricchendo del mirabile ciclo di 
affreschi di frà Filippo Lippi” (Cfr. La Chiesa pistoiese, XI, Pistoia 2003, p. 176). Anche il pergamo pra- 
tese di Donatello (1434-1438), a metà strada fra Pistoia e Firenze, testimonia la continua correlazione 
fra questo particolare territorio in ogni ambito. 

4 Per Bonaccorso Pitti, cfr. E NERI, Società ed istituzioni: dalla perdita dell'autonomia comunale a 
Cosimo I, in Storia di Pistoia, III, Firenze, Le Monnier 1999, p. 12; L GATTI, Buonaccorso Pitti “giuca- 
tore aventurato” e Niccolò di Betto Bardi “micidiale della persona” (per gli esordi di Donatello), in Studi in 
onore del Kunsthistorisches Institut in Florenz per il suo centenario (1897-1997), Annali della Scuola 
Normale Superiore di Pisa”, s. IV, I, 1996, Quaderni 1-2, pp. 95-106. Per la fortezza di S. Barbara, cfr. 
E GURRIERI, La fortezza di S. Barbara, in Studi Storici Pistoiesi, I, Centro Italiano di studi di Storia 
e d'Arte, Pistoia, Rastignano 1976, pp. 5-25; C. CECCANTI, Nanni Unghero, Antonio da Sangallo il 
Giovane, Giovanni Battista Belluzzi e Bernardo Buontalenti. Il sistema difensivo pistoiese nel Cinquecento, 
in “Bullettino Storico Pistoiese”, CXVII, 2015, pp. 105-123. Esisteva anche Bonaccorso di Luca Pitti 
(“bonachorso di messer luca pitti”) (Cfr. G. BARNINI, Tommaso Ginori e i “rinnovatori” della Miseri- 
cordia di Firenze, in “San Sebastiano”, periodico della “Misericordia di Firenze”, gennaio 2022, 35, pp. 
34-35). 

°. Cfr. L. GAI, L'altare argenteo, cit. in nota 3, p. 230, ad indicem. L’Anichino di Piero in que- 
stione, per ragioni precisamente anagrafiche e cronologiche (citato nel 1401) potrebbe anche ipotizzarsi 


192 


Donatello e la città e il territorio di Pistoia 


la cattedrale di Pistoia, per il 1473, ho trovato “Giovanni figluolo di Giovanni 
tedescho”°. Il nome di questo padre (“Giovanni tedescho”) è lo stesso del padre di 
“Arigho di Giovanni tedescho”, uno dei testimoni (il quinto dell’elenco) riportati 
nel ricordo di Antonio da Vinci, nonno di Leonardo da Vinci, per il battesimo del 
nipote (15 aprile 1452)”. I due (Giovanni e Arrigo) potevano essere fratelli (figlioli 
di “Giovanni tedescho”). Giovanni fratello maggiore di Arrigo. 

Di “Arigho di Giovanni todescho” Renzo Cianchi scrisse che “di lui non si han- 
no notizie genealogiche”5. Abbiamo ulteriori notizie anche, al riguardo, di Piero 
di Giovanni Tedesco, scultore fiorentino: “La precoce frequentazione di Ghiberti, 
il quale rappresentava a Firenze il fronte di dialogo più aggiornato con l’avanguar- 
dia del Gotico internazionale che da Parigi si propagava in tutta Europa, lasciò in 
Donatello una traccia profonda. Essa emerge nelle prime opere realizzate per la 
Cattedrale: una piccola statua e un rilievo destinati alla decorazione di una porta 
laterale, quella poi detta “della Mandorla”. A quell’impresa lavoravano fin dal 1391 
i principali scultori fiorentini del tempo, i cui nomi sono stati oscurati dalla fama 
della generazione che li seguì: Niccolò Lamberti, Jacopo di Piero Guidi, Piero di 
Giovanni Tedesco, Giovanni d’Ambrogio e suo figlio Lorenzo. Tra pause e rallenta- 
menti, fu solo nel 1406 che si giunse a decorare la lunetta sovrastante l'ingresso, 
ma, a quel punto, della squadra originaria era rimasto solo Lamberti. Ad affiancarlo 
fu ingaggiato Antonio di Banco, che lavorava assieme al promettente figlio Nanni, 
e non è improbabile che proprio a Lamberti si debba il coinvolgimento dell’esor- 
diente Donatello nell’opera”?. Visto il contesto generale, è assai probabile che Piero 
di Giovanni Tedesco fosse fratello di Arrigo e di Giovanni, poiché tutti figlioli di 
“Giovanni Tedesco”. Un altro “Arigho tedesco” compare varie volte nel 1475 ma 
come servitore del vescovo di Pistoia insieme a un “Arrigho francioso”, famiglio di 


come figliolo dell’orafo Piero d’Arrigo Tedesco (attivo a Pistoia alla fine del Trecento). Su questo orafo 
“tedesco” operante a Pistoia, sappiamo, da ulteriori fonti lasciate da Pandolfo Arferuoli e stampate da 
pochi decenni, che nel 1386 gli operai di S. Jacopo “detteno a fare a maestro Piero Tedesco, orafo in 
Pistoia, sei figure d’argento per adornamento dell’altare [...] e li detteno libre sedici d’argento”; nel 
1387: “detteno a maestro Piero orafo a fare il paviglione, con due angeli che reggono detto paviglione 
nel tabernacolo di S. Jacopo d’argento”; nel 1390: “fu fatto da maestro Piero orafo in Pistoia, due figure 
d’argento, cioè l'Angelo e la Nuntiata, che si messeno in testa dell’altare d’argento [...] Montò detto 
lavoro in tutto fiorini 85” (Cfr. La Chiesa pistoiese, I, Pistoia 1994, pp. 117, 118, 124). 

$ Cfr. M. BRUSCHI, La “Chaterina” di Leonardo, in B.S.P., CXII, 2010, p. 187-188, nota 12. La 
grafia usata dal nonno Antonio fu “todescho” per l'esattezza, secondo l’uso della parlata popolare, così 
come nei documenti del tempo si trova frarcioso per francese. 

7. Fraaltri, cfr M. BRUSCHI, Gente di Leonardo, p. 584, ad indicem. 

8. Cfr. R. CIANCHI, Ricerche e documenti sulla madre di Leonardo, Firenze, Giunti-Barbèra 
1975, p.47, nota 42. “Arrigo di Giovanni tedesco era stato prima fattore di Antonio di Lionardo di 
Cecco; poi della sua vedova Monna Lisa dei Ridolfi; infine dei Ridolfi stessi. Fu il fondatore della Cap- 
pella di Santa Barbara nella chiesa di Vinci. Non lo abbiamo trovato nei catasti di Vinci e di Firenze” 
(Ibidem). Recentissime acquisizioni archivistiche hanno fornito nuove notizie per Arrigo di Giovanni 
tedesco. Nel 1446 Piero Lupi di Vitolini e Giustino di Antonio di Vinci fanno un compromesso “in 
Arrigum Johannis de Alamania” e un altro ancora di Arrigo con Piero di Andrea del Vacca, padre 
dell’Accattabriga. Quest'ultimo fu colui che sposò Caterina, la madre naturale di Leonardo (Cfr. A. 
MALVOLTI, Appendice documentaria, in M. BRUSCHI, Ancora su “Chaterina, madre di Leonardo da 
Vinci, in Bollettino dell’Accademia degli Euteleti di S. Miniato al Tedesco, n° 88, 2021, p. 117). 

° Cfr. Donatello. Il Rinascimento, p. 108 (L. Cavazzini). Anche p. 348 


193 


Mario Bruschi 


stalla!°. Altri tedeschi al servizio del vescovo di Pistoia, alla metà del Quattrocento 
(1460): “Maestro Giovanni di Nicholo della Magna [d'Allemagna] nostro chuo- 
cho”, “Andrea tedesco nostro chuocho”, “Giorgio tedescho famiglio della stalla”!!. 

Come detto sopra, nel 1452 (l’anno di nascita di Leonardo), si verificò un me- 
desimo episodio “di bastonatura” subìto dal Verrocchio, allievo di Donatello, e ma- 
estro di Leonardo. 

Leonardo stesso ebbe rapporti piuttosto burrascosi con tedeschi, come avvenne 
durante il suo soggiorno romano, nel 1515, al Belvedere in Vaticano: “L'assenza 
del duca [Giuliano de’ Medici] rende la vita di Leonardo in Vaticano un po’ più 
difficile. Un suo collaboratore, un tedesco chiamato Giovanni degli Specchi, cerca 
di approfittare del momento per carpire qualche segreto tecnologico del maestro, e 
sfruttarlo nella sua bottega a scopo di lucro. Nell’impresa è coadiuvato da un altro 
giovane assistente tedesco, maestro Giorgio, che non sa una parola d’italiano, e 
passa il tempo gozzovigliando con i soldati del Papa e andando con lo scoppietto a 
caccia di uccelli tra le rovine [collandare in collo scoppietto ammazzando uccelli per 
queste anticaglie). 

Di più. La maldicenza di Giovanni avrebbe nociuto alle ultime indagini anato- 
miche di Leonardo, impedendo le dissezioni programmate all'ospedale e forse alla 
presenza del papa [Quest'altro m'ha impedito l'anatomia col Papa biasimandola)”"?. 

Anche le vicende personali di Leonardo, pertanto, furono costellate di presenze 
di tedeschi. Tali personaggi tedeschi (“de Alemania”) fra Pistoia e Firenze dovevano 
essere imparentati tra di loro, come sembrano anche attestare i nomi propri di per- 
sona ricorrenti tra di loro (Arrigo, Piero, Giovanni). Poter stabilire tuttavia l'esatta 
parentela, al momento, appare impresa non possibile. 

Ancora su Donatello-Leonardo: “Attraverso il maestro Verrocchio il giovane ge- 
nio di Vinci rimontava facilmente a Desiderio, maestro di Verrocchio nel marmo, e 
quindi a Donatello, maestro di entrambi [...] Secondo le parole di Vasari, nel 1508 
circa, adulto e famoso, Leonardo, dunque, esortava Baccio Bandinelli, conosciuto 
allora quindicenne nella bottega di Rustici, a “seguitare” nella scultura, e a tale sco- 
po gli “lodava grandemente l’opere di Donato”!?. 

Circa Niccolò di Betto, sopra menzionato come capitano della fortezza pistoie- 
se di S. Barbara, è da dire che apparteneva alla famiglia fiorentina dei Bardi ed era il 


!° Cfr. M. BRUSCHI, Gente di Leonardo, p. 49. 

!! Ibidem, pp. 49-50. 

1? Cfr. C. VECCE, Leonardo, Roma, Salerno ed. 2006, 22 ed. , pp. 320-321. Anche in altre fonti 
storiche troviamo Leonardo e “Giorgio tedescho” ricordati insieme: nella lista delle persone stipendiate 
da Giuliano de’ Medici, a Roma, nel 1515 (Cfr. Leonardo da Vinci. La vera immagine, a cura di V. Arri- 
ghi, A. Bellinazzi, E. Villata, Firenze, Giunti 2005, p. 235). 

15. Cfr. Donatello. Il Rinascimento, p. 408 (L. Cavazzini). Sia Donatello che Leonardo avevano 
avuto come mecenate la famiglia fiorentina dei Martelli. Nel famoso elenco di libri di Leonardo, del 
1503 (Ricordo de libri ch'io lascio serrati nel cassone), troviamo anche “Donadello”. Nella biografia di 
Leonardo, scritta da Paolo Giovio (1483-1552), si ritrovano i tratti salienti della personalità dei due 
grandi artisti: “Dicono che il fiorentino Donatello, autore della statua bronzea equestre del Gattamelata 
che si erge nella piazza di Padova a gloriosa testimonianza di un'arte insigne, quando interrogava se 
stesso sul modo migliore di apprendere l’arte soleva rispondersi: In arte, fare e rifare è progredire” (Cfr. 


C. VECCE, Leonardo, cit. in nota 12, p. 416 (nota 40), 237, 354). 


194 


Donatello e la città e il territorio di Pistoia 


padre di Donatello. Tramite costui il futuro grande artista ebbe i ricordati rapporti 
personali con Pistoia. 

Ma, sempre a questo riguardo, vi è un’altra figura di artefice che, a mio parere, è 
degna di essere portata all'attenzione. Si tratta di Giovanni di Betto. 

Tale maestranza la troviamo qualificata come “lastraiolo” (“lastraiuolo da Firen- 
ze”) e come “scarpellino”. Lavorò molto nei cantieri rinascimentali pistoiesi di S. 
Chiara (chiesa e monastero) e nella fabbrica della Madonna dell’Umiltà. 

Spesso con Giusto e Sandro d’Antonio, tutti di Settignano, sotto la direzione e 
supervisione dell’architetto pistoiese Bonaventura Vitoni. Nel 1488, ad esempio, 
fornì a S. Chiara davanzali e colonne (complete di base e capitelli)!‘ nel 1494 
“carrate” di pietre. Oltre a S. Chiara e alla Madonna dell’Umiltà portava materiale 
anche per il monastero di S. Giovanni Battista (peducci per le volte). Veniva, come 
tutti, pagato spesso in natura (barili di vino), oltre che con fiorini d’oro larghi!. I 
lavori e i materiali di questi artigiani specializzati fiorentini venivano favoriti dalle 
autorità religiose dei monasteri pistoiesi (di S. Chiara e di S. Giovanni) come la 
badessa Lisa Baldovinetti, della famiglia fiorentina dei setaioli. 

Giovanni di Betto, esperto lastraiolo, procurò ancora nel 1496 “pietre di concio” per 
S. Chiara. Come detto, talvolta veniva ricompensato con fornitura della preziosa “seta 
cruda” dei Baldovinetti, per conto della badessa!°. “Lo scarpellino fiorentino risulta an- 
cora una volta presente e principale artefice dei partiti decorativi come nelle altre opere 
alle quali lavorava il Vitoni”. Così pure fu pagato nel 1497, nel mese di gennaio quando 
si ammazzava il maiale (“per ucciditura d’uno porcho”)!. 

Numerosi e importanti lavori per S. Chiara restano documentati in quell’anno 
come opera di “Giovanni di Betto scharpellino da Settignano”. E ancora nel 1498: 
“nuovi chiostri”, “nuovi veroni”, “pozzo tondo”, “12 colonne grosse”, “11 colonne 
piccole”, “davanzali”, “peducci”'5. Lo scarpellino Giovanni di Betto riprese l’attivi- 
tà artigianale del padre Benedetto [Betto] da Firenze, già fornitore (nel 1494) di 
“charrate” di pietra a Pistoia: “dalla bottegha di Benedetto lastraiolo da Firenze”. 

La “bottega” fu continuata da Matteo di Giovanni di Betto. Di lui ho trovato 
ricordo, sempre a Pistoia, nel 1521°°. 

Nei documenti pistoiesi non compare mai indicazione esplicita della famiglia 
(Bardi). Tuttavia, niente vieta di poter ipotizzare in Giovanni di Betto un fratello 


Cfr. M. BRUSCHI, Lo Scalabrino, Sebastiano Vini e i Gimignani a Pistoia: opere d'arte alla villa 
di Igno e al palazzo vescovile (1507-1621). Ventura Vitoni a S. Chiara (1484-1508) e altri artefici (1494- 
1555), Pistoia 2014, pp. 174-175. 

Ibidem, p. 179. Un suo omonimo pistoiese (Nicolao di ser Betto) risulta Operaio di S. Gio- 
vanni (Battistero di Pistoia) nel 1364 (Cfr. N. BOTTARI SCARFANTONI, // cantiere di San Giovanni 
dana a Pistoia (1353-1366), Società pistoiese di storia patria 1998, p. 91). 

Cfr. BRUSCHI, Lo Scalabrino, p. 185. 

Ibidem, p. 186. 

Ibidem, pp. 186-187. 

Ibidem, p. 178. Benedetto di Berto del popolo di S. Pier Maggiore da Firenze, “maestro di 
pietra”, è attestato dai documenti pistoiesi, nel 1359, come fornitore del cantiere del Battistero (Cft. 
BOTTARI SCARFANTONI, // cantiere di S. Giovanni, cit. in nota 15, pp. 192-193). Poteva essere un 
antenato. 

2° Cf. BRUSCHI, Lo Scalabrino, p. 175. Compare anche un altro figliolo: Piero di Giovanni di 
Betto (Ibidem, nota 455). 


195 


Mario Bruschi 


(minore per motivi cronologici) di Niccolò di Betto, padre di Donatello, o un suo 
parente stretto. Giovanni di Betto, dunque, forse zio di Donatello o un esponente 
di parentela ravvicinata. Non sommo artista, ma che potrebbe avere avuto un'in- 
fluenza nella formazione dei primi rudimenti basilari della scultura nei confronti 
del nipote e sollecitare e indirizzare il piccolo Donatello verso un glorioso futuro. 

La cronologia riguardante i personaggi implicati sarebbe compatibile, ammesso 
che Giovanni di Betto sia vissuto molto a lungo, così come i rapporti, attestati dai 
dati d’archivio, tra i fiorentini Niccolò e Giovanni di Betto con Pistoia, come sopra 
dimostrato. 

Infine, ma in maniera speciale e decisiva, l’attività svolta da Giovanni di Betto: 
“scarpellino” e “lastraiolo”. 

Anche Donatello, dunque, un po’ “figliolo artistico” delle cave di pietra di Setti- 
gnano. Come il “divino” Michelagniolo, più tardi. Buonarroti asseriva di aver con- 
tratto il “mal della pietra” dalla balia di Settignano che l’aveva allattato da neonato. 

In fondo, in sintonia col fatto che “gli studi degli ultimi sessant'anni hanno 
radicalmente modificato il profilo del giovane Donatello [...] Nel 1412, del resto, è 
con la qualifica di “orafo e scarpellatore” che si iscrive alla Compagnia di S. Luca, la 
confraternita di mutua assistenza cui si affiliarono gli artisti fiorentini”?! 


2! Cfr. Donatello. Il Rinascimento, p. 108 (L. Cavazzini). 


196 


Donatello e la città e il territorio di Pistoia 


Fig. 1 Donatello, Sar Giorgio, 1415-1417, Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Opera scolpita dopo 
circa un quindicennio “la ass. di Anichino di Piero a Pistoia, particolare 


197 


Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane 
nell'Archivio di Stato di Firenze 


RICCARDO SPINELLI 


1- La committenza artistica e il collezionismo di Carlo di Tommaso di Simone 
Strozzi (1587 - 1671): Jacopo Vignali, Carlo Dolci, Giovanni Martinelli e altri 


Noto soprattutto per l'importante raccolta di codici manoscritti, volumi a 
stampa, testi di argomento storico-genealogico, memorie familiari — la mag- 
ior parte dei testi, manoscritti come editi, sono confluiti nelle collezioni delle 
Biblibteche Laurenziana, Nazionale Centrale e Riccardiana di Firenze; gli altri 
all’Archivio di Stato di Firenze, nel fondo ‘Carte strozziane’ - Carlo di Tommaso 
Strozzi (1587-1671), figlio di Tommaso di Simone e di Francesca di Alessandro 
Guidotti, discendente da un ramo cadetto della casata (quello di Rocco di Gerio), 
fu anche un appassionato estimatore di reperti archeologici e di opere di pittura 
e scultura?, ad oggi poco conosciuto (Fig. 1). 

I documenti e i registri dell'’amministrazione di Carlo nei quali sono ricordate 
in ugual misura vicende familiari come ‘uscite di cassa’ per varie spese, attestano 
infatti una costante attenzione al mondo delle arti figurative, della stampa e dei 
manoscritti, equamente divisa tra acquisti sul mercato e committenze dirette ad 
alcuni degli artefici attivi a Firenze negli anni in cui tale passione prese corpo. 

Sposato dal settembre del 1626 con Virginia di Luigi Caetani? e abitante in 
una casa posta in via della Vigna a Firenze" - nella quale Carlo conservava la 
leggendaria biblioteca, ricordata, tra gli altri, anche dal Cinelli? - Carlo ebbe 


Tutte le date indicate nel testo e nelle note sono riportate dal computo fiorentino (che faceva iniziare l'anno 
il 25 di marzo) a quello solare, con inizio al primo gennaio. Nel licenziare questo saggio desidero ringraziare 
Luca Macchi e gli amici Giuseppe de Juliis, Francesca Fiorelli Malesci, Mara Roani per gli utili siggerimenti 
e i preziosi consigli, e Filippo Landini e Lucia Spinelli per la cortese ospitalità a villa La Colombaia. 

! Su questo personaggio, soprattutto in rapporto ai suoi interessi storico-genealogici, si segnala 
la tesi di laurea online di C. Mencarelli, Per /a biografia di un erudito del Seicento: Carlo di Tommaso 
Strozzi, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 2010-2011. 
Altre notizie su Strozzi sono in M. B. Guerrieri Borsoi, Gli Strozzi a Roma. Mecenati e collezionisti del 
Sei e Settecento, Roma, 2004, pp. 19, 34-35. 

2 Gli acquisti di antichità ebbero luogo sia sulla piazza fiorentina, presso “antiquari” e collezioni- 
sti locali, sia a Roma: su questo si veda il testo, più avanti. 

3. Archivio di Stato di Firenze (ASFi), Carte Strozziane (CS), IV serie, n. 112, Debitori e creditori di 
Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 1620-1641, c. 58, 8 settembre 1626. La Caetani morirà l 11 maggio 
1665, sessantasettenne; ivi, n. 117, Giornale e ricordi di Carlo di Tommaso Strozzi, 1662-1680, c. 25. 

4 Ivi, n. 112, c. 156. 

? G. Cinelli, Le bellezze della città di Firenze scritte da Francesco Bocchi ed ora da M. Giovanni 
Cinelli ampliate, ed accresciute, Firenze, 1677, pp. 235-236. 


199 


dalla moglie sei figli: nel luglio del 27 le gemelle Costanza e Francesca; una ter- 
za femmina nel 1628, morta poco dopo ù nascita; il primo maschio Tommaso 
Urbano (1631), poi morto di vaiolo nel 1635 e sepolto in Santa Maria Novella, 
nella cappella di famiglia; un secondo maschio, Luigi, nato nel 1633, arcidiacono 
della metropolitana fiorentina; gli ultimogeniti Alessandro Antonino e Romolo, 
venuti al mondo il 5 luglio del 1634, il secondo morto tuttavia alla nascita‘. In 
occasione delle nozze con la nobildonna romana, per le quali si registravano nei 
libri contabili di Strozzi le spese per l'apparato della cerimonia e per gli abiti”, 
questi ebbe a regalare a Virginia due “manigli” con perle, degli ii un ven- 
taglio d’argento con catena, un anello con diamante, tutti prodotti da una delle 

rincipali vi orafe del tempo, quella dei Vanni*. Inoltre fu cura dello sposo 
ni dipingere a Giovan Battista Rosati, nel giugno del ’27, le proprie armi e quelle 
della moglie su due “targhe” di cuoio antiche? e, l’anno successivo, nel dicembre, 
gli stessi stemmi nella testata d’un letto, questi dovuti ad un altro artista che ri- 
tornerà spesso nei registri del nobiluomo, Orlando Gherardi!‘. 

Dei quattro figli sopravvissuti, un maschio e una delle femmine intraprese- 
ro la carriera ecclesiastica o scelsero il chiostro: Luigi fu, sè detto, arcidiacono 
fiorentino ed ebbe la prima tonsura nel 1639 a Roma!'; la figlia Francesca vestì 
l'abito domenicano nel monastero di San Vincenzo a Prato col nome di suor 
Francesca Teresa - sempre nel settembre di quell’anno! -, cenobio nel quale vive- 
va da tempo la sorella di Carlo, Benigna, cui questi, nel gennaio del 1629, aveva 
fatto pervenire in dono una tela con San Michele Arcangelo". Gli altri due figli, 
Costanza e Alessandro Antonino, ebbero invece a maritarsi: la prima, nell'aprile 


6 ASFi, CS, IV serie, n. 113, Giornale di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 1642-1652, c. 240; 
ivi, n. 109, Giornale di Carlo di Tommaso Strozzi, 1622-1636, carte non numerate (cnn), alle date. Sulle 
nascite dei figli si veda anche ivi, n. 112, cc. 79, 112, 128, 141. 

7 Ivi, n. 112, c. 61. 

8. Ivi, c. 58. I Vanni, un'importante famiglia di orafi attiva a Firenze nel corso del Seicento (per 
alcune notizie, cfr. R. Spinelli, Un dono mediceo per la Santissima Annunziata e considerazioni sulla 
bottega orafa Comparini, Vanni e Rotani di Firenze, in “Bollettino della Accademia degli Euteleti della 
città di San Miniato”, n. 79, 2012, pp. 181-196), furono impegnati da Carlo anche in altre occasioni. 
Nell'ottobre del 1633 si incaricò Orazio dell’esecuzione di un Agnus Dei in oro da regalare ad Andrea 
Mercati, del quale Carlo era stato il padrino di battesimo: ASFi, CS, IV serie, n. 112, c. 130. Nel di- 
cembre del ’34 si ha notizia di una catena d’oro, realizzata sempre da Orazio, che Carlo regalava alla 
cognata, ibidem e ivi, n. 109, cnn, 25 settembre; nell'aprile del 1634 è documentata l’esecuzione, ad 
opera di Niccolò, di due cassettine in argento, ivi, n. 109, cnn, 5 aprile; nel luglio del 1640 quella di 
due candelieri in argento, sempre dovuti a Niccolò, ivi, n. 110, Giorrale e ricordi di Carlo di Tommaso 
Strozzi tenuto in Roma, 1636-1641, c. 99, 7 luglio 1640; nell’aprile del 1649 la fattura di un secondo 
Agnus Dei d’oro che Carlo comprava per conto del figlio Luigi, da regalare, quale padrino, al figlio di 
Bartolomeo Gori, ivi, n. 113, c. 146. 

°. ASFi, CS, IV serie, n. 112, c. 28, 21 giugno, con un successivo pagamento del 6 agosto. L’ar- 
tista risulta registrato all'Accademia tra il 1618 e il 1670; cfr. L. Zangheri, Gli Accademici del Disegno. 
Elenco alfabetico, Firenze, 2000, p. 278. Al Rosati verrà richiesto di dipingere, il 14 ottobre del 1642, 
anche un albero genealogico della famiglia Machiavelli; ASFi, CS, IV serie, n. 113, c. 10v. 

10 ASFi, CS, IV serie, n. 112, c. 94. Per le notizie sul pittore, presente nei volumi dell’Accademia 
dal 1634 al 1653, cfr. Zangheri, Gli Accademici, cit., pp. 149-150. 

!! ASFi, CS, IV serie, n. 110, c. 67, 14 agosto 1639. 

12 Ivi, c. 128. 

13. Ivi, n. 112, c. 89. 


200 


del 1645, con Lorenzo di Antonio Bonaccorsi e in quell’occasione la giovane, 
provvista d’una ricca dote di “guardaroba e di gioie”, posò per un ritratto eseguito 
dal pittore Giovan Battista Montini, allievo di Jacopo Vignali, compensato per 
questo nel marzo di quell’anno!; il secondo con Teresa Bartolomei, garantendo 
così la sopravvivenza del ramo familiare”. 

Quanto a Luigi, in occasione della fine del proprio percorso formativo come 
religioso e dovendo discutere una ‘tesi’ di teologia presso i gesuiti a Roma, ebbe 
l’incarico dal padre di richiedere nel 1651 a Stefano della Bella “l’intaglio del 
frontespizio” di tale dissertazione, pagato all’artista in più rate tra il 3 ottobre e il 
14 novembre!°: una piccola pubblicazione della quale se ne tirarono soltanto ven- 
tiquattro esemplari stampati nell’Urbe da Amadore Massi — celebre stampatore 
forlivese attivo a Firenze e a Roma!” -, elegantemente rilegati in “taffettà e merlet- 
to dorato”, dunque un’opera minore, della quale non si aveva notizia, dovuta al 
principale incisore allora attivo a Firenze!8. 

Non meno zelante fu l'interesse di Carlo di Tommaso per i due fratelli eccle- 
siastici, Alessandro (1583-1648) e Niccolò (1590-1655) — questi “Abate e Ca- 
nonico Fiorentino Ministro di S. Maestà Cristianissima alla Corte di Toscana, e 
nella Poesia molto ne suoi tempi stimato”! - dei quali il nobiluomo curò gran 
parte degli interessi relativi a proprietà fondiarie e rendite indivise, occupandosi 
anche di saldare per loro conto opere e oggetti d’arte ordinati per suo tramite. 

In questo specifico campo ne ebbero i laica il secondo dei congiunti per il 
quale Carlo comprava due ritratti antichi, trasmessi nel 1641?° - e una seconda effi 
ge nell’aprile del ’51, si dice d’un antenato illustre, Alessandro, vescovo di Volterra?! 
- ma, soprattutto, il primo, Alessandro, già vescovo di Andria, poi di San Miniato 


1 Ivi, n. 113, cc. 35v, 3 marzo 1645, primo pagamento al Montini; 36r, 8 marzo 1645, secondo 


pagamento all’artista e giorno di doratura della cornice, affidata a Orlando Gherardi che nell’aprile di 
quell’anno sarà incaricato della fattura di uno stemma con le armi Strozzi-Bonaccorsi e Strozzi-Caetani; 
ivi, c. 371. Al Gherardi verrà anche richiesto di dipingere, in un volume, le armi delle famiglie fiorentine 
che avevano sepoltura a Roma; cfr. ivi, c. 105, 11 gennaio 1648. Il pagamento al Montini del 3 marzo si 
veda anche in ivi, n. 114, Debitori e creditori di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 1642-1653, c. 815, 
3 marzo 1644; quello al Gherardi per lo stemma in ivi, c. 62d, 5 aprile 1645. 

5 Ivi, n. 113, c. 45, 4 settembre 1645. 

!6 Ivi, cc. 213, 3 ottobre 1651, “a Stefano della Bella a buon conto dell’intaglio che fa del fron- 
tespizio”; 214, 21 ottobre, “del rame e intaglio fatto per la conclusione della filosofia che deve tenere”; 
214v, 14 novembre, a saldo. 

7 Sullo stampatore, cfr. G. Schiavone, Massi, Amadore, voce in Dizionario Biografico degli Italiani, 
71, Roma, 2008, pp. 768-770. 

18 La collaborazione tra il Massi e il Della Bella è attestata dai frontespizi di alcune opere edite 
dallo stampatore, quasi sicuramente ricavate da intagli del grande incisore; cfr. ivi, p. 770. 

!° Cfr. ASFI, CS, III serie, n. 75/1 (L. Strozzi), Vite Degl'Huomini Illustri Della Famiglia degli 
Strozzi. Parte prima, c. 881. 

20. Ivi, IV serie, n. 110, c. 128, 19 settembre 1641. 

2! Ivi, n. 113, c. 198, 30 aprile 1651; ivi, n. 114, c. 233s, 26 marzo 1651. Alla morte del congiun- 
to fu cura di Carlo far realizzare allo scalpellino Alessandro Malavisti un epitaffio in marmo bianco da 
sistemare nella distrutta chiesa di Sant'Andrea a Firenze, luogo di sepoltura dell'abate, poi murato nell’e- 
difico nell’aprile del 1660; cfr. ivi, n. 115, Giornale e ricordanze di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 
1653-1663, cc. 73v, 29 luglio 1659, pagamento al Malavisti; 74v, 23 agosto, secondo pagamento per la 
lastra; 79r, 6 aprile 1660, sistemazione della ‘Ìmemoria in chiesa. 


201 


al Tedesco che ebbe col fratello un rapporto pressochè quotidiano, fatto di scambi 
di notizie su affari comuni e, come si è detto, di commissioni d’opere d’arte da lui 
ordinate. Tra queste si segnala un ritratto del vescovo stesso realizzato dal “Casini 
pittore” licenziato all'artista nel novembre del 1626°° - tuttavia non ricordato nel 
‘libro di bottega dei due pittori, conservato alla Biblioteca Moreniana di Firenze? 
-; un'effige du granduca Ferdinando II richiesta al pittore Giulio Bernini nel giu- 
gno del ‘34°; una Madonna “antica” speditagli da Roma nel dicembre del ’38”; 
un ritratto di Filippo di Filippo Strozzi, sempre dovuto al Bernini, nel novembre 
del ’41°°; la copia d’una effige del poeta Giovan Battista Strozzi nell’agosto del ’42, 
al pari opera di questo maestro”, nonché, di sua mano, anche un “quadro di frut- 
ta” consegnato l’anno successivo”; infine un importante pastorale in argento (non 
rintracciato) che nel settembre del 1646 Carlo provvedeva ad ordinare e pagare 
all’orafo Michelangelo Targioni??. Ed anche in occasione del decesso del vescovo, 
avvenuto il 27 agosto del 164859, Carlo non mancò di voler mantenere traccia del 
suo ruolo di capo della chiesa sanminiatese provvedendo a far realizzare una ‘me- 
moria’ da sistemare in quel duomo, commissionata allo scultore Alessandro Mala- 
visti nel luglio del ’51', non più esistente. A questo scultore lo Strozzi ordinava poi, 
due anni dopo, anche l'esecuzione di un’“arme delli Strozzi di marmo” da collocare 
“sopra un arco [arca] della nostra famiglia posto nel cimitero di detta chiesa [Santa 
Maria Novella] vicino alla porta del fiancho rimurata, che è nel chiuso della Com- 
pagnia di S. Benedetto”? - non più in loco per la demolizione di quell’area -, come 
era sua cura provvedere, sempre nel 1653, alla sostituzione d’alcuni vetri della “fi- 
nestra” nella cappella di famiglia in basilica, intitolata a San Tommaso d'Aquino. 
Il 21 gennaio 1637 lo Strozzi, nel frattempo nominato dal parente Giovan Battista 
di Filippo - deceduto nel febbraio dell’anno avanti?‘ - tutore del figlio ed erede 


2 


22 Ivi, n. 107, Debitori e creditori e ricordi di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 1614-1630, cnn, 
alle date 20 e 23 novembre. Il pagamento anche in ivi, n. 112, c. 69. I Casini ebbero modo di lavorare 
anche per un altro esponente di Casa Strozzi, per Giovan Battista, ritratto con la famiglia in una tela 
documentata al 1626 e oggi presso i Guicciardini: su questa, cfr. L. Goldenberg Stoppato, Per Dome- 
nico e Valore Casini, ritrattisti fiorentini, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 
XLVIII, nn. 1-2, 2004, p. 170, fig. 5. 

23. Firenze, Biblioteca Moreniana, Fondo Bigazzi, ms. n. 74, segnalato da L. Goldenberg Stoppato, 
M. P. Mannini, Domenico e Valore Casini, ritrattisti: un giornale di bottega ritrovato, in Scritti per l’Istituto 
Germanico di Storia dell'Arte di Firenze, a cura di C. Acidini Luchinat et al., Firenze, 1977, pp. 349-354: 
si veda anche Goldenberg Stoppato, Per Domenico, cit., p. 165. 

2 ASFI, CS, IV serie, n. 109, cnn, 26 giugno 1634. Nei registri dell’Accademia del Disegno l’ar- 
tista è presente, con vari ruoli, dal 1599 al 1653; cfr. Zangheri, Gli Accademici, cit., p. 33. 

% ASFi, CS, IV serie, n. 110, c. 55, 25 dicembre 1638. 

26 Ivi, c. 131. 

27. Ivi, n. 113, c. 8r, 24 agosto 1642. 

28. Ivi, c. 15v, 18 agosto 1643. 

29. Ivi, cc. 66, 18 settembre 1646, acconto; 80, 22 marzo 1647, a saldo. 

30. Ivi, c. 122. 

Ivi, cc. 206, 15 luglio 1651, pagamento al Malavisti; 207, 10 agosto, secondo pagamento; 208, 
26 agosto, terzo pagamento; 211, 9 settembre, ulteriore acconto e 18 novembre, a saldo. 

32 Ivi, n. 116, Debitori e creditori di Carlo di Tommaso Strozzi, 1652-1662, c. 27, 15 dicembre 1653. 

33 Ivi, n. 115, c. 10v. 

84. Cfr. Guerrieri Borsoi, Gli Strozzi a Roma, cit., p.16. Anche Giovan Battista fu un appassionato 


202 


Luigi”, si trasferiva a Roma assieme alla moglie Virginia, ai quattro figli e a quattro 
servi per curarne gli interessi e per difenderlo in diverse cause relative alla complessa 
successione paterna*°. Arrivato nell’Urbe, Carlo prendeva casa presso la chiesa del 
Gesù, in affitto da Vincenzo Pasquali, percependo per questo suo incarico, come 
stabilito, una somma di 1200 scudi l’anno oltre il rimborso delle spese di viaggio 
sia d'andata come di ritorno”. 

A Roma, nei tre anni e mezzo di permanenza (gennaio 1637 - giugno 1640), 
Carlo ebbe modo di dare pieno sfogo alla propria sete collezionistica, soprattutto 
di antichità? - come ci raccontano i documenti e come vedremo —, per quanto 
anche gli anni fiorentini precedenti il suo trasferimento nell’Urbe, il quindicen- 
nio 1623-1637, non furono certo meno importanti nel definirne gli interessi 
culturali. In questo periodo sono infatti da ricordare i numerosi acquisti di di- 
pinti fatti presso gli Ufficiali dei Pupilli? o alcuni privati*° ma anche la ricerca di 
manoscritti - e iniziale della sua leggendaria collezione di codici” - come di 


collezionista di pittura fiorentina: si veda, in proposito, cadem, // collezionismo di Giovan Battista Stroz- 
zi, marchese di Forano, a Firenze nel primo Seicento, in “Bollettino d’arte”, 130, 2004, pp. 85-98. 

8. Eadem, Gli Strozzi a Roma, cit., p. 19. 

3 Cfr. B. Paolozzi Strozzi, «La nostra casa grande». Il palazzo e gli Strozzi: appunti di storia dal Quattro 
al Novecento, in Palazzo Strozzi. Cinque secoli di arte e cultura, a cura di G. Bonsanti, Firenze, 2005, p. 90. 

87. ASFI, CS, IV serie, n. 110, c. 1. Numerosi furono gli esponenti di Casa Strozzi attivi a Roma, 
con vari incarichi, in questi primi decenni del Seicento e in seguito. In proposito si veda l'ampia disa- 
mina degli Strozzi che abitarono e operarono nella Città Eterna a firma di Paolozzi Strozzi, «La nostra 
casa grande», cit., pp. 78-93. Si veda anche il caso di Piero di Vincenzo Strozzi, nell’Urbe dal 1601 ed 
organico alla corte papale: su di lui, cfr. D. Pegazzano, Strozzi (Piero di Vincenzo), in Quadrerie e com- 
mittenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, 3, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. 
Spinelli, Firenze, 2019, pp. 51-68. 

38. La consistenza della raccolta di “anticaglic” messa assieme da Carlo (soprattutto iscrizioni, mo- 
nete, medaglie, cammei), il suo l’interesse per l'editoria erudita e le sue principali fatiche quale autore 
di storia locale, la passione per le ricerche storico-genealogiche sulla famiglia d'appartenenza, su altre 
casate cittadine, sugli stessi Medici come la sua vocazione collezionistica sono ben attestate dalle parole 
del figlio Luigi, che ne fu il primo biografo [se ne veda la ‘vita in ASFi, CS, II serie, n. 75/1 (L. Strozzi), 
Vite Degl’Huomini Ilustri, cit., cc. 87r-94v, biografia corredata anche da un ritratto a matita, di mano 
anonima (c. 87r)] (Fig. 1). In proposito, sulla levatura intellettuale di Carlo di Tommaso, si vedano 
anche le puntuali riflessioni di S. Salvini, Fasti consolari dell’Accademia Fiorentina, Firenze, 1717, pp. 
461-472. 

9 I “Pupilli”, una magistratura creata nel 1393 aveva come finalità quella di tutelare i minorenni 
il cui padre fosse morto senza nominare un tutore, e le vedove, soprattutto per quanto riguardava la sal- 
vaguardia dei loro beni e le esecuzioni testamentarie. Presso i Pupilli si comprarono in quegli anni uno 
studiolo intarsiato e quattro cassoni dipinti: ASFi, CS, IV serie, n. 109, cnn, in data 31 dicembre 1622; 
ivi, n. 112, c. 28; un desco da parto antico, ivi, n. 112, c. 28, 13 settembre 1625; un quadretto “antico” 
con la figura di Santo Stefano identica a quella gettata in bronzo da Ghiberti per una delle nicchie di 
Orsanmichele, ivi, n. 109, cnn, 27 giugno 1636. 

4° Tra questi un tabernacolo con una “Madonna antica”; ivi, n. 109, cnn, 1 marzo 1634; ivi, n. 112, c. 94. 
I primi acquisti dei quali si ha notizia nei registri di spesa del collezionista risalgono al 1623: 
cfr. ivi, n. 109, cnn, 18 maggio 1623 e 13 febbraio 1634, due manoscritti “in cartapecora” con testi di 
San Girolamo; 23 marzo 1634, tre manoscritti con la “storia” di Vallombrosa, di Pisa e un testo di Ari- 
stotele; 27 giugno 1634, si fanno rilegare alcuni volumi; novembre 1634, si comprano dei manoscritti, 
tra i quali uno con la ‘vita’ di Savonarola; 10 maggio 1635, due manoscritti greci; 28 settembre 1635, 
due “libri greci in cartapecora”; 27 giugno 1636, libri in spagnolo, in francese, un “Petrarca mano- 
scritto”, testi di Scipione Ammirato sulle famiglie fiorentine; 20 settembre 1636, alcuni manoscritti; 1 


4l 


203 


antichità”, una passione sicuramente attivata anche dal viaggio fatto da Strozzi 
a Roma per il Giubileo del 1625* e da altri soggiorni nell’Urbe, uno del marzo 
del ’27‘4, l’altro, semestrale, del dicembre 1635 - giugno ’36‘, nel corso dei quali 
il fiorentino non mancò di fare acquisti di medaglie, monete, varie “anticaglie”, 
iscrizioni e lapidi, provvedendone le licenze per la loro “cavatura” e per il traspor- 
to a Firenze". 

Nel novero delle commissioni di opere d’arte appositamente ordinate da Carlo, 
invece, e riferibili al ‘primo periodo’ fiorentino (sè detto 1623 - 37), si data al 
1632 l'ordinazione di un grande albero genealogico su tela della famiglia Strozzi da 
regalare al parente Giovan Battista di Filippo, da trasmettere a Roma, pagando per 
questo il pittore Orlando Gherardi che nella primavera del 1635 veniva inviato 
nell’Urbe forse per consegnare il manufatto”, ricevendo nel mese di maggio, rien- 
trato in Toscana dalla Città Eterna, anche il compenso per aver dipinto in un libro 
le armi dei Podestà, dei Capitani del Popolo e di altri Ufficiali “stranieri della città 
di Firenze”*°. Altri artisti impiegati da Carlo di Tommaso in questi anni furono poi 
il già ricordato Giulio Bernini che tra il settembre e il novembre del 1635 risultava 
compensato per un altro albero genealogico degli Strozzi?°, e Raffaello Gherardi, 
figlio del sopra citato Orlando e le cappuccino, impegnato dal marzo 1634 alla 
fattura delle armi di un ‘Priorista’ da destinare sempre a Roma”. 

Contemporaneamente all'impiego di questi artefici, oggi pressochè scono- 
sciuti, tuttavia ripetutamente presenti nei conti di Strozzi, diremmo quasi artisti 
‘di casa, Carlo di Tommaso non mancò di praticare anche maestri di ben altra 
levatura: tra questi un “Giovanni da Montevarchi”, da riconoscere probabilmente 
in Giovanni Martinelli”, del quale il nobiluomo acquisiva nel luglio del 1636 
un dipinto con una Santa Caterina d'Alessandria procuratogli dal pittore Giulio 
Bernini, per questo pagato in rate mensili fino al luglio del 37°. Una tela del ma- 


ottobre 1636, testi greci “manoscritti in cartapecora”. Altri acquisti di testi, soprattutto storici, alcuni 
manoscritti, altri con importanti legature, si vedano in ivi, n. 112, cc. 46, gennaio 1625, manoscritti di 
Marziale, le ‘Vite’ di Plutarco, codici greci in cartapecora; 129, 160. 

4 Si vedano gli acquisti di monete e medaglie antiche, comprate dall’orefice Matteo Bracciolini, 
ivi, n. 109, cnn, 13 luglio 1634; altre dodici medaglie antiche e un sigillo, idem, 20 settembre 1634. 

4 Ivi, n.112, c. 50. 

Ivi, c 75. 

4 Ivi, n. 109, cnn. 

4° Ivi, n. 112, c. 161; ivi, n. 109, cnn, giugno 1636. 

4 Ivi, n. 112, c. 89, 15 ottobre 1632. 

48. Ivi, cc. 89, 149, 23 marzo 1635. Si veda anche ivi, n. 109, cnn, alla data. 

4 Ivi, n. 112, c. 149, 20 maggio 1635. 

5 Per l’opera venne fornita all’artista, nel settembre di quell’anno, una tela “di braccia 6” di 
larghezza per “braccia 4 e 1/6” di altezza (cm 350x240 ca); cfr. ivi, c. 155. I pagamenti al Bernini per 
l’opera si registrano l’8 ottobre, il 10 e il 15 novembre 1635. Cfr. anche ivi, n. 109, cnn, 8 luglio 1634. 
A questo manufatto sembrerebbe alludere anche l’arcidiacono Luigi, figlio di Carlo, nella biografia del 
genitore; cfr. ASFi, CS, III serie, n. 75/1 (L. Strozzi), Vite degl'Huomini Illustri, cit., c. 90v. 

5! Ivi, IV serie, n. 112, c. 129, 23 marzo 1634; ivi, n. 109, cnn, alla data. Notizie sul pittore, 
presente in Accademia tra il 1594 e il 1653, in Zangheri, Gli Accademici, cit., p. 150. 

52. ASFi, CS, IV serie, n. 112, c. 161. 

53. Ivi, n. 109, cnn, 16 luglio 1636, primo pagamento; 12 ottobre 1636, secondo pagamento; 28 no- 
vembre 1636, terzo pagamento; 23 dicembre 1636, altro pagamento. Alcuni di questi compensi si vedano 


204 


estro con questo soggetto (Fig. 2), di formato ottagonale, di bella qualità e d’uno 
stile corrispondente a quello manifestato da Martinelli del quarto decennio del 
Seicento (soprattutto nella qualità ‘minerale’ del mantello rosso, come intagliato 
in un prezioso rubino), conservata in una collezione privata, è stata recentemente 
pubblicata da Sandro Bellesi”: non è escluso, viste queste caratteristiche, che 
possa trattarsi del dipinto voluto dal nostro collezionista. 

Nei mesi di poco precedenti la trasferta romana lo Strozzi ebbe poi modo di 
coinvolgere nelle sue commissioni altri due maestri del Seicento fiorentino, Jaco- 
po Vignali e Carlo Dolci. 

Al primo ordinò numerose opere che impegnarono l’artista, assieme alla bot- 
tega, per almeno due anni”: inizialmente una prima serie di ritratti — effigi di 
santi e di fiorentini illustri in politica come nelle arti, considerato l’interesse per 
la storia locale manifestato dal committente anche dall’acquisto di specifici ma- 
noscritti e testi a stampa — pagati al Vignali per conto dei “suoi giovani” nel luglio 
del 1636, in quell'occasione per un San Giovanni Gualberto e un Sant'Antonino”: 
“giovani” tra i quali ritroviamo il Bernini”, “Carlino” Dolci, un misterioso “Piero 
giovane del medesimo Vignali”?, un quarto artista, “un Pittore del Signor Nic- 
colò della Luna” che ebbe l’incarico di realizzare il ritratto dello scrittore “Zanobi 
da Strada”. Da due pagamenti rilasciati al Vignali 1'11 agosto e il 13 settembre 
del 1636 sappiamo che la serie, la prima di due, era composta da diciassette effigi, 
prevalentemente opera dei ragazzi di bottega (per questo pagati dieci scudi per 
ritratto), e che venne inviata a Roma, assieme ad altre tre tele (per un totale di 
venti pezzi), il 20 settembre di quell’anno®, serie che non sappiamo se prodotta 


anche in ivi, n. 112, c. 164, con versamenti alle date 10 ottobre, 28 novembre, 23 dicembre 1636, 6 gennaio, 
13 luglio 1637. Alla fine di dicembre del ’36 si era poi procurato del taffettà per fare una “coperta” al dipinto 
ed a una tela, probabilmente nata a pendant, una Santa Maria Maddalena della quale però non vengono 
indicati né l’autore, né le misure e il formato; cfr. ivi, n. 112, c. 171. Una Santa Maria Maddalena attribuita 
a Martinelli, di formato rettangolare, è stata resa nota da G. Pagliarulo, ‘Pauci iniuste notus”: per Giovanni 
Martinelli disegnatore, in Giovanni Martinelli da Montevarchi pittore in Firenze, Firenze, 2011, p. 135, fig. 23. 

5% Cfr. S. Bellesi, Pittura e scultura a Firenze (secoli XVI-XIX), Firenze, 2017, p. 48, fig. 7. La tela 
misura 87,5x73 cm. 

5. Il rapporto di preferenza di Strozzi per Vignali è ricordato anche da S.B. Bartolozzi, Vita di 
Jacopo Vignali pittor fiorentino, Firenze, 1753, p. XXIX. 

9 ASFI, CS, IV serie, n. 109, cnn, 21 luglio 1636, “a Jacopo Vignali Pittore scudi venti per dipin- 
tura e tela di due Ritratti di San Giovanni Gualberto e di Sant'Antonino fatti dipignere da suoi giovani”. 

57. Ivi, cnn, 9 agosto 1636, “a Giulio Bernini Pittore scudi sei portò contanti a conto di tele e 
Ritratti da farsi”; 23 agosto 1636, “scudi 6.6.8 a Giulio Bernini Pittore a conto de Ritratti”. Altro paga- 
mento il 29 agosto, sempre “a conto de’ Ritratti che fa fare”. 

58. Ivi, cnn, 2 settembre 1636, “scudi trentacinque che scudi 7 a Carlo giovane del Vignali a conto 
di Ritratti e scudi 26 dati a Piero giovane del medesimo Vignali per la stessa causa”. 

Ivi, cnn, 11 settembre 1636, “scudi dodici a un Pittore del Signor Niccolò della Luna per pit- 
tura del Ritratto di Zanobi da Strada”. 

6 Ivi, cnn, 11 agosto 1636, “a Jacopo Vignali Pittore scudi trentacinque a buon conto di tele e 
più Ritratti che fa fare in bottega sua portò detto contanti”; 13 settembre 1636, “scudi ottanta a Jacopo 
Vignali Pittore per resto di pittura di 17 Ritratti fatti fare a suoi giovani scudi 10 l’uno portò detto 
Vignali contanti”. 

6! Ivi, cnn, alla data. La somma erogata da Strozzi per questa serie di tele, circa 190 scudi, ben cor- 
risponde a quanto pagato per i diciassette ritratti, costati, come si è detto, dicci scudi l'uno. La differenza 
è probabile sia dovuta al compenso corrisposto al capo bottega. 


205 


per Strozzi stesso — vistane la passione per la storia cittadina e gli interessi gene- 
alogici — oppure destinata ad un altro personaggio della famiglia, ben di 
nella Città Eterna, 0, ancora, ad altro cultore di memorie s- toscane. 

Una seconda serie di effigi, sempre dovuta al Vignali e alla bottega, ma con 
una più chiara partecipazione del maestro — come si evince dai pagamenti — prese 
il via il 22 ottobre del ’36: anche in questo caso i compensi i erogati, in 
parte, attraverso il Dolci “a buon conto di più ritratti si fanno in bottega di detto 
Vignali”, altri corrisposti direttamente al capo bottega nei mesi successivi - ad 
opera del fiduciario ci. di Carlo di Tommaso, Cosimo degli Albizzi, che 
provvedeva le spese per suo conto, stando l’assenza da Firenze del committente 
- e fino al dicembre del 1637°% quando anche questo secondo gruppo di dipinti 
(quattordici ritratti) veniva inviato a Roma, presso lo Strozzi. Non è escluso che 
a uno di questi due gruppi di effigi possa riferirsi una lettera conservata alla Bi- 
blioteca Nazionale Centrale di Firenze, datata 13 giugno 1637 e scritta da Vignali 
a Carlo Strozzi - segnalata da Anna Barsanti a Giovanni Pagliarulo, e da questi 
resa nota - nella quale si alludeva appunto ad alcuni ritratti fatti in bottega, 
pagati per mandato di Strozzi dal suo fiduciario fiorentino. 

Nel corso di quell’anno il Dolci, a evidenza particolarmente attivo nell’orga- 
nizzare il lavoro per conto del maestro — a Carlino veniva espressamente pagato 
il 22 ottobre del 1637 il saldo di un Ritratto di Francesco Ferrucci, il condottiero 
della Firenze repubblicana eseguito per la seconda serie” -, riceveva da Carlo 
Strozzi anche una gratifica speciale, “quattro fiaschi di vino e due caci marzolini” 
regalati “per gratitudine di più fatiche durate a richiesta mia”. 

Ma l'impegno di Vignali con Carlo di Tommaso non si limitò a questa dupli- 
ce serie di effigi, sè detto di ‘uomini illustri’ — genere caro al committente, come 
mostrano ine altri acquisti sul mercato d’opere con tale soggetto’ — ma vide 
cimentarsi il maestro anche in due tele di composizione: la prima, raffigurante 
l'Istituzione dei Buonomini di San Martino — soggetto caro alla famiglia Strozzi 


6 Ivi, cnn, alla data. 


Ivi, con, 13 novembre 1636, “scudi cinquantasei a Jacopo Vignali Pittore a conto de’ Ritratti e 
Pitture che fa lui e suoi giovani portò contanti”; 1 dicembre, 70 scudi al Vignali “a conto di pitture”; 12 
dicembre, scudi 49 al Vignali “a conto di pitture”; 9 gennaio 1637, scudi 63 “a Jacopo Vignali Pittore a 
conto di più Pitture che fa portò contanti”. 

6 Ivi, n. 111, Entrata, uscita e ricordi di Carlo di Tommaso Strozzi, 1637-1640 (tenuto da Cosimo 
degli Albizzi per conto di Carlo di Tommaso), cnn, 6 ottobre 1637, sei scudi “a Jacopo Vignali Pittore 
a conto di lavori, che fa per detto signor Carlo”; 17 dicembre 1637, dieci scudi a “Jacopo Vignali per 
ritratti fatti per mandare a Roma portò un suo giovane”; 22 ottobre 1637 altro pagamento al Vignali da 
parte di Carlo, di 14 scudi, “a conto di ritratti fatti e da fare”. 

6 Cfr. G. Pagliarulo, in // Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, catalogo della 
mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 21 dicembre 1986 - 4 maggio 1987), Biografie, Firenze, 1986, p. 186. 

6 ASFi, CS, IV serie, n. 112, c. 171, 22 ottobre 1637, a “Carlino Dolci che sta in bottega con il 
Vignali, per parte di prezzo di un ritratto di Francesco Ferrucci”. Lo stesso pagamento in ivi, n. 111, 
cnn, 22 ottobre 1637, “a Carlino, giovane del Signor Jacopo Vignali per quello restava creditore per 
ritratti fatti sono l’anno passato”. 

7 Ivi, cnn, 23 dicembre 1637. 

6 Ivi, n. 112, c. 170, 19 gennaio 1637; ivi, n. 109, cnn, 19 gennaio 1637. 

9 Indicativo l'acquisto, mediato dal pittore Bernini, di un dipinto su tela dove erano ritratti sei 
illustri poeti fiorentini; cfr. ivi, n. 109, cnn, 6 gennaio 1637, e ivi, n. 112, c. 170. 


63 


206 


dal momento che un esponente della casata, Francesco, figurò tra i dodici citta- 
dini fiorentini che dettero vita a questo sodalizio, ritratto anche da Michelangelo 
Cinganelli in una delle lunette del primo chiostro in San Marco” -, venne paga- 
ta all’artista (sempre dal fiduciario Cosimo degli Albizzi) nel marzo del 1637 e 
prontamente inviata a Roma”; la seconda, A di un dipinto con Agar, saldato 
al pittore e già in viaggio per l’Urbe nel maggio del ’387. 

Di questo soggetto, ricordato dal biografo Bartolozzi”, sono state ricono- 
sciute come di mano del Vignali alcune redazioni, oggi in collezioni private o 
sul mercato antiquario”, due delle quali datate rispettivamente 1630 e 1632”, 
dunque troppo precoci, come cronologia, per poter essere identificate con la tela 
voluta da Strozzi che rimane, al momento, da rintracciare. 

Il triennio trascorso da Strozzi a Roma in qualità di fiduciario del parente Gio- 
van Battista e del suo erede fu poi fecondo anche sul piano degli acquisti di opere 
su quella piazza — la principale, nell'Europa del tempo, per il commercio di reperti - 
che andarono ad implementare la consistente raccolta di antichità già presente nella 
casa di Firenze: nel febbraio del ’37, poche settimane dopo l’arrivo nell’Urbe, ve- 


7° Sulla lunetta, realizzata nel 1613, cfr. R. Caterina Proto Pisani, // ciclo affrescato nel primo chio- 


stro di San Marco: una galleria della pittura fiorentina del Seicento, in La chiesa e il convento di San Marco 
a Firenze, 2 voll., Firenze, 1990, II, p. 330, fig. 16. 

7" Se ne veda il pagamento in ASFI, CS, IV serie, n. 111, cnn, 26 marzo 1637, “Al Signor Jacopo 
Vignali pittore scudi trentacinque. 4 portò detto contanti, sono per resto d’una pittura d’un quadro da 
mandarsi a Roma, che è l’institutione de Buoni huomini di S. Martino di questa città, tutto d’ordine 
di detto signor Carlo”; due giorni dopo la tela veniva imballata e spedita nell’Urbe, ivi, cnn, 28 marzo. 
Memorie del trasferimento della tela a Roma, provvista per l'occasione di un nuovo telaio, e del paga- 
mento al Vignali, sono anche in ivi, n. 110, c. 8, 19 aprile 1637 (spedizione del dipinto), 22 aprile 1637 
(a “Jacopo Vignali Pittore e altre spese fatte nel quadro fatto fare dell’Historia di S. Antonino”). 

7 I pagamenti sono in ivi, n. 112, c. 171, 17 maggio 1638, pagamento della gabella per un 
quadro “d’una Agar dipinta da Jacopo Vignali Pittore e mandatami a Roma dal Signor Cosimo degli 
Albizzi”; 21 maggio 1638, scudi 20 “portò contanti Jacopo Vignali Pittore per resto di scudi 30 della 
Pittura del sopra detto quadro”. Gli stessi pagamenti in ivi, n. 111, cnn, 17 e 21 maggio. Una volta 
tornato a Firenze con il committente il dipinto venne nuovamente incorniciato; cfr. ivi, n. 114, c. 41d, 
20 settembre 1642; ivi, n. 113, c. 9r. 

7. Ricordata da Bartolozzi, Vita di Jacopo Vignali, cit., p. XII, il quale informa che le redazioni di 
questo tema realizzate dall’artista furono ben quattro, volute da Giovan Francesco Grazzini, dal cardi- 
nale Giovan Carlo de’ Medici, da Agnolo Galli e da Carlo Strozzi, quest'ultima consegnata dal pittore al 
fiduciario fiorentino del gentiluomo, Cosimo degli Albizzi, e da questi, come si è detto, inviata a Roma. 

7 In proposito, cfr. G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole, 1983, 
pp. 142-143 (cita quattro versioni: la prima, firmata e datata 1632, a Firenze, in collezione Mannucci 
Benincasa Capponi; la seconda in una collezione privata fiorentina; la terza già presso Colnaghi, fir- 
mata e datata 1632; la quarta ad Aguston House); idem, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento. 
Aggiornamento, 2 voll., Pontedera, 2009, vol. I, pp. 193, 195 (cita due versioni, quella datata e firmata 
1632, la seconda ad Aguston House); E. Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze. Indice degli Artisti e 
delle loro Opere, Torino, 2009, p. 708, 710 (cita la versione in collezione Mannucci Benincasa Capponi, 
datata 1630, e quella già Colnaghi, poi Christie’, siglata e datata 1632); S. Bellesi, Catalogo dei pittori 
fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e opere, 3 voll., Firenze, 2009, I, pp. 270, 271 (cita la versione già 
Mannucci Benincasa, firmata e datata 1630, una seconda in collezione privata a Firenze, la terza già 
Colnaghi firmata e datata 1632, una quarta a Pensa, in Russia). 

Su queste si veda, in specifico, G. Pagliarulo, Jacopo Vignali e gli anni della peste, in “Artista. 
Critica dell’arte in Toscana”, 1994, pp. 138-198 (in particolare pp. 166-171). 


207 


Riccardo Spinelli 


diamo il nobiluomo assicurarsi dei “marmi antichi”, non meglio specificati, e delle 
medaglie che venivano sistemate in uno stipetto comprato da un mercante ebreo”. 
Una cadenza mensile prendevano poi anche le acquisizioni di volumi manoscritti, 
alcuni fatti rilegare, per i quali si provvedeva a far fare scaffali dove conservarli: nei 
mandati di pagamento si parla delle opere di Baronio, di un manoscritto con la 
Storia di Pisa di Matteo Palmieri, di due manoscritti del Varchi, di un volume sulla 
Storia del Concilio di Trento, di un altro di Omero, illustrato, di altri testi, generici 
nel contenuto”. Ai volumi, la maggior parte dei quali manoscritti, si ili 
poi, in quel periodo, pagamenti per alcuni album “in folio” di stampe con vedute 
di Roma antica’ e, soprattutto, per reperti archeologici, questi sempre più diversi- 
ficati nei generi: medaglie anche in metalli preziosi (“giuli antichi di diversi papi”); 
iscrizioni latine e “cassette” in marmo®’; teste, sempre in marmo (si pagano una 
“statua antica” e un “busto moderno di Ercole” e si restituiscono al mediatore una 
testa “di Traiano, senza petto” e quella di un “Giove, d’alabastro trasparente antica 
senza petto”)®; bronzetti (una statuetta di Ercole, un “Faunetto”)*; frammenti di 
“smalti antichi”; marmi archeologici di diversa specie e colore destinati ad ope- 
re di commesso*“, oggetti molti dei quali procurati dal “cavatore” Pierantonio da 
Modena - che fu per Strozzi tra i principali fornitori — e “rassettati”, soprattutto le 
teste, da Francesco Ricci*° avanti le loro spedizioni a Firenze®” fatte in procinto del 
ritorno del nobiluomo e della famiglia nella città del Giglio. 

Negli anni romani, tuttavia, il collezionista non mancò di intrattenere anche 
rapporti con la piazza fiorentina (lo si è visto nel caso di Vignali), procedendo in 
quel caso ad acquisti di opere quali un Ritratto di Dante Alighieri, dei quadretti 
miniati e dei piccoli Crocifissi in argento per farne dono natalizio ai figli*, due 
ritratti di Cosimo I e della duchessa Eleonora avuti da Bernardino Capponi, già 


nella sua villa di Montughi, commissionando invece nell’Urbe le effigi di Urbano 
VII e del cardinale Barberini89. 


76 Cfr. ASFi, CS, IV serie, n. 110, cc. 2, 4. 

7. Si vedano i pagamenti in ivi, alle cc. 7, 21, 26, 29, 30. 

78. Ivi, c. 16, 22 agosto 1637. 

7? Ivi. cc. 52, 22 novembre 1638; 81, 13 gennaio 1640; 84, 20 febbraio 1640. 

80 Ivi, cc. 28, 29, 30, 48, 50, 70, 77. 

8! Ivi, c. 88, 23 aprile 1640. 

82 Ivi, c. 57, 14 febbraio 1639. 

8 Ivi, c. 66, 1 agosto 1639. 

84 Ivi, c. 75, 5 novembre 1639. 

8 Ivi, c. 36, 25 luglio 1638. 

86 Ivi, cc. 85, 13 marzo 1640, si “rassetta” una testa antica facendogli il busto; 91, 16 maggio 
1640, si fa il petto a una Zesta di Traiano; 93, 1 giugno 1640 il Ricci è pagato per il restauro di una testa 
di Giove Capitolino, una di Nerone giovanetto e per aver rifatto la testa a una figura di piccole dimensioni. 

# Alcuni invii in Toscana, al domicilio fiorentino di Strozzi, si registrano già nel 1638; cfr. ivi, 
c. 30, 9 maggio 1638, si inviano quattro casse “di anticaglie” comprate a Roma; 89, 28 aprile 1640, si 
fanno caricare su una fregata diretta a Livorno sei casse con “diverse anticaglie di marmo” che arrivano 
a Firenze il 27 giugno; ivi, c. 98. Altre cinque casse raggiunsero la città il 3 luglio: ivi, c. 98; altre sette 
il 7 luglio, ivi. c. 99. Cfr. anche ivi, n. 111, cnn, 7 giugno 1638. 

88 Ivi, n. 110, cc. 28, 3 aprile 1638; 79, 15 dicembre 1639. Per il ritratto di Dante, cfr. anche ivi, 
n. 112, c. 171, 2 aprile 1638; per i crocifissi, cfr. ivi, c. 212, 15 dicembre 1639. 

8 Ivi, n. 112, c. 205, 7 luglio, 22 settembre 1640. 


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Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell'Archivio di Stato di Firenze 


Come sappiamo il 6 giugno del 1640 Carlo di Tommaso, appianati i proble- 
mi ereditari del suo protetto, lasciava l’Urbe e rientrava in Toscana continuando 
quella campagna di acquisti di opere d’arte che aveva caratterizzato il ‘primo 
tempo’ fiorentino, equamente divisa tra commissioni specifiche e incursioni sul 
mercato: tra le prime, ancora dipinti della collezione di Bernardino Capponi (un 
“ritratto a tre figure”)?°, da un semplice materassaio che gli cedeva, nel settembre 
del 1641, due ritratti antichi di un uomo e di una donna”, così come dai Pupilli 
(una “Madonna in tondo”; un tondo antico “da parto”; una “testa di pietra” e 
due “teste di marmo a Bassorilievo”, un quadro antico con una “Nunziata”, un 
altro dipinto con la “Notte”, due ritratti su tavola, un Crocifisso in legno con croce 
in ebano)? e, dagli stessi, dieci sgabelli per “esporre le statue”, li delle quali 
comprate a Roma”, commissionando invece a Giulio Bernini alcuni ritratti di 
famigliari, di Rosso, Ubertino, Lorenzo e Vincenzo Strozzi”. 

Nel maggio del 1642 lo vediamo acquistare cinque ritratti su tavola di fiorentini il- 
lustri quali Farinata degli Uberti, Leone Strozzi, Dante, Petrarca, Marsilio Ficino, altri 
sette ritratti di “uomini illustri su tavola” con cornice”? — a implementare questa per- 
sonale ‘serie gioviana’, specchio evidente dei suoi interessi intellettuali -, ancora una 
Madonna antica “tirata sull'asse”, un “chiaroscuro di Taddeo Gaddi”? (che saranno 
poi aggiustati dal Bernini)”, un ritratto antico “creduto di Botticelli” presso Mariotto 
da Gagliano”, un'ulteriore tavola antica di una Madonna col Bambino pagata a Giulio 
Alberto Pesci nel gennaio del 1644”, un quadretto con San Giovannino, nel dicembre 
di quell’anno!®, un ritratto del duca Giovanni Federico di Sassonia due anni dopo!®!. 
Un altro artista che ebbe poi l’attenzione dello Strozzi in questi anni fu Giovan Bat- 
tista Cartei!°, pagato una prima volta nell’aprile del 1639 e una seconda nel 1642 
per lavori non meglio specificati'. In quel periodo fu poi per iniziativa di Carlo che 
giunse a Firenze, LA Roma, nel 1642, la “testa a mosaico” con l’effige di Alessandro 
Barbadori da sistemarsi in Santa Felicita, nella cappella di quella famiglia'**, opera di 
Marcello Provenzale e ancora oggi visibile nella chiesa fiorentina, mosaico voluto dai 
Barberini - nello specifico dal cardinale Francesco, nipote di Urbano VIII - in quanto 
eredi del nobiluomo, ultimo del suo ramo!°. 


9 Ivi, n. 110, c. 105, 22 settembre 1640. 

9 Ivi, c. 128; ivi, n. 112, c. 226. 

9 Ivi, n. 110, cc. 109, 11G; ivi, n. 112, c. 226, aprile, luglio 1640; ivi, n. 114, cc. 141s, 233s; ivi, 
n. 113, cc. 97, 102, 149. 

9 Ivi, n. 110, c. 123, 9 luglio 1641. 

% Ivi, c. 117; ivi, n. 112, c. 226, 24 aprile 1641; ivi, n. 110, c. 117, 24 aprile 1641. 

9 Ivi, n. 113, cc. 4r, 51, 28 maggio, 17 giugno1642; gli stessi pagamenti in ivi, n. 114, c. 215, 17 
giugno 1642. 

9% Ivi, n. 113, c. 5r, 17 giugno 1642. 

9 Ivi, n. 114, c. 4ld, 24 agosto 1642; ivi, n. 113, c. 8r. 

98. Ivi, n. 113, c. 14r, 19 marzo 1643; ivi, n. 114, c. 46d. 

9 Ivi, c. 21v, 18 gennaio 1644. Lo stesso pagamento in ivi, n. 114, c. 62s. 

100. Ivi, n. 113, c. 32v, 30 dicembre 1644; ivi, n. 114, c. 62d, in data. 

!0! Ivi, n. 113, c. 58, 5 aprile 1646. 

102 Presente nei registri dell’Accademia dal 1630 al 1653; cfr. Zangheri, Gli Accademici, cit., p. 70. 

10 ASFi, CS, IV serie, n. 110, c. 9; ivi, n. 114, c. 10s. 

10 Ivi, n. 113, c. 7v, 5 agosto 1642. 

105 Sull’opera cfr. F. Fiorelli Malesci, La chiesa di Santa Felicita a Firenze, Firenze, 1986, pp. 165-169. 


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Riccardo Spinelli 


Negli anni a seguire gli indirizzi collezionistici di Carlo di Tommaso si attesta- 
rono sulla linea stabilita in gioventù: questi ricorse ancora ai Pupilli per rifornirsi 
di quadri antichi! mentre dal mercato artistico cittadino arrivarono in collezio- 
ne due Vedute di “Pisa e contado” e di “Livorno e il mare”, ben presto restaurate 
dal fedele Bernini!”, infine un tondo con una Madonna, si disse opera di Luca 


della Robbia!°8. 


B- Il collezionismo e la committenza artistica di Lorenzo di Lorenzo di Giovan 
Battista Strozzi (1595-1671): Gherardo Silvani, Fabrizio Boschi, Cecco Bravo, Sal- 
vator Rosa, Simone Pignoni, Vincenzo Mannozzi e altri 


Discendente dalla linea familiare di Filippo Strozzi ‘il Vecchio’, Lorenzo di 
Lorenzo di Giovan Battista, senatore nel 1641 e ‘maestro di camera’ del cardinale 
Leopoldo de’ Medici!'°, ebbe in proprietà una parte del palazzo di famiglia posto 
sull'omonima piazza, nonché numerosi altri beni fondiari verso i quali manifestò 
un'attenzione significativa sia per migliorarne le condizioni strutturali come per 
arricchirne l’arredo artistico. Fu infatti un committente di notevole profilo, oggi 
sconosciuto, quale ce lo tramandano i documenti e le carte d’archivio che ne 
attestano la conoscenza e il gradimento dei principali maestri della pittura del 
Seicento, e non soltanto fiorentini. 

Unitosi in matrimonio nel 1641 con Maria di Lorenzo Machiavelli ebbe da 
questa sette figli sopravvissuti: quattro femmine, tutte monache; suor Maria Gra- 
zia e suor Maria Regina ad Annalena, vestite nel 1645; suor Maria Angela dal 
1650 a Santa Felicita; infine suor Anna Maria, anch'essa in quel monastero. Tre 
furono i figli maschi, Alessandro, Giovan Battista e Leone!!° che ricevettero inve- 
ce un'educazione ben diversa, come documentato dalle uscite di cassa per “salari 
di maestri” impegnati ad istruirli in varie discipline, dalla matematica alla musica, 
dal ballo all’equitazione. 

Tra questi, come docente di disegno di Leone, fece comparsa nel settembre del 
1645 Carlo Dolci che per circa due mesi e mezzo, fino al gennaio del ’46, ebbe a 
bottega il ragazzo, preparandolo in quella disciplina avanti il suo trasferimento a 


Roma, al Seminario!!!. 


106 ASFi, CS, IV serie, n. 113, c. 110, 30 marzo 1648, un desco da parto “antico”; ivi, n. 144, c. 
141s, 16 dicembre 1647, un quadro con la “Notte”. 

197 Ivi, n. 113, cc. 81, 14 agosto 1642; 8v, 5 settembre 1642; ivi, n. 114, cc. 41d, 41s, 46s. 

108. Ivi, n. 114, c. 264s, 25 marzo 1652; ivi, n. 113, c. 220. 

1° In servizio dall'agosto del 1645; cfr. ASFi, CS, V serie, n. 338, Errata, uscita e quaderno di cassa di 
Lorenzo di Lorenzo di Giovan Battista Strozzi, 1645-1660, c. 179. Su Lorenzo di Lorenzo Strozzi si veda A. 
Manikowski, // ritratto di un palazzo dall'interno: gli Strozzi nel Seicento, in Palazzo Strozzi metà millennio, 
1489-1989, atti del convegno di studi (Firenze, 3-6 luglio 1989), Cinisello Balsamo 1991, pp. 38-47, nel 
quale, tuttavia, non si fa il minimo accenno all’attività mecenatizia e collezionistica del gentiluomo. Su di 
lui, in particolare sul suo patrimonio fondiario, le rendite, la gestione dei capitali e degli investimenti, la 
politica familiare si veda anche A. Manikowski, 7he Society of Elite Consumption. Lorenzo Strozzis Aristo- 
cratic Enterprise in Seventeenth-Century Tuscany, Transalate from the Polish by M. Cole, Warsaw, 2017. 

110 ASFi, CS, V serie, n. 338, cc. 81-85. 

!!! Ivi, c. 191s, 28 settembre 1645, a Carlo Dolci per “aver insegnato disegnare a Lione mio figlio 
a bottega sua un mese finito il 25 stante”; un secondo pagamento si registra il 25 ottobre, un terzo il 1 
gennaio 1646. 


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Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell’Archivio di Stato di Firenze 


Lorenzo, come si è detto, fu proprietario ed abitò una parte dell’avita magione 
di famiglia — condivisa con il parente Luigi - che a partire dagli anni trenta del 
Seicento divenne oggetto di costanti attenzioni e migliorie: queste riguardarono 
sia strutture minori e di servizio!!2 - la sistemazione del lastrico sulla via del Cor- 
so (oggi via Strozzi) tra la “loggia Tornaquinci” (allora in angolo; oggi spostata 
verso piazza Antinori) e la “piazza del palazzo”!!5; l’imbiancatura, nel settembre 
del 1651, di metà dello loggia terrena “con l’andito che va fuori e metà dello 
scalone”!!4 -, sia il rinnovamento decorativo (o la costruzione ex-r0v0) d’un sa- 
cello interno al palazzo, al piano nobile, i cui lavori presero avvio nel dicembre 
del 1637 e che è stato sciaguratamente smantellato con i ‘restauri’ dell’edificio 
iniziati nel 1938!!, 

Progettista del sacello fu Gherardo Silvani, espressamente pagato quale “archi- 
tetto di detta cappella” una prima volta 11 gennaio del 1638, una seconda “per 
sue fatiche e disegni” il 22 marzo di quell’anno!!°. Terminata la struttura che nel 
dicembre del 1637 aveva visto attivo lo scalpellino Bartolomeo di Battista d’Ada- 
mo e il fabbro Piero Zaballi, nel luglio del ’38 il commettitore di pietre Giovan 
Battista Berti al pavimento intarsiato e il legnaiolo Giovan Battista Ruggeri al 
cannicciato della volta, entrò in scena il maestro incaricato della pittura del 
vano sacro, Fabrizio Boschi, che ebbe l’onere della pala d’altare con una “Madon- 
na” e degli altri decori che non sappiamo se su tela o, molto più probabilmente, 
ad affresco. L'artista, allora all'apice della carriera!!5, ebbe a lavorare alla cappella 


112 Ivi, n. 334, Entrata Uscita e Quaderno di cassa di Lorenzo di Lorenzo di Giovan Battista Strozzi, 


1635-1645, cc. 162, luglio 1635, lastricatura di una cantina e fattura di una porta in pietra per un 
ricetto di sopra; 186, settembre 1635, accomodatura di una finestra sulla piazza, di una finestra in una 
“camera grande”, risistemazione del tetto del palazzo; 211, settembre 1636, imbiancatura di alcune 
stanze e lavori a un’anticamera sulla piazza; 239, agosto 1637, lavori a una camera terrena, si paga il 
doratore Landini per “tintura di usci e camini”. 

113. Ivi, n. 338, c. 118, lavori eseguiti nel gennaio del 1654 e condivisi con Luigi Strozzi. Altri lavori 
di questi anni riguardarono alcune finestre sulla piazza, una finestra aperta “per vendere il vino”, un 
camino in una camera a terreno; cfr. c. 187, dal 1 settembre 1645. Alcuni di questi lavori si vedano in 
ivi, n. 334, c. 211. 

114 Ivi, n. 338, c. 318, 12 settembre 1651. 

!!5 Lo si veda segnato in pianta in una delle planimetrie pubblicate da G. Pampaloni, Palazzo 
Strozzi, Roma, 1963, p. 97: si noti il vano sacro, con l’altare segnato da una croce, vano scomparso a 
seguito della sua demolizione (fig. 18). Le stesse piante sono state edite anche da M. Stara, Acquisto 
e restauro da parte dell’INA per rendere il palazzo «atto a ricevere tutte le manifestazioni e mostre d'arte 
in Firenze» (anni 1937-1940, in Palazzo Strozzi metà millennio, cit., p. 256, fig. 10. Lo studioso (p. 
250) ricorda anche lo smantellamento della cappella che forse, in un primo momento, si pensava di 
mantenere come dimostra una pianta, datata 1938 (quindi precedente l’inizio dei lavori di ‘restauro’), 
dell'adattamento del primo piano del palazzo a sede dell’Agenzia Generale dell’INA (p. 252, fig. 1). 

116 ASFi, CS, V serie, n. 334, cc. 250, 253, 11 gennaio e 22 marzo 1638. 

17 Ivi, n. 333, Debitori e creditori di Lorenzo di Lorenzo di Giovan Battista Strozzi, 1635-1645, cc. 
229s, 2315. Pagamenti al Ruggeri anche in ivi, n. 334, c. 240, agosto 1637 - giugno 1638. Nel 1648 si 
provvide la cappella di un cancello. Altre spese si vedano in ivi, n. 338, cc. 250, 253, 286. 

118 Su di lui sono tornato in più occasioni: cfr. R. Spinelli, Vicende secentesche della Visione di San 
Bernardo del Perugino: una pala del Boschi e la copia del Ficherelli, in “Paragone”, XXXVI, n. 425, 1985, 
pp. 76-85; idem, Di un disperso Martirio di SantAndrea' di Fabrizio Boschi ritrovato (e nuovamente 
scomparso), in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XLV, nn. 1/2, 2001, pp. 313- 
318; idem, Fabrizio Boschi (1572-1642) pittore barocco di «belle idee» e di «nobiltà di maniera», catalogo 


211 


Riccardo Spinelli 


tra il giugno e il novembre del 1639 percependo settantacinque scudi, servendosi 
dell’aiuto del giovanissimo Jacopo Chiavistelli — forse a parti d’architettura pro- 
spettica dipinta — al quale si notificava un pagamento specifico il 21 maggio di 
quell’anno!!. 

L'impegno del Silvani - che sarà ripetutamente utilizzato da Lorenzo Strozzi 
in tutte le sue proprietà - non si limitò alla progettazione di questo ambiente di 
palazzo ma si estese anche al disegno della “scala a lumaca” di collegamento tra i 
vari piani dell’edificio, per la quale si registrava uno specifico pagamento all’ar- 
chitetto nel giugno del 163820. 

In quegli anni, in parallelo al rinnovamento strutturale di parte del palazzo, 
Lorenzo di Lorenzo ne continuò le migliorie decorative —nel settembre del 1635 
è registrata la fattura di un grande ‘albero’ in tela degli Strozzi, corredato l’anno 
successivo della cornice dorata da Francesco Landini!!; nel marzo del 1637 il 
pittore Pietro Bracciolini veniva pagato per aver dipinto cinquantasei braccia di 
un “fregio a tempera” alto “braccia 1 e % per la camera detta “dei ferrivecchi” 
(l’armeria?)!??; nel settembre del 1653 era invece il pittore Jacopo Giuggiolini che 
realizzava “a fresco quattro colonne e quattro pilastri” attorno alle due porte di 
una camera sulla piazza, ambiente nel quale, due anni dopo, nell'agosto del ’55, 
Agnolo Gori licenziava “sessanta braccia quadre di un fregio di braccia 1 e "15 
(stanza dove s'era sistemato, nel febbraio del 1653, un “paramento di arazzi alto 


della mostra (Firenze, Casa Buonarroti, 26 luglio - 13 novembre 2006) a cura di R. Spinelli, Firenze, 
Mandragora, 2006; idem, Un'inedita Allegoria dell’Orazione di Fabrizio Boschi, in “Valori tattili”, n. 15, 
2020, pp. 56-59; idem, Un inedito dipinto di Fabrizio Boschi, in “Aver disegno”. Studi per Anna Forlani 
Tempesti, a cura di L. Melli, S. Padovani, S. Prosperi Valenti Rodinò, Firenze, 2022, pp. 178-181. 

119 ASFi, CS, V serie, n. 334, c. 255, 1638, “Fabbrizio di (...) Boschi Pittore deve dare a’ di 29 di 
Marzo scudi dieci portò contanti a buon conto della pittura che deve fare”; “cadi 16 Aprile scudi quattro 
portò contanti per mano di mia moglie”, “cadi 23 detto scudi sei portò lui contanti a buon conto”, 
“eadi 30 detto scudi 4 portò lui contanti”, “eadi 8 Maggio scudi quattro portò lui contanti”, “cadi 21 
detto scudi cinque portò contanti per mano di Jacopo Chiavistelli”, “cadi 29 detto scudi dieci portò 
contanti”, “adi 14 di Giugno scudi sette portò contanti per mano di Bartolomeo Bortini (?)”, “eadi 21 
detto scudi dieci portò detto contanti”. I pagamenti si vedano anche in ivi, n. 333, c. 229d, 30 giugno 
1639, scudi 75 a Fabrizio Boschi “per un quadro d’una Madonna, e dipintura di una cappella”; c. 2315, 
1639, “Fabrizio Boschi Pittore de dare adi 30 giugno scudi sessanta pagatili in conto delle Pitture della 
cappella fatta nel nostro palazzo, come in questo in cassa 255”; “E adi 8 novembre scudi quindici portò 
contanti per resto delle suddette Pitture”; c. 231d, 1639 “Fabrizio Boschi di contro deve havere a di 30 
giugno scudi settantacinque se li fanno buoni per un quadro d’una Madonna e dipintura della cappella 
dare spese di detta cappella a 229”. Nel maggio del 1638 è registrato il pagamento per la doratura 
“dell’ornamento della volta e dell’altare”; cfr. ivi, n. 334, c. 253. 

120. Ivi, n. 334, c. 276, 6 giugno 1638. La scala veniva poi imbiancata nel luglio del ’41; ivi, n. 334, c. 328. 

12! Ivi, n. 334, cc. 157, settembre 1635; 197, luglio 1636. 

122 Ivi, cc. 252 (pagamenti alle date 18, 22 febbraio, 6 marzo 1638), 247 (6 marzo 1638). 

125. Ivi, n. 338, c. 384, 27 settembre 1653 al Giuggiolini; 17 agosto 1655 al Gori. Il Giuggiolini 
risulterà attivo altre volte per Lorenzo di Lorenzo, ad esempio nell'ottobre del 1656 dipingendo le armi 
dello Strozzi in alcune delle case di campagna di sua proprietà; ivi, c. 453, 26 ottobre 1656, e nel set- 
tembre del ’59 le stesse in un podere nei possedimenti di Piano, ivi, c. 506. Non è escluso che del fregio 
realizzato da Agnolo Gori vi sia memoria in una foto scattata durante le demolizioni che il palazzo subì 
nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento, foto pubblicata da Stara, Acquisto e restauro da parte 
dell’INA, cit., p. 260, fig. 21. In essa si vedono affrescate due scene ‘storiche’, con probabilità afferenti a 
Casa Strozzi, inquadrate da cornici compatibili con una datazione alla metà del Seicento. 


212 


Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell'Archivio di Stato di Firenze 


braccia sette, lungo braccia trentotto” acquistato presso Guglielmo Cocchi)!“ —, 
operando anche sul suo arredamento sia con l'acquisto di opere esistenti, reperite 
sul mercato artistico, sia con altre appositamente commissionate. 

Tra le prime si ha memoria dell'arrivo nel 1637 di un Ritratto di papa Mar- 
cello II Cervini già in casa Acciaiuoli e, sempre in quel mese, delle incisioni dagli 
affreschi del Chiostro dello Scalzo!®, di un San Francesco in estasi di Cigoli ven- 
duto dal pittore Agnolo Borrini!?, di un “Gesuino steso sulla Croce” fi autore 
ignoto”, di due Battaglie, di un Ritratto di Galileo e di un San Lorenzo dal Ma- 
gistrato dei Pupilli presso i quali si acquistavano, nel settembre del 1664, anche 
un Centauro di Guido Reni, una Venere di Bilivert, una “Madonna in ovale” di 
Guercino e due “Paesi”!?8; tra le seconde si registravano numerose commesse ai 
principali artisti allora attivi in città. 

A Orazio Fidani si ordinava il 18 febbraio del 1638 la copia d’un “ritratto 
della Serenissima padrona” (Vittoria della Rovere) per il quale si fornì il telaio e la 
tela mesticata; un ritratto del principe Leopoldo pagatogli nel dicembre del ’44; 
un'effige “in ottagono” di Ferdinando II copiata da un originale di Suttermans, 
mentre a Giulio Bernini si richiedeva, il mese successivo, una “testa del principe 
Gio. Carlo” e un ritratto del principe Leopoldo a figura intera (“alto braccia 3, 
largo braccia 2”) da destinare alla “Sala del palazzo di Firenze”!?2, 

Anche il grande ritrattista di origine fiamminga e Cesare Dandini entraro- 
no in contatto con Strozzi, il primo realizzandogli, per diciotto scudi, una tela 
con Sant'Orsola! e un ritratto in ottagono della granduchessa, incorniciato nel 
1643; il secondo un “San Michele Arcangelo la testa sola, et una mano” pagato 
nell'ottobre del ’38!. Del Sar Michele ricordato nel pagamento ne conosco, al 
momento, due redazioni: la prima, rettangolare e di balicà solenne (Fig. 3), già 
in collezione Bigongiari, datata da Bellesi “alla metà degli anni trenta o all’inizio 
del decennio successivo”!53; la seconda, di formato ovale e ugualmente datata 
a quel tempo (Fig. 4), si trova invece presso la collezione della Banca Popolare 
di Vicenza, Palazzo degli Alberti, a Prato!*, ed entrambe, vistane la cronologia 


124 ASFi, CS, V serie, n. 338, c. 113, 3 febbraio 1653. 

125. Ivi, n. 334, c. 247, 8 novembre 1637. 

126 ivi, n. 338, c. 343, 18 maggio 1652. In quegli anni non mancarono gli acquisti di argenterie: 
dal Magistrato dei Pupilli un bacile e una brocca nel dicembre del 1646, ivi, c. 86; dall’orafo Clemente 
Salvestrini due candelieri in argento per la cappella di casa, ivi, c. 100, 19 agosto 1649; un’altra coppia 
di candelieri, sempre in argento, da Luca Masini, ivi, c.112, 24 agosto 1652. 

127 Ivi, n. 343, Entrata, uscita e quaderno di cassa di Lorenzo di Lorenzo di Giovan Battista Strozzi, 
1660-1670, c. 95, 18 agosto 1660. 

128. Ivi, rispettivamente cc. 95, 2 aprile 1661; 146, 20 ottobre 1662; 194, 4 settembre 1664. 

129. Ivi, n. 334, cc. 247, 18 febbraio, al Fidani per una tela “alta braccia 2 e 1h, larga braccia 2”; 309, 
24 dicembre 1644 per il ritratto di Leopoldo; 247, 1 marzo 1638, al Bernini; 354, al Bernini per la tela 
con Leopoldo. Il ritratto di Giovan Carlo veniva incorniciato il 21 marzo (ivi). Il ritratto di Ferdinando 
II risultò pagato a Fidani nel luglio del 1645; cfr. ivi, n. 338, c. 161, 4 luglio 1645. Il pagamento al 
Fidani per l’effige di Leopoldo si veda in ivi, n. 334, c. 399. 

150 Ivi, n. 334, c. 255, 5 agosto 1638, una tela “alta braccia 1, larga soldi 15.4”. 

131 Ivi, c. 327. 

132 Ivi, c. 264, 12 ottobre 1638. 

155. Cfr. S. Bellesi, Cesare Dandini, Torino, 1996, p. 81, n. 29. 

134 Ivi, p. 84, n. 31. 


213 


Riccardo Spinelli 


proposta, potrebbero avere i numeri per essere identificate con la tela già Strozzi. 
Infine Salvator Rosa che nel luglio del 1642 si vedeva compensare per un “Paesi- 
no con una marina”, incorniciato nell’agosto del 43’ e saldatogli a succes- 
sivo!*° e, due anni dopo, nel settembre del ’44, per una seconda tela, raffigurante 
sempre un “paesino a’ olio”!97. 

Ma furono anche altri gli edifici cari a Lorenzo di Lorenzo sui quali il nobi- 
luomo non mancò di continue migliorie impiegando come progettista e direttore 
dei lavori ancora una volta Gherardo Silvani già presente, come si è visto, nel 
cantiere di Palazzo Strozzi. Tra le residenze apprezzate da Strozzi si evidenziava 
in questi anni la villa ‘Il Corno’ nella zona di San Casciano Val di Pesa!5, ogget- 
to di un primo ‘restauro’ iniziato nel 1585!” e ancora sotto le ‘cure’ del nuovo 
proprietario dal 1644 quando si registravano acquisti di materiali da costruzione 
e si compensavano, l’anno successivo, i primi manifattori: lo scalpellino Stefano 
Giuntini!*°, il pittore Jacopo Giuggiolini per aver dipinto la torre, alcuni archi e 
un fregio nelle stanze!“', il doratore Cammillo Baracchi per la pittura della tavola 
della cappella!, così come il Silvani che nel gennaio del 1644 s'era visto al Corno 
“a disegnare la fabbrica da farsi, e su fogli” — dunque lasciando già dei progetti!‘ 
-, era tornato in cantiere nell’aprile del °45!4, ancora nel dicembre del 45 e nel 
novembre del 1650 quando veniva pagato “per più disegni fatti al Corno”!9 e 
“per essere stato alcuni giorni ad assistere alla da e far disegni”! Altri pa- 
gamenti all'architetto seguiranno poi negli anni successivi, almeno fino al 1660, 
sempre per visite all'immobile, per “assistenze” e per “più fatiche e disegni fatti” 
della casa come delle stalle, della tinaia e degli altri annessi!. 


145 


155 ASFi, CS, V serie, n. 334, c. 327, 24 luglio 1641; la tela era “larga braccia 2.1.4, alta soldi 18” 
e venne incorniciata il 27 agosto successivo, ivi, c. 375. 

136 Ivi, c. 399, 28 settembre 1644. 

157 Ivi, n. 334, c. 399. La tela misurava “braccia 2 1/3 per soldi 18”. 

138. La villa era entrata nel patrimonio fondiario degli Strozzi nel 1525 e dal 1583 era di proprietà 
di Lorenzo di Giovan Battista; alla sua morte passò al figlio Lorenzo, il nostro committente. Sulla villa 
si veda la monografia di G. Casali, Castello Il Corno, Poggibonsi, 2002. 

159 Jvi, p. 18. 

140 ASFi, CS, V serie, n. 338, cc. 180, agosto 1645; 198, 31 ottobre 1645; 238, aprile 1647; 240, 
243, 247, 256, gennaio 1648, si pagano delle finestre. 

14! Ivi, c. 400, 4 luglio 1654. 

12 Ivi, c. 391, 10 giugno 1654. Nel giugno del 1648 il Baracchi sarà pagato anche per la “doratura 
di due ottangoli fatti a oro e nero”, ivi, c. 253, 3 giugno 1648. 

18. Ivi, n. 334, c. 301. 

144. Ivi, c. 392. 

145. Ivi, n. 338, c. 307, 18 dicembre 1649; novembre 1650. 

146 Ivi, c. 319, 10 dicembre 1650. La presenza del Silvani a Il Corno, con indicazione dei relativi do- 
cumenti, è già stata appurata da Casali, // Corro, cit., pp. 19-22, ed è ricordata anche da Filippo Baldinucci, 
Notizie de professori del disegno da Cimabue in qua, 6 voll., Firenze, 1681-1728, ed. a cura di E Ranalli, 5 voll., 
Firenze, 1845-1847, IV, 1846, p. 368, e dal figlio Pier Francesco in una nota alla ‘vità di Gherardo scritta da 
Giovanni Sini, edita in ivi, Appendice, vol. VII, a cura di P. Barocchi, Firenze, 1975, p. 94. 

17 ASFi, CS, V serie, n. 338, cc. 326, marzo 1651, si fanno i palchi alla villa; 329, 23 aprile 
1651, pagamento al Silvani “per aver assistito più giorni al Corno”; 334, luglio 1651, al Silvani; 367, 20 
gennaio e 28 aprile 1653, al Silvani “per sue fatiche”; 381, novembre 1653, al Silvani; 389, 14 febbraio 
1654, al Silvani “per più disegni fatti”; 415, 24 marzo 1655, al Silvani che ha visitato il cantiere; 445, 
maggio 1656, al Silvani “per essere stato al Corno e fatto i disegni della stalla e della tinaia. In villa era 


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Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell’Archivio di Stato di Firenze 


Un secondo edificio particolarmente apprezzato da Strozzi fu poi la villa ‘La Co- 
lombaia’, o delle Campora, ubicata in collina subito fuori la Porta Romana, acqui- 
stata dalla moglie Maria Machiavelli nel 1641 e portata in dote con il matrimonio, 
che dal mese di agosto del 1642 veniva fatta oggetto d’un generale rinnovamento 
— già nel mese di ottobre si registrava l’arrivo dei materiali edili necessari (rena, 
ci. ghiaia, mattoni ecc.) — che interessò sia la struttura padronale (si parla 
“d’invetriate” in una sala e di altre finestre), sia le stalle e lo “stanzone dei vasi”!*8. 

In questo cantiere si presentava poi, nel dicembre di quell’anno, ancora il Sil- 
vani a sovrintendere la messa in opera dei palchi nelle camere (assieme al legnaio- 
lo Santini), delle architravi e delle finestre (Fig. 5), per questo retribuito nel mese 
di dicembre del ’42, risultando presente a ‘La Colombaia' ancora nell'ottobre del 
1644 nell’occasione di aver licenziato il disegno della “porta della villa” (Fig. 6), 
realizzata dallo scalpellino Francesco di Pier Rinaldi l’anno successivo. Sempre 
in quell’anno operarono in questa residenza il pittore Jacopo Giuggiolini! (che 
Strozzi impiegherà poi nel palazzo fiorentino)'?, attivo alle finestre, e Giulio Ber- 
nini, responsabile del decoro dei parapetti e delle spallette delle stesse!?2. 

Altri compensi all'architetto del giugno del 1646 attestano poi la costante 
presenza del progettista in questo cantiere nel quale, in quell’anno, si lavorò alla 
torre e alla realizzazione di un camino dovuto allo scalpellino Giovanni Betti, 

urtroppo non più esistente’. Contemporaneamente a queste opere strutturali, 
6 Strozzi provvedeva a spostare mobili e suppellettili dal palazzo di città nella 
villa!” - compreso un quadro non meglio precisato, del quale si fornivano solo le 
misure del telaio! - e a commissionare una serie di dipinti espressamente desti- 
nati a questo edificio. 

Beneficiario di tali ordinazioni fu Cecco Bravo cui Lorenzo Strozzi richiese 
un numero davvero considerevole di tele, ben ventuno, con soggetti peculiari del 
‘catalogo’ del pittore, peraltro consoni all’arredo d’una residenza suburbana. Un 
pagamento rilasciato all’artista il 28 luglio del 1645, di quaranta scudi, attesta la 


presente una cappella nella quale interveniva, alla pittura “della tavola”, il doratore Cammillo Baracchi; 
ivi, c. 391, 10 giugno 1654. 

148. Ivi, n. 334, c. 352. 

149. Ivi, n. 338, cc. 171s, 172s, 22 luglio 1645; ivi. n. 334, cc. 357, 404. La presenza del Silvani nel 
cantiere de ‘La Colombaia' è accertata dalle parole di Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno, cit., 
IV, 1846, p. 368, e da quelle del figlio dell’architetto, Pier Francesco, in una nota alla ‘vita’ di Gherardo 
scritta da Giovanni Sini, edita in ivi, Appendice, cit., p. 94. 

15° Il pittore, sconosciuto, risulta presente nei registri dell’Accademia del Disegno dal 1624 al 
1668; cfr. Zangheri, Gli Accademici, cit., p. 158. 

151 Cfr. nota 123. 

152 ASFi, CS, V serie, n. 334, c. 396. 

153. Ivi, n. 338, cc. 219, 225. La villa, come mi informano gli attuali proprietari e come ho avuto 
modo di verificare facendo una circostanziata ricognizione, ha subito un generale restauro nel corso 
dell'Ottocento, rinnovamento che ha cancellato la maggior parte delle strutture e dei decori precedenti 
(compresa la cappella), escluso la facciata su via delle Campora, documentata - con le finestre, il solenne 
portale d’ingresso (e quello speculare che dal salone apre sul giardino a valle) e lo stemma Strozzi- 
Machiavelli - a Gherardo Silvani. 

154 Ivi, cc. 381, ottobre 1643; 406, novembre 1644. 

155. Ivi, c. 406. 


215 


Riccardo Spinelli 


consegna di “un quadro in tela a olio di frutte con femmina”!, di altri quattro 
quadri sempre “di frutte”, di “sette teste”, di sei “paesini”!. Altri compensi al 
pittore del settembre del ‘49 per una “tela mesticata” servita per altri “due pae- 
si” — uno dei quali compagno d’un nuovo dipinto con della “frutta” - attestano 
ulteriori lavori fatti dal Montelatici per Strozzi che dovettero trovar posto sulle 
pareti della villa!9. 

Per il palazzo di città, invece, Cecco Bravo realizzò un’altra tela, una scena con 
Sara e Tobia - “di braccia 3.2 et alto braccia 2.2” (cm. 180x122,5) — che venne 
saldata all’artista tra il luglio del ’46 e il luglio dell’anno successivo, arricchita da 
una cornice prodotta da Jacopo Maria Foggini (uno dei principali intagliatori at- 
tivi a Firenze, al tempo, che ritornerà sovente nei pagamenti del committente)! 
e dorata il 17 ottobre da Camillo Baratti!®, 

Dell’opera, al momento non riemersa — in alcuni repertori di pittura fiorenti- 
na del Seicento se ne ricorda in modo generico una redazione in collezione priva- 


!5° Giusto per esemplificare si vedano le due A/legorie delle Stagioni (Estate e Autunno) nella 


collezione di Intesa Sanpaolo a Pistoia (collezione Bigongiari) e già presso Luigi Baldacci a Firenze 
(riprodotte in Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze, cit., pp. 576-577, figg. 335-336). 

157. Si vedano, come esempi significativi di questa produzione del maestro, le due tele già presso 
Pasti Bencini con il Ragazzo con le libellule e il Ragazzo che beve [cfr. R. Spinelli, in Proposta ‘89. Venti 
dipinti italiani di antichi maestri, catalogo della mostra (Firenze, Galleria Pasti Bencini, 21 settembre — 
15 ottobre 1989], Firenze, 1989, nn. 9-10. 

158. Per tutti, i due della collezione Crawshay ad Abergavenny e l’altro del Philadelphia Museum 
of Art, esposti nel 1986 a Palazzo Strozzi (cfr. A. Barsanti, in // Seicento fiorentino, cit., Pittura, pp. 360- 
361, 372-373, nn. 1.192. 1.199-1.200). I pagamenti a Cecco Bravo per questi lavori si vedano in ASFIi, 
CS, V serie, n. 338, c. 172s, 28 luglio 1645, si pagano 40 scudi a “Franc.o Montelatici portò contanti 
che scudi 13 per conto d’un quadro in tela a olio di frutte con una femmina senza cornice lungo braccia 
3 5/8, alto braccia 2 2/3; scudi 6 per 4 quadri simili di frutte lunghi braccia 1 % alti 1.5.8; scudi 16 
per n.0 7 teste simili che 6 con ornamento rabescato d’oro alte di tela soldi 14 e soldi 10 ornamento 
soldi 2.8 e soldi 5; per 6 Paesini simili con ornamento di albero bianco lunghi soldi 15.8 e soldi 11 alti 
ornamento 1/8”. Lo stesso pagamento in ivi, c. 161s, 28 luglio 1645, si pagano 40 scudi a “Francesco 
Montelatici pittore portò contanti non segue va a masserizie di Colomb.a”. 

159 Ivi, c. 298, 17 settembre 1649, si paga la tela e la mesticatura per “due telai da Paesi, uno di 
braccia 1.15.6 compagno della frutta di Cecco Bravo, uno di braccia 2.5”. 

160. Nel novembre del 1648 lo si paga per un letto intagliato, ivi, cc. 278, 282; nel luglio del 1649 per 
l’ornamento di una “tavola da altare” non meglio precisata, forse destinata a una delle ville di Strozzi (ivi, 
c. 298); nell'aprile del °56 per lavori a delle impannate, ivi. c. 384; nel gennaio del 1661 per alcuni generici 
lavori, ivi, n. 343, c. 95; nel luglio di quell’anno per una cornice a un “Satiro dei Carracci” a evidenza 
presente in collezione, ibidem; il 14 maggio del 1664 per un paravento di legno servito per l'anticamera, 
ivi, c. 189 e ivi, n. 343, c. 125; il 30 giugno del 1665 risulta pagato, invece, per generici “lavori in legno 
fatti in cucina”, ivi, n. 338, c. 125. 

16! Ivi, n. 338, c. 230d, 27 luglio 1646, si pagano “scudi 27.6 per tanti datone creditore a France- 
sco Montelatici pittore detto Cecco Bravo, per conto d’un quadro fattogli fare in questo a 234”; 28 set- 
tembre 1646, si paga Jacopo Maria Foggini “intagliatore di S.A.S.” per conto di “un ornamento d’albero 
lungo braccia 3.12.6, alto braccia 2.12”, ornamento che viene poi dorato “d’oro e nero d’una Sarra e 
Tobia” il 17 ottobre da Camillo Baratti; ivi, c. 234s, 21 gennaio 1647, “Francesco di (...... ) Montelatici 
detto Cecco Bravo Pittore deve dare ad 21 Genn.o (1647) scudi cinque portò contanti a buon conto 
di un quadro che mi fa, lungo braccia 3.2 et alto braccia 2.2; 27 luglio (1647) scudi ventidua. 6 portò 
contanti per resto del sudetto quadro entrovi Sarra, e Tobiolo sposi; 234d, “1647 avere a 27 di luglio 
scudi ventisette. 6 per tanti datone debito a masserizie in questo a carta 230”. 


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Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell’Archivio di Stato di Firenze 


162 163 


ta!®, così come un bozzetto preparatorio, quest'ultimo pubblicato da Cantelli 
(Fig. 7) -, esiste memoria in una acquaforte di Carlo Lasinio pubblicata dal Lastri 
nell'Etruria Pittrice (Fig. 8) dalla quale si apprende che la tela misurava “braccia 
2 1/6 x braccia 3 1/3” (cm. 194,50 x 126, 40 ca), dunque d’un ingombro non 
dissimile da quello del dipinto voluto da Lorenzo Strozzi, e che a fine Settecento 
era presso il cavaliere Ottavio Pitti!**, probabilmente passata in questa famiglia in 
conseguenza di un'unione matrimoniale. 

La commessa a Cecco Bravo del dipinto con Sara e Tobia fu la prima d’u- 
na serie di opere a soggetto veterotestamentario — tutte destinate dl 
all’arredo del palazzo di Firenze - che nel giro di alcuni anni lo Strozzi decideva 
di far realizzare, coinvolgendo nell'impresa anche Simone Pignoni e Vincenzo 
Mannozzi. Nel maggio del 1648 si registrava infatti un primo pagamento di 
quaranta scudi rilasciato al pittore Lorenzo Sacchettini “a buon conto di scudi 43 
portò contanti per costo di un quadro a olio su tela alto braccia 3.2 e largo braccia 
de 2/3-di tre Lane senz'ornamento di Lot imbriacato dalle figlie”! che in altra 
occasione si è identificato con la solenne tela di Pignoni con Lotò e le figlie in fuga 
da Sodoma già presso Giovanni Pratesi (Fig. 9), oggi in una collezione privata!°, 
finita di pagare al Sacchettini, che l’aveva proposta a Strozzi, nel novembre di 
quell’anno! e incorniciata nel luglio del ’49 da Jacopo Maria Foggini il quale, 
nella ricevuta, non mancava di specificarne l’autore in Pignoni!®8. 

A questo secondo dipinto di soggetto biblico ne faceva poi seguito un altro ri- 
chiesto invece a Vincenzo Mannozzi cui lo Strozzi rilasciava un primo pagamento, 
generico, nell’aprile del 1649'9, uno successivo per la valuta di una tela di “braccia 
2% e braccia 2 2/5” e per dell’azzurro nel settembre del ’52!, il saldo finale di 
cinquantasette scudi nell'ottobre dell’anno successivo “per costo di un quadro a 
olio fatto di sua mano entrovi Agar nel deserto quando gli apparisce l'Angelo, e gli 
mostrò la fonte alto braccia 2.15, largo braccia 2.8 (cm. 160x140 ca)!” 


12 Cfr. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina, cit. (1983), p. 115; Cantelli, Repertorio della 
pittura fiorentina del Seicento, cit. (2009), p. 150; Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze, cit., p. 
997. 

16 Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina, cit. (1983), p. 115, fig. 600. 

16 La si veda riprodotta e commentata in A. R. Masetti, Cecco Bravo pittore toscano del Seicento, 
Venezia, 1962, pp. 97 n. 29, 106 n. 51, fig. 46. 

16. ASFi, CS, V serie, n. 338, c. 253. 

16 La corrispondenza tra le misure della tela riferite dal pagamento della stessa (braccia 3.2 x 
braccia 3 2/3, cm. 181x214) con quelle della tela napoletana (cm. 181x227) non lasciano dubbi sull’i- 
dentificazione dell’opera con quella voluta da Lorenzo Strozzi. Cfr. ASFi, CS, V serie, n. 338, c. 278. 

197 Ibidem. 

168. Ivi, V serie n. 338, c. 298, 7 luglio 1649, “scudi 84 per un ornamento d’un quadro di Lot del 
Pignoni alto braccia 3 2/3 largo braccia 4 2/3”. La cornice venne poi “dorata e imbrunita” da Camillo 
Baracchi nel settembre del ‘48 (ivi). Ho dato notizia dei documenti relativi alla tela, ripubblicati nelle note 
precedenti, in /n fabula. Capolavori restaurati della collezione Bigongiari, catalogo della mostra (Pistoia, 
Antico Palazzo dei Vescovi, 18 giugno — 2 ottobre 2022) a cura di M. Preti e A. Bertini, Pistoia, 2022, p. 
196. 

19 ASFi, CS, V serie, n. 338, c. 172, 15 aprile 1649. 

170. Ivi, c. 343, 12 settembre 1652. 

17! Ivi, c. 372, 10 ottobre 1653. La cornice della tela venne dorata da Cammillo Baracchi il 10 
giugno del 1654, ivi, c. 391. 


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Riccardo Spinelli 


Il dipinto, al momento non riemerso, faceva tuttavia coppia, nelle misure non 
troppo diverse come nel tema veterotestamentario, con la quarta tela della serie, 
quella con David e Abigail che lo Strozzi, alcuni anni dopo, decideva di ordinare 
nuovamente al Pignoni assicurandosi così, sulle pareti di casa, uno dei grandi 
capolavori della pittura fiorentina del Seicento (Fig. 10). Dell’opera, già presso 
Piero Bigongiari e oggi nella collezione di Intesa Sanpaolo a Pistoia (Palazzo dei 
Vescovi), ne abbiamo appurata, in altra sede, la committenza e cronologia al 
1658!”2, datazione stilisticamente più plausibile rispetto a quella proposta alla 
metà del quinto decennio del Seicento! in virtù della grandiosità d'impianto e 
dell’enfasi compositiva, pienamente barocche, memori delle più aggiornate istan- 
ze del Seicento fiorentino come romano. 

Inoltre il reperimento dei pagamenti per quest'opera e la presenza, in casa di 
Lorenzo Strozzi, d’una tela con Agar e l'angelo di mano del Mannozzi — si è detto 
d’ingombro non distante dal dipinto Bigongiari con David e Abigail —, mette fine 
all’idea che l’analoga tela di Francesco Furini già presso questo collezionista e oggi 
ugualmente a Pistoia avesse fatto ‘serie’, fin dall’origine, con le tele Strozzi di cui 
si è chiarita la genesi, risultando essere invece una commissione probabilmente 
venuta da quella famiglia ma non nella persona di Lorenzo di Lorenzo del quale 
andiamo a ricostruire È collezione!” Al nobiluomo appartennero dunque, riepi- 
logando nell'ordine d’esecuzione delle tele veterotestamentarie, quella con Sara e 
Tobia di Cecco Bravo (1646-47), il Loth e le figlie in fuga da Sodoma di Simone 
Pignoni (1648), l’Agar e l'angelo di Vincenzo Mannozzi (1652-53), il David e 
Abigal dovuto anch'esso al pennello del Pignoni (1658). 

Nel corso di questi anni le iniziative collezionistiche di Strozzi ebbero poi 
anche altri momenti significativi, ugualmente dovuti agli artisti di cui si è detto: 
il Mannozzi, ad esempio, realizzò per lui, nel 1655, due quadri, una tela con 
una Maga Circe, chiesta a pendant con un'altra tela di soggetto negromantico, 
“Due fate che tempravano una spada”! — soggetto trattato qualche anno prima 

- e l’anno successivo ancora due tele, una con San Sebastiano, 


anche da Furini!” 
l’altra con un San Giovanni Battista nel deserto!”. Una serie di pagamenti scalati 


172 Ivi, n. 338, c. 485, “Simon di (...) Pignoni Pittore deve dare a’ di 6. di Giugno (1658) scudi 
diciassette.1 portò cont.ti à conto di un quadro che mi dipigne”; “23 luglio scudi quarantadua.6 portò 
cont.ti per mano di Gio: Camm.o Malatesti per resto di scudi 60 prezzo di un quadro a olio di una Abi- 
gail alto braccia (...) e (...) come in filza n.0 1152”; “1659 Havere a 30 Giugno scudi 60 per tanti fatto 
debitore a masserizie 141”. Del documento ho già dato notizia, pubblicandolo, in In fabula. Capolavori 
restaurati, cit., p. 197. 

173. Cfr. E. Baldassari, Simone Pignoni (Firenze, 1611-1698), Torino, 2008, pp. 31, 108 n. 39. 

174 Cfr. Spinelli, in /n fabula. Capolavori restaurati, cit., p. 197. 

ASFi, CS, V serie, n 338, c. 412, 8 marzo 1655, si paga Vincenzo Mannozzi “per conto di 2 
quadri a olio che uno d’una Circe alto braccia 2.3.8 e 1.14, l’altro di 2 fate che temperano una spada 
alto braccia 2 1/5 e 1.14.6”. In quel giorno venne rimborsata al Mannozzi anche la spesa delle tele. Non 
è escluso che un pagamento corrisposto a Jacopo Maria Foggini il 30 giugno 1655 per un “ornamento 
intagliato di braccia 3 14 e braccia 2 4/5” possa riferirsi a una delle due tele sopracitate (ivi, c. 427). 

17 Sul dipinto cfr. G. Cantelli, Francesco Furini e i furiniani, Pontedera, 2010, p. 130, nn. 61. 
GIA. La corretta interpretazione del soggetto, ispirato al poema cavalleresco in ottava rima L’Angelica 
innamorata di Vincenzo Brusantini, si deve a M. Gabriele, in /n fabula. Capolavori restaurati, cit., pp. 
148-153. 

17. ASFI, CS, V serie, n 338, c. 449, 20 novembre 1656, si danno due scudi a “Vincenzo Man- 


175 


218 


Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell’Archivio di Stato di Firenze 


tra l'agosto del 1661 e lo stesso mese dell’anno successivo, rilasciati al Pignoni 
“a conto di un quadro che mi fa”, di soggetto sconosciuto, attestano inoltre la 
continuità dell’interesse di Strozzi per la pittura di questo maestro! che venne 
affiancato, in quadreria, da tele di Giacinto Botti!”?, di Giacinto Gimignani!8°, di 
Agnolo Gori'8!, da “quadri di fiori venuti da Roma” rappresentanti le Stagioni"*, 
da alcuni “panni d’arazzo” come quello fatto accomodare nel gennaio tu 1657 
a “Bernardo Vanassel” e destinato all’anticamera'*, l’altro avuto il 3 agosto di 
quell’anno dall’arazziere Niccolò Bartoli raffigurante “boscaglie e animali e uccel- 
li”, una portiera sempre del Bartoli, arrivata nell’ottobre successivo!84. 

Nelle sale del palazzo non mancarono poi i ritratti dei famigliari!*, dei Me- 
dici!8° e anche dipinti e stampe di scuole straniere — “due quadri di Fiandra”; un 
“quadro di ballerine”, “tre quadri di battaglie”, nove stampe da Rubens'#; un 
dipinto ‘storico’ di “Gio. Giorgio Scheicher fiammingo” con i Dodici ambascia- 
tori fiorentini ricevuti da papa Bonifacio VIII8S (soggetto trattato anche da Jacopo 
Ligozzi nel salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio e caro alla famiglia dal 
momento che di quella compagine fece parte anche Palla Strozzi) — a comporre 
una collezione di ragguardevole varietà e interesse, ad oggi sconosciuta e in gran 
parte dispersa, nella speranza che queste note d’archivio possano consentire qual- 


che identificazione tra le numerose opere ricordate nei documenti. 


nozzi portò contanti per conto di un San Bastiano a olio in tela alto braccia 1.1.4, largo braccia 17.4”; 
12 dicembre 1656, si pagano scudi 10 a Vincenzo Mannozzi “per conto di un S. Gio nudo nel diserto 
alto braccia 2.11, largo braccia 2.18 a olio in tela”. 

178. ASFi, CS, V serie, n. 343, c. 141s, “Simone di [...] Pignoni Pittore deve dare a di 26 Agosto 
(1661) scudi ventidua. 6 portò contanti per mano del Malatesti a’ conto d’un quadro che mi fa”; “27 
Aprile (1662) scudi quarantotto. 4 portò contanti per mano del Lampugnani”; “21 Agosto (1662) scudi 
trenta portò contanti Pietro Lampugnani”. 

17. Ivi, n. 338, cc. 306, 7 novembre, 9 dicembre 1649; 494, 30 giugno 1659. 

180 Ivi, c. 506, “Jacinto Gimignani Pittore deve dare a’ di 20 settembre (1659) scudi venti portò 
cont.ti per mano do Gio: Camm.o Malatesti a’ conto di un quadro che mi fa”; “29 xbre scudi ottanta 
p.ti cont.ti per mano di d.o in filza a 1195”; 28 febb.o (1660) scudi diciassette. 1 porto contanti”; “1660 
Havere a 30 di Giugno per tanti fatto debitore a masserizie in questo a 503”; c. 503, in data 5 dicembre 
1659 si registra l’arrivo della tela. Un pagamento del 18 agosto del 1656 non è escluso si qualifichi come 
un primo anticipo del lavoro, poi consegnato (ivi, c. 444), saldato il 30 giugno 1660 (ivi, c. 503). 

18! Ivi, n. 343, c. 146, 30 luglio 1662, per due quadri a olio “alti braccia 1 4, larghi braccia 2”. 

182 Ivi, c. 194, 30 gennaio 1665. 

183. Ivi, n. 338, c. 449, 23 gennaio 1657. 

184. Ivi, c. 460. 

185 Il 18 agosto del 1659 si consegnavano delle tele a Romolo Panfi per dipingerci i ritratti dei figli 
di Lorenzo; cfr. ivi, c. 503. 

18 Il 18 agosto 1663 si commissionava al pittore Silvestro Formigli la copia di una tela il “ritratto 
del principe di Toscana”, ivi, n. 343, c. 165; nell’agosto del 1667 un ritratto del granduca Ferdinando 
II, richiesto a Benedetto Marchionni, ivi, c. 253. Il Formigli, a evidenza un copista, s'era già proposto 
nell’agosto del 1647 con una replica di un ritratto di Piero Strozzi voluto da Lorenzo e destinato a ‘La 
Colombaia; cfr. ivi, n. 338, c. 246, 6 agosto 1647. 

187 Ivi, n. 338, c. 483, 11 giugno 1658. 

188. Ivi, cc. 486, giugno 1658; 503, 30 giugno 1659. 


219 


Riccardo Spinelli 


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VO O9_Q 


221 


Riccardo Spinelli 


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n. 75/1 (L. Strozzi), Vite Degl’Huomini Illustri Della Famiglia degli Strozzi. 
Parte prima. 


Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, IV serie 

n. 107, Debitori e creditori e ricordi di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 
1614-1630. 

n. 109, Giornale di Carlo di Tommaso Strozzi, 1622-1636. 

n. 110, Giornale e ricordi di Carlo di Tommaso Strozzi tenuto in Roma, 1636- 


H_ 
C\ 
A 
i 


DIDO 


. 111, Entrata, uscita e ricordi di Carlo di Tommaso Strozzi, 1637-1640 

. 112, Debitori e creditori di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 1620-1641. 
. 113, Giornale di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 1642-1652. 

. 114, Debitori e creditori di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 1642-1653. 
. 115, Giornale e ricordanze di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, 1653- 


16 


\ 
DD 


ai 16, Debitori e creditori di Carlo di Tommaso Strozzi, 1652-1662. 
n. 117, Giornale e ricordi di Carlo di Tommaso Strozzi, 1662-1680. 


Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, V serie 

n. 333, Debitori e creditori di Lorenzo di Lorenzo di Giovan Battista Strozzi, 
1635-1645. 

n. 334, Entrata Uscita e Quaderno di cassa di Lorenzo di Lorenzo di Giovan 
Battista Strozzi, 1635-1645. 

n. 338, Entrata, uscita e quaderno di cassa di Lorenzo di Lorenzo di Giovan 


Battista Strozzi, 1645-1660. 
n. 343, Entrata, uscita e quaderno di cassa di Lorenzo di Lorenzo di Giovan 
Battista Strozzi, 1660-1670. 


222 


Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell’Archivio di Stato di Firenze 


Fig. 1 - Anonimo, Rizratto di Carlo di Tommaso di Simone Strozzi, Firenze, Archivio di Stato, Carte 
Strozziane, III serie, n. 75/1, c. 87r. 


223 


Riccardo Spinelli 


Fig. 2 - Giovanni Martinelli, Santa Caterina d'Alessandria, collezione privata. 


224 


Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell'Archivio di Stato di Firenze 


Fig. 3 - Cesare Dandini, San Michele Arcangelo, ubicazione sconosciuta (già collezione Bigongiari). 


225 


Riccardo Spinelli 


Fig. 4 - Cesare Dandini, San Michele Arcangelo, Prato, Palazzo degli Alberti, collezione Banca Popolare 
di Vicenza. 


226 


Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell’Archivio di Stato di Firenze 


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Fig. 5 - Gherardo Silvani e Francesco di Pier Rinaldi, Portale e Stemma Strozzi-Machiavelli, Firenze, 
Villa ‘La Colombaia, facciata su via delle Campora. 


227 


Riccardo Spinelli 


Fig. 6 - Gherardo Silvani, Finestra, Firenze, Villa ‘La Colombaia, facciata su via delle Campora. 


228 


Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell’Archivio di Stato di Firenze 


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Fig. 7 - Cecco Bravo, Sara e Tobia, collezione privata. 


Fig. 8 - Carlo Lasinio (da Cecco Bravo), Sara e Tobia, incisione in Lastri, Etruria Pittrice. 


229 


Riccardo Spinelli 


Fig. 9 - Simone Pignoni, Loth e le figlie in fuga da Sodoma, collezione privata. 


230 


Documenti artistici dalle ‘Carte strozziane’ nell’Archivio di Stato di Firenze 


Fig. 10 - Simone Pignoni, David e Abigail, Pistoia, Palazzo dei Vescovi, collezione Intesa Sanpaolo 
(collezione Bigongiari). 


231 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita 
spirituale dell’Italia» 


ELISABETTA MALVALDI 


L'arte italiana del Novecento annovera interessanti figure ancora oggi carenti 
di adeguata analisi (e conseguente riconoscimento). Si tratta perlopiù di artisti 
locali che, a riscoprirne la vicenda, si rivelano fondamentali presenze vive e cultu- 
ralmente cruciali per la storia dei luoghi cui appartennero. 

Per la città di Pisa è questo il caso, tutt'altro che singolare, di Mino Rosi: 
personaggio di rilievo sia per la produzione artistica che per quella editoriale, egli 
condusse la propria esperienza di artista da protagonista nel dibattito culturale 
negli anni a cavallo tra le due guerre e l'immediato secondo dopoguerra, di cui in 
questa sede si è cercato di tracciarne un profilo per ulteriori spunti di riflessione. 


Cenni biografici: attività artistica ed espositiva 

Nato a Volterra nel 1913 da Ruggero, scultore in alabastro, e Corradina Soldi, 
si diplomò nel 1935 come privato all'Istituto d'Arte di Porta Romana di Firenze, 
e sin da qui maturò interesse per l'aggiornamento artistico in Italia, ad esempio 
con le letture postume delle riviste fiorentine «Lacerba» e «La Voce». In questi 
anni avviò quella che sarà una lunga serie di scambi epistolari con gli attori prin- 
cipali sia della critica che dell’arte contemporanea. Di questo Lul è l’incontro 
con Ardengo Soffici, la prima volta nel 1933 a Poggio a Caiano, il quale rivestì il 
ruolo di primo riferimento, come si evince dai carteggi: «Approfondisca il senso 
dell’arte e della poesia [...] Le sue incisioni sono buone - anzi molto buone. Ma 
c'è ancora un po’ di maniera, di gusto modernistico, che le fa trovare piuttosto 
lo stilismo che lo stile. Bisogna andare al fatto naturale»!. In questo senso, il 
paesaggio fu la prima, ricorrente fonte di analisi e ispirazione: perno sul quale 
sviluppare tutte le successive arti, dall’incisione all'olio, dal mosaico alla vetrata, e 
il «disegno grande fondamento»? fu esercizio continuo, quasi ovvio retaggio della 


scuola toscana?. 


!  Lalettera, inviata da Forte dei Marmi e datata 23 agosto 1933, è stata per la prima volta tra- 


scritta e pubblicata col titolo Due lettere a Mino Rosi in N. MICIELI, 2011a, p. 426. 

2 Dauna lettera di Luigi Gioli (1855-1947) a Mino Rosi, da Firenze, il 16 settembre 1929 «[...] 
Non fa male provarsi nella pittura a olio che obbliga a studiar meglio il colore, ma quello che più conta 
è disegnare. Il disegno rimane sempre il grande fondamento». N. MICIELI, Ibidem, p. 232. 

3. Si legge nel suo Taccuino il 16 giugno 1983: «Con i mici disegni di paesaggio della mia cam- 
pagna, che ancora rimembro, volevo dimostrare con umiltà di essere un “alunno della poesia” [...] Il 
pittore deve impugnare la matita e guidarla sul bianco del foglio, come un archetto di violino, onde 
ottenerne un segno modulato, flessibile, denso e acutamente sensibile». N. MICIELI, Ibidem. 


233 


Elisabetta Malvaldi 


Subito dopo il diploma, Rosi fu chiamato a insegnare Storia dell’Arte al Liceo 
Classico di Volterra, dando avvio al lungo percorso da docente, che ebbe seguito 
con l'insegnamento di discipline artistiche prima negli istituti professionali di 
Carrara (dl 1936) e di Pisa (dal 1939), ed infine all'Istituto d'Arte di Cascina. 
Diresse successivamente la sezione di Grafica Pubblicitaria dell’Istituto d’Arte di 
Firenze e, dal 1962, l’Istituto d'Arte di Pisa, di cui fece la prima e unica scuola in 
Italia specializzata nell’arte della produzione e del restauro della vetrata artistica e 
della lavorazione del cristallo. Parallelamente continuò a tessere una proficua rete 
di corrispondenze con molti artisti: fra gli altri, Mino Trafeli rimarcò più volte il 
valore di Rosi quale ambasciatore del fermento attivo a Roma, Milano e Venezia, 
si ricordi fra tutti l'episodio dell'incontro con Arturo Martini nel 1937 a Car- 
rara, durante la creazione dell’altorilievo in marmo della Giustizia Corporativa 
per l’omonimo palazzo di Milano”: in questa occasione Rosi condivise con Tra- 
feli l'avanzamento dello stato dell’opera di Martini, corredando le informazioni 
con puntuali fotografie’. Lo stesso Martini gli consentì di tornare nuovamente a 
Roma per la III edizione del 1939 della Quadriennale”, dopo la prima presenza 
nel 1935, attivandosi con Cipriano Efisio Oppo per assegnargli la sala che nell’e- 
dizione precedente era stata occupata da Luigi Bartolini. 

Numerosi sono gli inviti ad altre importanti manifestazioni nazionali a cui 
presenziò nei primi anni soprattutto con incisioni, e con oli e acquerelli a seguire. 
Si cita ad esempio la Biennale di Venezia, alla quale dal 1934 partecipò a diverse 
edizioni: in quella cruciale del 1948, la XXIV, espose l’olio su tavola Pulcinelli 
nel mio studio: una piccola opera in cui lo scultore è ritratto stante, con la mano 
sinistra accostata ad alcuni libri poggiati su un tavolo di legno. La materia pitto- 
rica è corposa, stesa con brevi e dense pennellate che costruiscono la volumetria 
delle pareti e del mobilio della stanza: sono gli anni degli scambi con Guttuso e 
dello studio di Van Gogh, rintracciabile nella sedia sulla sinistra che richiama la 
Camera di Vincent ad Arles (1888). La rielaborazione di correnti estetiche come 
ad esempio il post impressionismo ora richiamato fu sempre in chiave personale, 
e in ogni caso l'itinerario pittorico di Rosi ripercorse a più riprese le colline della 
Val d’Era: nella rassegna del 1948 espose ine un olio su tela firmato e datato in 
basso a destra «m. rosi 47» intitolato Mattino d'estate. 

A Pisa risiedette stabilmente dal 1939, ma iniziò ad esporre già nel 1935: la 
rivista universitaria fascista «Il Campano», cui contribuì in maniera determinan- 
te come vedremo poco oltre, nella pubblicazione del giugno dello stesso anno 


4 Della Giustizia Corporativa abbiamo anche il saggio critico M. ROSI, Arturo Martini e l’alto- 


rilievo della Giustizia Corporativa, «Il Telegrafo», 10 febbraio 1938. 

°. Leggiamo dalla testimonianza di Trafeli: «[...] Un ruolo, il suo, di artista moderno colto, in 
avanscoperta. Ci informò di come Guttuso stava dipingendo la Crocefissione per il Premio Bergamo, 
quella dello scandalo; come Arturo Martini, a Carrara, “tagliava il marmo” per scolpire l’altorilievo alle- 
gorico della Giustizia Corporativa mostrandoci piccole foto degli avanzamenti dell’opera del maestro». 
Mino Trafeli, Mino Rosi artista moderno e colto, in avanscoperta in N. MICIELI, 2011a, p. 89. 

6 Nell’autopresentazione del catalogo, Rosi accenna al rapporto con Ardengo Soffici, ricordando 
il proprio esercizio per sviare da «estetismi derivati dalle correnti artistiche internazionali [che] influiro- 
no non poco ad avvelenare, in parte, la mia sensibilità artistica, spingendomi nella ricerca di substrati 
culturali e cerebrali». M. ROSI, Catalogo generale, Milano-Roma 1939, pp. 277-279, La presentazione 
è accompagnata dal disegno Olivi in Val d'Era. 


234 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


riporta un articolo firmato con sigla «e.c.»”, intitolato La VI Mostra del Sindacato 
di Belle Arti di Pisa e che rende un'idea dell'evento divulgativo del panorama 
artistico contemporaneo e non solo come rassegna di arte pisana. Ospite d’onore 
era Felice Carena, di cui ne furono presentati gli allievi Renzo Lupo e Salvatore 
Pizzarello. Tra i nomi celebri pisani spicca Giuseppe Viviani, e in questa sezione 
dell’antologia è inserito anche Rosi*, artista ormai affermato e internazionale. 

Singolare è invece il fatto che si registrino solo tre personali pisane. Nella pri- 
ma, dal dicembre 1942 al gennaio 1943 al Regio Teatro Verdi, durante l'XI Mo- 
stra d'Arte Sindacale provinciale, Rosi espose in un'unica sala ventisei disegni e 
ventiquattro tra oli e acquerelli. Seguì quella all'Hotel Nettuno, dal 7 al 29 marzo 
del 1948, dal titolo Mino Rosi. 35 dipinti, in cui allestì significativamente opere 
degli ultimi tre anni. In una «Avvertenza» d’apertura al catalogo, Rosi affronta 
il tema della propria ricerca figurativa in paragone alle coeve estetiche italiane, 
argomento che ebbe esiti, come vedremo, anche nell’editoria da lui diretta, e 
per cui qui indica le proprie scelte: «I dipinti qui esposti si trovano in posizione 
contrastante con le varie tendenze del post-impressionismo e del post-macchia- 
iolismo. [...] Questa pittura si trova anche in posizione di contrasto col recente 
neocubismo italiano, per una ragione derivante da una educazione naturalistica 
alla quale il pittore è rimasto in un certo senso fedele»!°. L'ultima personale pisa- 
na, Disegni Acquarelli Pastelli, si tenne a Palazzo alla Giornata nel 1949 per conto 
dell'Art Club i di Pisa con ottantuno opere recenti. Dalla Val d’Era 
alle Dolomiti del Cadore viene riproposto il caro tema del paesaggio, ed in questa 
occasione figura anche una serie di pastelli e tempere sul tema delle foglie autun- 
nali, accartocciate e ingiallite, quasi stilizzate nella sintesi della forma. 

Negli anni Cinquanta si aprirono nuovi scenari: Rosi si dedicò da questo 
periodo alla lavorazione diretta del mosaico e della vetrata istoriata a gran fuoco, 
con la realizzazione di opere religiose e laiche. Tra le commissioni musive si ri- 
cordano, ad esempio, Mosaico allegorico. Le attività economiche per la Camera di 
Commercio di Pisa del 1952 e i mosaici della Via Crucis del duomo di Pontedera 
del 1957. Per quanto riguarda l’attività da vetragista, si citano commissioni di ri- 
lievo quali il Sar Ranieri per l'abside del Duomo di Pisa da parte dell’Opera della 
Primaziale nel 1954, la Proclamazione dell'Assunta per la Collegiata di Casole 


7. Verosimilmente il pisano Enzo Carli, poi senese d’adozione, che da allievo di Mario Salmi e 


Matteo Marangoni nel 1931 si laureò in Lettere all’Università di Pisa con una tesi su Tino di Camaino. 
AlPepoca della pubblicazione dell’articolo Carli era docente ai licei Dante e Michelangiolo di Firenze, 
ma i suoi rapporti con il mondo universitario pisano non si erano interrotti e nel 1942 esercitò presso 
la facoltà di Lettere dell’Università di Pisa l'insegnamento di Storia dell'Arte Medievale e Moderna. 

8. Nell’articolo è riprodotto l’olio su tela Autoritratto di Rosi, del 1934. 

2 «Aramis Cazzola, Giovanni Caniaux, Nello Gentilini, Ugo Pierotti, Ferruccio Satti, Augusto 
Sirletti ed altri rappresentano sicure promesse per la pittura pisana di un prossimo domani: e sarebbe 
inutile ormai, in questa nota che ha solo lo scopo di segnalare l’attività delle giovani reclute pisane, 
scrivere intorno agli altri espositori, ormai consacrati meritevolmente ad una larga fama: che si potrebbe 
dire infatti di nuovo su Lorenzo Viani, su Ascanio Tealdi, su Umberto Vittorini, su Mino Rosi, su Ma- 
rio Bacchielli, su Baccio M. Bacci, su Augusto Gardelli, su Franco Dani, Giannino Marchig, su Plinio 
Nomellini se di loro non si sono occupate ripetutamente e si occupano tuttora le cronache di più note 
competizioni italiane e straniere?». E.C., «Il Campano», n. 3-4, 1935, pp. 35-36. 

!0 M. ROSI, Catalogo della mostra, Pisa 1948. 


235 


Elisabetta Malvaldi 


d’Elsa dalla Soprintendenza di Siena, La passione di Cristo per la chiesa parroc- 
chiale di Larderello del Michelucci!!. Altro intervento da segnalare è nel contesto 
del restauro di San Michele in Borgo dopo il bombardamento del 1944, per la 
cui monofora absidale il soprintendente Sanpaolesi chiamò Rosi, che completò il 
piano di restauro con una vetrata istoriata col San Michele Arcangelo tra il 1957 
e il 1959". Infine, si cita il cosiddetto «Occhio della Cattedrale» volterrana, il 
rosone collocato sopra il portale di ingresso ovest del Duomo patrocinato dal Ro- 
tary Club e progettato attraverso l’analisi iconologica e ideologica dei contenuti 
delle opere già presenti nella costruzione, e infine risolto con l’Incoronazione della 
Vergine. 

Nel 1960 morì prematuramente il figlio, e seguì una parentesi in cui Rosi, 
concentrandosi unicamente sull’insegnamento, interruppe momentaneamente la 
produzione artistica; soltanto nel 1978 sentì di ricominciare l’opera pittorica, alla 
riscoperta dei grandi paesaggisti inglesi come Turner e Constable. Nel 1979 tor- 
nò anche l’amato paesaggio volterrano, con pastelli e acquerelli che si alternano a 
vedute romane e in cui l'atmosfera è adesso crepuscolare, quasi con una memoria 
versiliese, come una pacata rielaborazione dei punti di avvio della carriera di pit- 
tore: nei toni celesti e rosati, arancio e verde acqua, pare di scorgere a volte una 
lirica del colore nomelliniana, e in certe Vedute di Monte Mario, Ti 1979, la mo- 
dulazione tenue della luce e la fluidità della composizione rimandano a quanto 
di Rosi scrisse l’amico Bartolini nel 1942: «Io vedo già quali saranno gli sviluppi 
dell’arte di Mino Rosi: idillica, serena, corottiana e bella arte»!5. 

Questi furono gli ultimi esiti della carriera artistica di Rosi che spirò a Siena il 
17 maggio del 1995 per un malore improvviso. 


Cultura editoriale fascista a Pisa: uno sguardo a «Il Campano» di Mino 
Rosi 

Nel Novecento pisano, tra gli esiti della politica culturale del Fascismo è da 
indicare la nascita, il 1° marzo del 1926, della rivista del Gruppo Universitario 
Fascista «Il Campano»!“, e alla cui pubblicazione Rosi contribuì come riferimen- 
to per le declinazioni che l’arte stava assumendo in città e non solo, complice 
sicuramente la rete di relazioni con le più significative personalità artistiche del 
tempo”. 


!! Si cita qui anche la vetrata centinata del coro della Chiesa dei Santi Ippolito e Cassiano di Ri- 


glione (Pisa), inaugurata il 25 settembre del 1968 e composta con la struttura di una pala d’altare nella 
cui parte principale superiore è raffigurata la Sacra Famiglia, corredata da una sottostante parte a guisa 
di predella su tre registri sovrapposti con la Vita del Cristo. 

2 Di Rosisi legge in tal proposito: «[...] Inserire un’opera d’arte nel nostro tempo in un ambiente 
antico senza rinunciare ad una logica coerenza, è sicuramente cosa assai difficile. Dovevo tener presente 
innanzi tutto la struttura romanica del Tempio, ritrovata dopo l’intelligente ripristino e restauri dovuti 
all'architetto Piero Sanpaolesi Soprintendente ai Monumenti [...] di qui la necessità di orientare con 
misurato equilibrio gli elementi compositivi, cromatici e iconografici». Saggio di M. ROSI, in N. MI- 
CIELI, 2011a, p. 122. 

1. L. BARTOLINI, «Edizioni il Campano», 1942. Riprodotto in N. MICIELI, 2011a, p. 56. 

!# Essenziale per lo studio della rivista è P NELLO, 1983. 

!5 Sono documentati rapporti di collaborazione e scambio sia con realtà toscane (oltre ai già citati 
Martini, Rosai, Soffici e Trafeli, si annoverano personalità come Carlo Cassola, Luigi Gioli, Franco Rus- 


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Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


Inizialmente connotato come organo di propaganda, durante i primi anni di 
pubblicazione della rivista si nota una certa difficoltà nel conquistare una via di 
rinnovamento che emerga dall’interno, in un momento in cui lo stesso ministro 
dell'educazione nazionale Giuseppe Bottai ragionava sulla necessità di un dina- 
mismo culturale scevro da ogni ingerenza del sistema!°. Sul filo delle riflessioni di 
Bottai, e a titolo d'esempio per indicare la strada che prenderanno le sue successive 
pubblicazioni, si cita il primo contributo di Rosi ne «Il Campano», del maggio- 
giugno 1935: nell'articolo Breve giro per le mostre!” recensisce i Littoriali dell’arte, e 
presentando La leva fascista di Otello Chiti apre alla problematica questione dell’in- 
dipendenza dell’arte dalla politica: disapprovando l’esplicito e insistito riferimento 
a Piero della Francesca molto caro al Novecento guidato da Margherita Sarfatti, 
senza mezzi termini condanna «lo sventolamento delle bandiere, il movimento mo- 
numentale dei labari, nelle cui aste sono issate aquile di potenza metafisica, della 
cui ridondanza dei soggetti e delle ispirazioni è bene diffidare», augurandosi che 
«un giorno la Natura richiamerà all'ordine il nostro spirito - certe volte malato di 
letteratura - tracciandoci essa natura la vera strada da seguire». 

La pubblicazione della rivista subì negli anni diverse interruzioni a causa della 
difficoltà nel reperire fondi, e quando l'organo del Gruppo Universitario Fascista 
pisano riprese le pubblicazioni nel febbraio del 1940, lo fece come supplemento 
mensile di «Civiltà del lavoro» e dal maggio-giugno di «Costruire». Avvenne in 
quel torno d’anni un significativo mutamento di clima all’interno della reda- 
zione, che vide Rosi redattore-capo dal 1941: iniziava ad emergere sempre più 
esplicitamente la necessità di una critica autonoma rispetto alla ideologia fasci- 
sta. Nel corso dei quindici anni di alterne pubblicazioni, dunque, «Il Campano» 
mutò rotta e se inizialmente l’ingerenza del regime era soverchiante, nel corso 
degli anni il passaggio delle consegne alle nuove generazioni scaturì la riflessione 
per cui l’arte e la cultura necessitavano ora autonomia e sradicamento dai valori 
precedentemente imposti, meditazioni in cui l’ingresso in guerra dell’Italia aveva 
non poco peso. Su questa linea si mosse la redazione di Rosi, negli anni in cui se 
ne occupò insieme ai tre studenti della Scuola Normale Superiore Edoardo Tad- 
deo, Renato Tortorella e Antonio Mucciarelli. Certo ancora ufficialmente pubbli- 
cazione fascista, la rivista ospitò però in questo periodo spunti e interpretazioni 
controcorrente, conducendo (non sempre solo tra le righe) un'aspra polemica 
contro quella parte del regime che limitava l'autonomia culturale!8. 


soli, Piero Sanpaolesi, Gino Severini, Mario Sironi, Emilio Tolaini, Lorenzo Viani, Giuseppe Viviani), 
sia con realtà nazionali e internazionali quali Afro, Luigi Bartolini, Renato Birolli, Massimo Campigli, 
Felice Casorati, Filippo De Pisis, Renato Guttuso, Fernand Léger, Giacomo Manzù, Marino Marini, 
Aligi Sassu, Jacques Villon e Ossip Zadkine. 

16 Per l’analisi della politica culturale del gerarca fascista, si veda A. MASI, 2009, pp. 81-85. 

1 M_ROSI, «Il Campano», n. 3-4 maggio-giugno, 1935. 

!8. Significativo l'intervento Arte e politica di E. M. ROSINI sul n. 1, «Il Campano», 1939: «[...] 
Se concludiamo per la soggezione dell’arte alla politica, andiamo contro la nostra coscienza artistica, 
che ci impone di considerare l’arte come attività creatrice assolutamente libera [tuttavia] l’arte non può 
essere avulsa dalla vita politica, perché non può essere avulsa dalla storia. [...] Arte e politica non vanno 
considerate dunque in un rapporto che si possa esprimere in termini di gerarchia; ma come attività 
d’indole diversa che, autonoma ciascuna rispetto ai propri fini particolari, perseguano una finalità, che 
è, ripetiamo, un continuo miglioramento sociale». 


237 


Elisabetta Malvaldi 


Così si accese a Pisa il dibattito sull’arte: il merito di Rosi sta nella capacità di 
costruire ne «Il Campano» (adesso con il sottotitolo eloquente di «Politica - let- 
teratura - arte») un confronto continuo che permise non solo la diffusione delle 
correnti artistiche contemporanee ma anche la pubblicazione di questi rilevanti 
interventi talvolta sul filo del rasoio della censura. «Il Campano» di Rosi con- 
sentì infatti la promozione di artisti che, sebbene formatisi in seno al fascismo, 
iniziavano a percepirne sensibilmente i limiti: si guardi ad esempio la Prefazione 
a Renato Guttuso edita nel gennaio-febbraio del 1942 e scritta dallo stesso Rosi, 
che con il pittore siciliano aveva ormai intrapreso da tempo rapporti di scambio: 
in questo articolo si rende una lucida testimonianza dell’elaborazione pittorica 
di Guttuso, accennando ai temi che l'eredità di «Corrente» lancerà nel dibattito 
nazionale postbellico!?. 

Rappresentativo poi su questa linea editoriale, tra gli altri, è l’articolo di Gior- 
gio Casini, in cui si richiama l’attenzione sul “tema libero” proposto per l’edizio- 
ne del Premio Bergamo dell’anno successivo. La novità del Premio Bergamo del 
1942 fu proprio, come si legge, la volontà di risparmiare agli artisti imposizioni 
sui soggetti o sulla costruzione del quadro, donando pari merito ad una natura 
morta e un ritratto, qualora entrambi significativamente fossero stati elaborati 
secondo lo stile personale dell'artista, senza «gerarchia di schemi» o «moduli figu- 
rativi» che mortificassero la composizione”. 

L'esperienza della rivista del GUF pisano si concluse infine con la pubblicazio- 
ne per le «Edizioni del Campano» degli Scritti d'eccezione di Luigi Bartolini, per 
cui Rosi pagò tutto in una volta il prezzo della sua libertà da caporedattore. Bar- 
tolini era da tempo nell'occhio del mirino del regime che per ragioni di dissensi 
polemici, e per i contatti con Lionello Venturi na esiliato, lo aveva interdetto 
dalla pubblicazione. Dopo lunga e sofferta gestazione e non senza remore da 
parte di Rosi, riscontrabili nella corrispondenza fra i due, Scritti d'eccezione vide 
la luce nel maggio del 1942 con diciassette disegni di Rosi eseguiti tra il 1940 
e il 1942 in ai d’Era, ma venne immediatamente requisito dalla Prefettura di 
Pisa, e Rosi fu chiamato a risponderne al Ministero dò Cultura Popolare. Il 
volume venne poi ripubblicato da Nistri e Lischi nel 1948, con il titolo Liriche 
e polemiche e una prefazione dello stesso Bartolini quando ormai l'atmosfera era 
definitivamente mutata?!. 


Questioni d’arte contemporanea in «Paesaggio. Quaderni di letteratura e 
arte diretti da Mino Rosi» 

Il più significativo evento che nella memoria cittadina pisana identifica la 
portata delle distruzioni della guerra è sicuramente la perdita di gran parte degli 
affreschi del Camposanto Vecchio, rovinati sotto il piombo fuso dei proiettili 
delle artiglierie alleate nella fine di luglio del 19442, I quartieri di Mezzogior- 


!° Anche se non risultano collaborazioni di Rosi con «Corrente», ne promosse con articoli c 


commenti alle loro opere alcuni degli esponenti di punta, quali Domenico Cantatore, Giacomo Manzàù, 
Mirko, Afro e Guttuso. 

20 G. CASINI in «Il Campan®», n. 5, 1941. Riprodotto in P NELLO, 1983, pp. 320-322. 

21 Si veda N. MICIELI, 1998a, pp. 17-18. 

22 A proposito del patrimonio artistico pisano in tempo di guerra, si veda E. FRANCHI 2006. 


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Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


no, a sud dell'Arno, furono ridotti ad un inferno di macerie, e com'è noto lo 
stillicidio, iniziato il 31 agosto del 1943, durò fino al 2 settembre 1944, quan- 
do da Porta Fiorentina i primi reparti americani e i partigiani fecero il loro 
ingresso in una Pisa gravemente danneggiata anche nel suo aspetto urbano e 
artistico. Dall’aprile 1943 al novembre 1944 Mino Rosi e la sua famiglia vis- 
sero in condizione di sfollati nel comune di Calci, da dove il pittore raggiun- 
se più volte Pisa, producendo la cosiddetta serie di Pisa distrutta dalla guerra: 
si tratta di numerosi disegni a china che, eseguiti dal vero ed alcuni il 
ti poi in studio a olio, sono una dolente cartolina del passaggio della guerra. 
Il programma di ricostruzione del patrimonio artistico della città? vide Rosi ri- 
coprire diversi ruoli istituzionali: tra gli altri, fu nominato presidente della Com- 
missione provinciale per le bellezze naturali, cui seguì la trentennale collaborazio- 
ne con l'Opera Primarziale Pisana come membro della sua Deputazione, tramite 
cui partecipò alla costituzione del Museo delle Sinopie conseguente il processo di 
restauro del Camposanto Monumentale”. 

«Paesaggio. Quaderni di letteratura e arte diretti da Mino Rosi», con il sot- 
totitolo finalmente esonerato da qualsiasi intromissione politica??, nasce con il 
sentimento di voler intervenire prontamente in questo contesto. Non è rintrac- 
ciabile tra i documenti un momento preciso al quale ascrivere la nascita dell'idea 
della rivista che Rosi fondò e diresse nel 1946, è tuttavia molto verosimile che 
il continuum con le precedenti esperienze editoriali fosse già nelle sue intenzio- 
ni al momento del termine della sua attività ne «Il Campano». In tutta Italia 
le riflessioni estetiche e sul restauro del patrimonio storico-artistico nel dopo- 
guerra furono condotte attraverso un accesissimo dibattito intellettuale che si 
svolse principalmente su testate editoriali neonate o finalmente senza censure, 
per cui alle culture accademica e artistica premeva in maniera cocente attivarsi 
per la rinascita culturale del Paese, e «Paesaggio» si allinea a questo proposito?°. 


23. Si veda S. RENZONI, 2014. 

24 A tal proposito nel 1956 fu istituita la Commissione di studio per la definitiva sistemazione 
degli affreschi del Camposanto di Pisa, presieduta da Giuseppe Ramalli, Operaio Presidente della Pri- 
marziale, per la quale Rosi, nominato segretario, appoggiò la proposta di Marangoni” sulla collocazione 
degli affreschi nelle sale laterali e per la sistemazione al loro posto di riproduzioni. Atto conclusivo del 
ciclo di restauro di Piazza dei Miracoli fu l'istituzione di una Commissione consultiva per i problemi 
artistici dell'Opera Primarziale, impegnata nella collocazione in sede stabile delle opere provenienti 
dall’intero complesso monumentale, sostituite da copie: a questo scopo nel 1986 venne inaugurato nel 
restaurato Monastero delle Clarisse il Museo dell'Opera del Duomo, alla cui realizzazione Rosi contri- 
buì facendo parte delle sotto-commissioni che ne decisero la struttura. 

© V. infra, per «Il Campano. Politica - letteratura - arte». 

A titolo d’esempio, a Milano: «Il Politecnico», rivista di politica e cultura fondata da Elio 
Vittorini nel 1945, edita da Einaudi; «Rassegna d’Italia», fondata da Francesco Flora e distribuita dalla 
Gentile a partire dal 1946; «Argine Numero» nato a Novara nel 1945, che nel 1947 mutò il titolo in 
«Numero Pittura»; infine, «Il ‘45», mensile d’arte e poesia diretto da Raffaele De Grada ed uscito in tre 
fascicoli dal febbraio al maggio 1946, del quale sul primo numero di «Paesaggio», nella sezione Rassegna 
della stampa, si riporta che «è una Rivista di tendenza che vuole orientarsi verso una “cultura reale di 
materia vissuta ed espressa”. Ha una veste lussuosa, carta patinata e tricromie, e raccoglie scritti di Mon- 
tale, Gatto, Vittorini, De Micheli e Stefano Terra». E ancora Roma: «Mercurio. Mensile di politica, arte, 
scienze» fondata da Alba De Céspedes nel settembre 1944, quando la città era appena stata liberata, ed 
emersa tra le riviste culturali dell’epoca anche grazie all'apparato grafico e iconografico curato da Mafai, 


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Elisabetta Malvaldi 


Proprio un articolo pubblicato sul secondo numero, firmato “E R.” (si ritiene 
Franco Russoli), inserito senza titolo nella rubrica Rassegna della Stampa, costi- 
tuisce un puntuale riferimento all’editoria periodica che, in diversi modi, stava 
agendo in questa direzione: «Il processo alla “cultura dei venti anni” continua. 
Gli attacchi partono da punti diversi, e sono ora timidi ora irruenti. Non manca- 
no nemmeno condanne che nella loro cautela celano male il persistere di quello 
spirito e di quel gusto, e se non proprio una nostalgia, almeno uno smarrimento». 
Segue elenco parziale: «Il 45» di Milano, ad esempio, «sempre più programmati- 
camente decisa nella sue posizioni di arte nuova e progressiva», che con pungente 
considerazioni si ritiene che «non sa darci valide prove nel campo figurativo, se 
ci presenta Matisse e l’intellettuale Cassinari». Lo sguardo va anche a Firenze, di 
cui dopo «Campi Elisi», «Letteratura» e «Il Mondo», si cita «Società» di Bian- 
chi-Bandinelli che «egregiamente dimostra l’attualità e la validità di una ricerca 
culturale basata sul materialismo storico e si presenta in fascicoli densi di saggi 
storici e filosofici, di testimonianze sociali, di testi poetici di alto livello». Tra Ù 
più importanti viene segnalata «Costume» di Magliano, Sogno ed Emanuelli, 
in cui «gli scritti filosofici che raccoglie rispondono sempre ad esigenze attuali, i 
testi di cli e di poesia sono quanto mai lontani da purismi ed estetismi». 
Una pagina antologica dunque sulle diverse voci, in cui si inserì anche quella di 
«Paesaggio», non con finalità di «piacevole letteratura» ma di «sincere esigenze di 
ricerca, di meditazione, per rispondere a domande che bruciano, per abbattere, 
anche se con fatica, le muraglie della soffocata e interessante “purezza” degli ul- 
timi anni»”. 

La rivista pisana uscì in quattro numeri riuniti in tre fascicoli, editi dalle In- 
dustrie Grafiche V. Lischi e Figli di Pisa. Il primo risale all’aprile-maggio del 
1946, segue quello del giugno-luglio, infine l’ultimo che raccoglie il quadrime- 
stre agosto-novembre a conclusione dell'annata e della - purtroppo per Pisa breve 
- vita del periodico. La struttura è molto simile a quella de «Il Campano» durante 
gli anni in cui Rosi fu caporedattore: formato 16.5 x 24 cm, titolo in evidenza a 
grandi caratteri seguito da sottotitolo e numero dell’uscita, sulla destra i nomi de- 
gli interventi, degli autori delle riproduzioni fotografiche o dei disegni stampati, 
e gli autori delle la originali allegate. La prima uscita riporta in copertina 
un dettaglio del pulpito del Battistero di Pisa di Nicola Pisano (San Giovanni 
della Crocifissione), la seconda un’acquaforte di Giovanni Fattori (una giovenca da 
tergo), la terza un disegno di Luigi Bartolini (Le Zingare). La scelta delle riprodu- 
zioni in copertina non fu casuale: per quanto A il San Giovanni della Croci- 
fissione, ad esempio, la scultura di Nicola si erge a simbolo nel contesto di restauro 
e studio delle opere danneggiate dai bombardamenti, nonché nella riflessione 
sull’identità storico artistica di Pisa, aventi esito poi nella costituzione del Mu- 
seo Nazionale di San Matteo e nella Mostra della Scultura Pisana del Trecento. 


Severini, Manzù, De Pisis, Carrà e Vespignani; «Rinascita», fondata da Palmiro Togliatti nel giugno del 
1944 a Salerno e condotta a Roma nel nell’ottobre dello stesso anno. Infine Firenze, con riviste come 
«Società», trimestrale fondato da Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1945; «Belfagor. Rassegna di varia 
umanità», bimestrale fondato da Luigi Russo nel gennaio 1946 e da lui diretto per i primi mesi insieme 
ad Adolfo Omodeo. 

2. ER. «Paesaggio», n. 2, 1946, p. 140. 


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Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


Allestita tra il luglio e il novembre del 1946, la mostra ebbe valore inestimabile, 
non soltanto perché permise un rinnovato studio della scuola pisana medievale e 
dunque delle sue une sull'evoluzione della scultura italiana, e non solo per 
la possibilità di studiare finalmente da vicino le sculture rimosse dal complesso 
monumentale di Piazza dei Miracoli, ma anche, e soprattutto, ebbe il merito di 
ergersi a emblema della ricostruzione civile e culturale dopo le distruzioni della 
guerra. In «Paesaggio» i contributi di Sanpaolesi, Ottavio Morisani ed Enzo Carli 
ripercorrono la vicenda della mostra in pagine dense del significato che questa 
assunse, muovendo dalle scelte ii e museografiche dell’allestimento 
fino a concludersi con l'indagine storico artistica delle più rappresentative opere 
che vi furono allestite, come ad esempio il Pergamo di Guglielmo che per l’occa- 
sione fece ritorno a Pisa dal Duomo di Cagliari. 

Concludendo l’analisi della struttura della rivista, cui si partecipava soltanto 
su invito, la controcopertina in tutti e tre i numeri ospita la stampa di una figura 
in maschera di spalle, firmata “AD. B.”, verosimilmente Adolphe Best?8, l’indi- 
cazione del prezzo e, nel secondo e terzo fascicolo, la sede di distribuzione del 
giornale, la Libreria Internazionale Vallerini di Pisa. Le prime due uscite sono 
costituite da una settantina di pagine, mentre la terza ne contiene poco più di 
cento. Del consiglio di redazione fecero parte, tra gli altri, Luigi Russo, Antony 
De Witt, Enzo Carli, Piero Sanpaolesi, Renzo Lupo e, dal secondo numero, Re- 
nato Birolli; segretario di redazione rimase per tutte e tre le uscite Franco Russoli. 
In ogni numero una rubrica è assegnata alle Recensioni letterarie, una alla Rassegna 
della stampa e, dal secondo numero, una al Mercato artistico. 

Per quanto riguarda i temi trattati, ospitando vivaci interventi sull’arte e la 
letteratura coeve, «Paesaggio» adotta una linea di continuità con quelli de «Il 
Campano», il quale appare ora come un'opportunità di sperimentazione, seppur 
latente viste le contingenze, e una sorta di laboratorio per una critica d’arte auto- 
noma e cosciente in risposta alle aspettative del regime, che sì avrà conseguenze 
negative con l’episodio degli Scritti d'eccezione bartoliniani, ma che poi con la 
rivista del 1946 potrà liberamente affrontare gli esiti culturali del fascismo e della 
guerra. 

Il primo numero di «Paesaggio» si apre con una Avvertenza, alla maniera di Rosi 
con le presentazioni, che delineale sue finalità: «Paesaggio sarà un campo d'incontro 
di tendenze vive e serie senza preferenze, basato soltanto su un profondo impegno 
di serietà culturale [come] attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell’Italia». 


28... Alcuni articoli sono illustrati con stampe di incisori ottocenteschi. E il caso della serie Reper- 


torio di Antony de Witt con le incisioni di Adolphe Best: si tratta di maschere e scenografie teatrali ca- 
ricaturate. Nel primo e nel secondo fascicolo quelle che corredano Repertorio Ie Repertorio II non sono 
firmate, tuttavia il soggetto ma soprattutto il tratto dell’ombreggiatura, resa con linee parallele e fitte, 
rimandano a quella del terzo fascicolo in Repertorio III, firmato per esteso “Adolphe Best”, e a quelle 
delle controcopertine di tutti e tre i fascicoli firmate “AD. B.”. Nel primo fascicolo l'articolo di Miriam 
Donadoni Fratelli di David è illustrato con un'incisione di Jean-Luis-Joseph-Camille Lacoste: anche qui 
il soggetto è una rappresentazione teatrale su fondo scenico: mentre due maschere danzano in primo 
piano, sullo sfondo appare una piazza allestita con uno spettacolo teatrale, e si vede infatti una folla che 
assiste ad una rappresentazione sotto al palco in cui sono gli attori. L'illustrazione di Lacoste differisce 
da quelle di Best perché nel primo la scena è più affollata e particolareggiata che in quelle del secondo. 
La ricostruzione di queste incisioni è stata possibile grazie alla consultazione di G. VICAIRE, 1904. 


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Elisabetta Malvaldi 


La dichiarazione è molto precisa, con puntualizzazione temporale del programma, 
«questi tempi», e si insiste sull’intento: «Paesaggio vuol essere la Rivista di tutti 
gli uomini di cultura che dalle piaghe della guerra hanno avuto il severo monito 
di lavorare finalmente senza eclettismi superficiali e lontani da ibridi interessi»??. 
Per poter comprendere almeno sommariamente il focus della critica artistica di 
quel tempo, tra le riviste coeve con cui «Paesaggio» si misura, è bene citare «Argi- 
ne Numero» che nel n. 2 del 1946 pubblicò il Manifesto del Realismo®°: nato a 
Novara nel 1945, nel 1946 mutò il titolo in «Numero pittura» col trasferimento a 
Milano per assicurare adeguata copertura finanziaria. Il tema cruciale della svolta 
picassiana di Guernica come rottura dalle esperienze della pittura primonovecen- 
tesca francese e le conseguenti rielaborazioni del cubismo, giocò un ruolo impor- 
tante in «Paesaggio», come vedremo: nell’inverno del 1945 maturò tra gli artisti 
milanesi e i critici De Grada, De Micheli, Joppolo e Testori, riuniti al Caffè Brera 
(Caffè della Sciura Titta, in via Brera)}!, l’idea di condurre tale rinnovamento 
anche nella stampa; stessa opinione avevano i “romani” Guttuso, Turcato e Cagli 
e i veneti Vedova e Pizzinato. L'articolo Realtà della Pittura di Testori, edito in 
occasione della prima uscita della rivista, anticipa queste intenzioni: «Quando 
abbiamo cominciato a dipingere tutti sanno qual era la situazione: e in mezzo a 
quella grande e informe confusione qualcuno cominciò a fare il nome di Picasso 
e del cubismo. A farlo, dico, con intenzione. Passarono le prime riproduzioni. 
Guttuso da Roma ci parlava di cubismo sporco e compromesso, ma in qualche 
modo parlava. Più direttamente e con altra coscienza e altri interessi, di cubismo 
ci parlava Morlotti»??. 

Queste meditazioni hanno seguito in diverse pagine di «Paesaggio», a partire 
da quella di Gio Ponti Arte e artistà?, che tocca subito il cuore della viva discus- 
sione: se da un lato «Il picassismo in ritardo (che s'accompagna con certe tardive 
altre “scoperte” d'oggi Rimbaud, Cocteau, o la Bahuahus ecc.) non è che un 
fenomeno di incoltura: ciò che doveva appartenere già alla cultura informativa 
dei giovani d’oggi avendo regolarmente appartenuto a quella di uomini che ora 
han sessant'anni, appare a quelli una propria scoperta», non meno perplessità 
sono rivolte al Manifesto: «È da pensare che forse anche il tempo dei manifesti 
è passato, assorbito ed esaurito da ben altre manifestazioni»; e come a ribadire 
quanto enunciato nell’Avvertenza Ponti chiude: «Ciò che conta, per me, è solo 
che gli artisti si rendan conto della grande importanza della loro presenza in que- 
sto momento per la ricostruzione del nostro Paese». Nella rubrica Corrispondenze 
del solito numero, figura la risposta di Bonfante tra le Lettere da Milano", ove in 
difesa delle esperienze neocubiste e del Manifesto del Realismo, che sottoscrisse, 
ritiene che «la pittura di alcuni giovani che intenzionalmente si innesta al filo da 
loro ritenuto logico delle esperienze fauviste e cubiste è tutt'altro che un fatterello 
provinciale, trovando le sue ragioni in un discorso di universali interessi in cui 


29M. ROSI, «Paesaggio», n. 1, 1946, p. 3. 

% Si veda L. CARAMEL, 2013, pp. 48-49. 

3! Ajmone, Bonfanti, Bergolli, Birolli, Cassinari, Chighine, Dova, Francese, Morlotti, Miori, 
Peverelli, Treccani. 

8 G. TESTORI, «Argine Numero», n. 1. 1945, cit. in T. SAUVAGE, 1957, p. 50. 

3. G. PONTI, «Paesaggio», n. 1, 1946, p. 7. 

3 E. BONFANTE, «Paesaggio», n. 1, 1946, p. 128. 


242 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


si riflette il lavoro della generazione più recente», e nel merito che rende al Ma- 
nifesto, pur attraverso soluzioni figurative diverse, emerge tra le righe una certa 
affinità nel bisogno di dare «diretta rispondenza nelle nuove esigenze d’ordine 
sociale, portate all'evidenza quotidiana dal recente conflitto». 

Milano città accesissima quindi, di cui giunge a Pisa tramite «Paesaggio» anche 
l'eco del primo «congresso di lettere e arti» firmata Ferdinando Giannessi: presie- 
duto da Francesco Flora alla Galleria Bergamini, anche qui emergono «questioni 
di più urgente umanità» e si delineano «due opposte schiere: da una parte i pro- 
gressisti, che hanno messo ogni questione sotto una luce etica di ispirazione mar- 
xistica, e dall’altra coloro che, su un piano di tendenze più eterogenee [...] hanno 
sostenuto i valori autonomi dell’espressione artistica, talora anche richiamandosi 
[...] all’esperienza del periodo recentemente trascorso, ed ai pessimi frutti che in 
esso derivarono quando si vollero portare ideali politici e propagandistici»> nel 
mondo dell’arte. Sfogliando le pagine, viene reso merito a alla capitale: in 
una Lettera da Roma titolata La vita artistica, “un curioso corrispondente”? infor- 
ma che Antonello Trombadori «su “Rinascita” propone di creare una “Cooperati- 
va degli artisti romani”, capace di organizzare una sua galleria d’arte ed un centro 
di attività di cultura nazionale. [...] Il giovane critico $ sinistra è persuaso che il 
clima storico per simile esperimento sia maturo». La rassegna della scena romana 
prosegue con il riferimento alla conferenza sull’arte contemporanea tenuta da 
Lionello Venturi al «Ritrovo, circolo romano di cultura assai bene attrezzato»?7, in 
occasione della Mostra collettiva organizzata alla Galleria del medesimo circolo 
e in cui Venturi premiando i giovani artisti romani intende «premiare il livello 
di civiltà artistica cui noi siamo pervenuti, nonostante tutto». Dibattito culturale 
quindi precisamente aggiornato, condiviso con tratti narrativi come per esempio 
per il dipinto parietale Boogie- Woogie («ahi mesta memoria di pareti triennalensi 
e rionalensi») appena terminato da Guttuso nello showroom di Olivetti in via 
Nazionale: «Da quanto mi riferiscono, a veder lavorare Guttuso si provava una 
vera gioia; era così allegro e dinamico, sopra il pancone in mezzo ai barattoli e 
alle polveri, che ogni tanto, voltandosi verso la strada dove una piccola folla sta- 
zionava incuriosita, cantava»55. 

Seguendo il filo delle evoluzioni in campo dell’arte, ampio spazio poi viene 
dato in «Paesaggio» ai protagonisti del Fronte Nuovo delle Arti che andava deline- 
andosi in quei mesi. La riflessione estetica di Renato Birolli sul secondo numero, 
dal titolo Nomi e esperienze”, analizza la «filologia astratta dei ritorni» intesi, an- 
cora una volta, come meditazione delle pregresse esperienze estetiche; è significa- 
tivo che un pittore quale Rosi, nella discussione circa gli esiti figurativi più nuovi, 
accolga la penna di un altro pittore: a partire dal romanticismo di Delacroix e 
proseguendo con l’analisi degli effetti dell’impressionismo prima e del cubismo 


8. F GIANNESSI, «Paesaggio», n. 2, 1946, p. 127. 

3A corredo è inserito un caricaturale “Disegno di Mino Maccari”, come si legge in didascalia, 
raffigurante un simposio di personaggi intenti in una discussione, si ipotizza proprio la conferenza or- 
ganizzata da Venturi. Si ritiene dunque, anche per stile, che il testo sia di sua mano. 

3... Poi pubblicata in «L'indipendente», 21 maggio 1946. 

38. In «Paesaggio», n. 1, 1946, pp. 66-68. 

3 R. BIROLLI, «Paesaggio», n. 2, 1946, pp. 106-108. 


243 


Elisabetta Malvaldi 


poi, passando inevitabilmente per Cézanne, il ritorno è inteso da Birolli come 
punto di avvio della conquista della modernità, raggiunta con l’imprescindibile 
coscienza del momento storico in cui l’artista si trova ad operare. 

La rassegna d’arte è proposta anche e soprattutto attraverso l’analisi di alcuni 
artisti: sempre in ambito Fronte Nuovo delle Arti, altra eloquente pagina narrati- 
va di un profilo artistico in area del Fronte è ad esempio l'articolo di Giuseppe 
Marchiori dedicato a Mario Mafai, al quale si riconosce come per Scipione il 
ruolo di «squilla guerriera» in una Roma insensibile alle avanguardie e addirittu- 
ra all'esperienza di Valori Plastici: il «fauvismo sanguigno e truculento» dei due 
pittori avrebbe portato il necessario aggiornamento in città, senza presunzione 
accademica alcuna, maturato sullo studio diretto delle opere «nella luce nel colore 
e nello spirito di Roma, evocandone un'immagine impreziosita attraverso i filtri 
d’un ornato sensibilismo barocco». Anche dopo la morte di Scipione, Marchiori 
gli attribuisce una propria autonomia sperimentale che muove da una consape- 
vole e solida struttura sintattica, il cui contenuto è pretesto del ragionamento 
tecnico. Citando Veduta di Roma dal Gianicolo, del 1943, Marchiori rintraccia 
come «radice vicina [...] l’arte di Corot, per certa luminosità di vedute romane, 
o Renoir, per il gusto della “buona” pittura», ma soprattutto ne individua un re- 
taggio senza tempo, un’assimilazione dell’arte antica che addirittura affiora nelle 
suggestioni degli affreschi pompeiani; questa suggestione Marchiori la elabora 
come “formula compendiaria”, e la completa suggerendone infinite possibilità di 
sviluppo. È così che si collega dunque alla serie delle Demolizioni del 1939, nelle 
quali emerge il «valore figurativo del motivo di una casa spaccata a metà» e «die- 
tro i muri rovinosi che si levano come papiers collés contro la superficie astratta 
del cielo, le cupole i tetti i campanili sono altrettanti riferimenti a una topografia 
nota». 

Non esaurendosi la trattazione artistica in «Paesaggio» con contenuti con- 
temporanei, molte pagine sono poi dedicate all’arte francese e, nel secondo e 
terzo fascicolo, al tema della pittura macchiaiola che allora ancora softriva di 
insufficiente bibliografia, come nota ad esempio Franco Russoli che, ne Gli scritti 
critici dei macchiaioli, sintetizza i loro scritti come «i più interessanti documenti 
del pensiero realistico italiano dell'Ottocento», ricordandoli non come «scritti di 
studiosi di estetica, ma di pittori»‘!. Ulteriore approfondimento sulla questione 
si ha poi con la serie di lettere inedite della corrispondenza tra Giovanni Fattori 
e Guglielmo Micheli, pubblicate sul terzo fascicolo da Dario Durbè e da lui 
ritenute «uno dei nuclei più importanti dell’epistolario fattoriano»‘. I motivi 
più frequenti della corrispondenza sono di ordine personale, come le richieste di 
Fattori di commissioni per comprare cornici o imballature di quadri, o il reperi- 
mento di una sistemazione per la villeggiatura estiva sulla costa livornese; altre, 
invece, riguardano più direttamente l’arte: consigli per la pittura, pareri su opere 
già dipinte, impressioni di mostre. 


40 G. MARCHIORI, «Paesaggio», n. 3, 1946, pp. 211-214. 

il E RUSSOLI, Gli scritti critici dei macchiaioli, in «Paesaggio», a. I, n. 2, giugno-luglio 1946, pp. 
99-103. 

‘°D. DURBÉ, «Paesaggio», n. 3, 1946, p. 170. 


244 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


In conclusione del rapido viaggio tra le pagine della rivista, ci si vuole softer- 
mare su un ultimo, non meno importante, suo aspetto. Parimenti all’arte figura- 
tiva, la letteratura ha cospicuo spazio in «Paesaggio»: oltre alla rubrica Recensioni, 
presente in tutti e tre i fascicoli, figurano diversi saggi di letteratura e se ne vuole 
citare qui i due esempi più significativi. Luigi Russo pubblica in tre interventi, 
poi stampati unitamente per le «Edizioni di Paesaggio» con una litografia origina- 
le di Rosi, un'analisi approfondita e dettagliata del Noviziato letterario di Luigi 
Pirandello, nel decennale dalla scomparsa. Vengono studiati la raccolta di sole 
giovanili Amori senza amore, del 1894, e la raccolta Mal giocondo del 1889. Nel 
secondo fascicolo segue l’analisi e la recensione di Pasqua di Gea, altra raccol- 
ta del 1891, e il primo romanzo Lesclusa; conclude la serie I/ turno, del 1902, 
col quale, secondo Russo, ha fine la fase del “noviziato” letterario dell’autore. 
Infine, nell'ultimo fascicolo due articoli sono dedicati al Premio letterario inter- 
nazionale Viareggio Répaci, nell’edizione del 1946: in prima istanza assegnato 
a Umberto Saba, una rivalutazione determinò un ex aequo di Saba e di Silvio 
Micheli, il primo per // canzoniere e il secondo per Pane duro. In «Paesaggio» 
compare un saggio di Nelia Pes su Micheli, intitolato Un narratore: Silvio Micheli 
seguito dal racconto La pergola impazzita, illustrato con un disegno di Rosi*“. 
Molte pagine sono poi dedicate a Umberto Saba, con un saggio critico di Ore- 
ste Lupi e corredate da illustrazioni dell’incisore ottocentesco Paul Gavarni, cui 
segue Ebbri Canti. Per la pubblicazione della poesia allora inedita Rosi dovette 
tribolare non poco‘, riuscendo però con la sua consueta diplomazia a donare un 
poco di pregio a Pisa che, prima di lui co/ buio alle porte, ebbe così un po' di luce. 


59 Ritratto di Luigi Pirandello, incisione. 


i Campi in Val d'Era. 
#5. E. MALVALDI, 2017. 


245 


Elisabetta Malvaldi 


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Rouquette, 1904, Parigi. 


248 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


Fig. 1. Mino Rosi nel suo studio. Sullo sfondo a destra la fotografia inviatagli da Ardengo Soffici nel 1933. 


Fig. 2. Mino Rosi, Capanna (Volterra), 1932, olio su cartone, cm 25x35, Collezione Mino, Giuseppina e 
Giovanni Rosi della Cassa di Risparmio di Volterra. 


249 


Elisabetta Malvaldi 


Mino Rosi — Campi in Val d’ Era 


(Disenno 1942) 


Fig. 4. Campi in Val d’Era, 1942, riproduzione in «Paesaggio», a. I, n. 3-4, agosto-novembre 1946, p. 209. 


250 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


251 


Elisabetta Malvaldi 


ci <— 4 - 
YTYTT_ = pr cd 
Mino Rost — Lungarno Mediceo (Settembre 1944) 


Fig. 7. Mino Rosi, Lungarno Mediceo, dalla serie Pisa distrutta dalla guerra, riproduzione in «Paesag- 
gio», a. L n. 1, aprile-maggio 1946, p. 4. 


Fig. 8. Mino Rosi, Via Cristoforo Colombo, dalla serie Pisa distrutta dalla guerra, 1944, olio su tela, 
Palazzo Blu, Pisa. 


252 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


Fig. 9. Copertina de «Il Campano», a. XV, n. 2, Febbraio 1941. 


253 


Elisabetta Malvaldi 


PM GIO 


QUADERNI DI LETTERATURA E ARTE DIRETTI DA MINO ROSI 


MICHELUCCI — PONTI — 
RUSSO — ROSI — MAI- 

LARMÉ — DE WITT — 
GIANNESSI — QUASIMODO 

— SINISGALLI — SERENI 

— MILANI — GHIARA — - 
SHENFIELD — DE PISIS 
— ‘APOLLONIÒ — DONA- 
DONI — VENTUROLI — 
PARRONCHI —SANPAOLE- 
SI — CARLI — LATTUADA 
— CALDWELL — VANNINI 
— LUPI — PIZZORUSSO — 
DAL FABBRO. 


A 

ROSI — ORZALESI — DE 
PISIS — SANTOMASO — 
MACCARI — FARAONI — 
PULCINELLI — MARTINI 5} 
— BARTOLINI — AEREO 3 


STRADONE — TAMBURI... 


* 


QUATTRO LITOGRAFIE 0- 
RIGINALI DI: TAMBURI — — 
GENTILINI — GALLO — 


SAVELLI. 
* 
SCULTURE DI NICOLA PI. 


SANO. È es 


EDIZIONE DI PAESAGGIO 


n 


vale SEI ate LIM IITRIO LIO MI 


Fig. 10. Copertina di «Paesaggio», a. I, n. 1, aprile-maggio 1946 


254 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


| 


MISTI. 


n 


% 


QUADERNI DI LETTERATURA E ARTE DIRETTI DA MINO ROSI 


CANTIMORI — RUSSO — ANCE- 
SCHI — ELIOT — RUSSOLI — 

BARTOLINI — BIROLLI — DE 

WITT — VOLLARD — CHAGALL 

— MASCIOTTA — APOLLONIO — 

GIANNESSI — BONFANTE — 
PACCAGNINI — LUPI — PIZZO- ’ 1 
RUSSO — GHIARA. ; 


* 


FATTORI — BARTOLINI — CHA- 
GALL — SALVADORI — MIRKO 
— SASSU — FARAONI. 


* 


QUATTRO LITOGRAFIE ORIGI- | È 
NALI DI: SASSU, ROSI, PULCI- su 
NELLI. | 


FATTORI: Acquaforte 


EDIZIONE DI PAESAGGIO 


È î hi * x (ca pi 


i II 


*» 


Fig. 11. Copertina di «Paesaggio», a. I, n. 2, giugno-luglio, 1946 


255 


Elisabetta Malvaldi 


Ù | 
IO! 


QUADERNI DI LETTERATURA E ARTE DIRETTI DA MINO ROSI 


RUSSO — LUPI — SABA — LUPORI- 
NI — DURRE — PRANCHI — TI 
PANSRO — MORISANI — DE WIFT 
— PRS — MICHI{LE — ZAGARRIO — 
MARCHIORI — DONADONI — GON-. 
GORÀ — APOLZONIO — LUPO — 
Dit, NRUONO — MOTTA — IZ20- 
RUSSO — RUSSOLI, 


* 


MAZZANI — CRESPI — GAVARNI — 
DIOVANNI PISANO — TINO DI CA. 
MAINO — BONCINBLLI — LONGA. 
NESÌ — GUTTUSO — ROSI — TO. 
MIA — RARTOLINI — VAGNBITI — 
MIRKO — SASSU, 


GIOVANNI INTTORI: L'AMBULAN: 
ZA (Quediseromia). 


* 


OTTO LITOGRAFIR ORIGINALI DI; 
MACCARI — ROSI — DELGRADA. 


* 


I, Paixtrontsir? Disejno, 


EDIZIONE DI PABSAGGIO 


Fig. 12. Copertina di «Paesaggio», a. I, n. 3, agosto-settembre, 1946 


256 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


Fig. 13. Esempio di impaginazione di «Paesaggio»: la Mostra della scultura pisana di Ottavio Morisani, 
con a corredo le riproduzioni fotografiche del San Giovanni e della Vergine di Nicola Pisano del Batti- 
stero di Pisa, «Paesaggio», a. I, n. 3, agosto-novembre 1946, p. 192. 


257 


Elisabetta Malvaldi 


CORRISPONDENZE 


Lettera da Milano 


Un concerto private 


Per le scale, molti invitati continuavano 2 
confondere Guido Ballo, che ci avrebbe ospi- 
tato quella sera nel suo studio in Via Bor- 
gonuovo, con Ferdinando Ballo; questi infat- 
ti è il musicologo, l'editore, l’animatore dei 
concerti di musica contemporanea al « Teatro 
Nuovo »; Guido Ballo, invece, è un giovane 
siciliano che insegna storia dell’arte a Bre- 
ra, ma non si accontenta di sermoneggiare 
dalla cattedra, ha cura d’anime, si porta in 
giro discepoli e fanciulle nelle mostre di pit- 
tura, nei teatri; inoltre, ogni settimana, re- 
gala agli amici una riunione musicale priva 
d'ogni spirito accademico, con antica sempli- 
cità. Tra i patiti della musica la voce è corsa, 
ogni amico di Ballo si porta seco due amici 
suoi, sì che il giovane professore, dopo aver 
invitato dodici persone, se ne trova nello stu- 
dio ottanta, che si distribuiscono su poche 
sedie Lmigi XIV sparse qua e là, su alcune 
panchette di legno, e lungo le pareti, nello 
scarso spazio che lascia disponibile un grande 
pianoforte Bechstein. Oltre a questo, la stan- 
za è affatto disadorna; da un muro bianco 
sporge una colonna verniciata d’azzurro, che 
farebbe la gioia d’un seguace di Cocteau; ver- 
so il soffitto i tubi delle condutture sono an- 
ch’essi dipinti di rosso e d’azzurro, come le 
vene e le arterie nei plastici d’anatomia. 

Fa freddo nello studio di Ballo, attiguo a 
camere disabitate, in questa Via Borgonuovo 
i cui bei palazzi sono stati quasi tutti svuo- 
tati dagli incendi; ma la gente unisce, al di- 
sopra delle teste, le nuvolette dei fiati, c le 
parole anch’esse fanno tepore, oltre che bru- 
sìo. Entra Bontempelli col bavero del sopra- 
bito rialzato e una sciarpa rossa intorno al 
mento; la dolcezza dei capelli bianchi attenua 
la sua disincantata maschera volterriana; si 
siede in un angolo, accanto a Paola Masino, 
pallida e funerea. Beniamino Jòppolo ci sor- 
ride col volto un poco teso del suo Michele 
Civa e ci mostra una ragazza turca dai grandi 
occhi scuri; Pino Ponti, che somiglia sempre 
più a Pierre Blanchard, s’insinua di spalla in 
mezzo agli invitati, e noi gli cediamo volen- 
tieri qualche decimetro della nostra panchet- 
ta. Il pubblico ormai s’inquieta, si guarda in- 
torno; si dice che il maestro Giulio Confalo- 
nieri stia ancora giocando a scopa con due 
soldati americani, in un caffè di Via Brera. 
Invece, egli giunge poco dopo, insieme con 


una sua allieva di canto; Confalonieri si preoc- 
cupa delle porte aperte, per cui s’insinuano 
soffi gelidi, siede al pianoforte, mostrando il 
suo profilo un poco fanatico di monaco spa- 
gnolesco. Ora, illustra il programma con pa- 
role di trascurata eleganza; per vna lirica di 
Scarlatti, legge una pagina di Bontempelli, e 

}ontempelli allora, risentendo la sua prosa, 
dà qualche segno di vita nel suo angolo. L’al- 
lieva di Confalonieri canta con grazia, si ap- 
poggia allo strumento, cercando di mettere 
qualche distanza tra se stessa e il pubblico che 
le sta a ridosso: Scarlatti, Guétry, una can- 
zone irlandese, poi un gruppo di liriche di 
Hugo Wolf, che Confalonieri scagiona dall’ac- 
cusa di wagnerismo, proclamandolo, con una 
parzialità giustificata dal palese affetto, uno 
dei maggiori compositori che siano mai esistiti. 
Confalonieri accompagna con gusto, senza cu- 
rarsi degli effetti pianistici, ma alludendovi 
molto signorilmente. In un intervallo il pa- 
dron di casa cerca di attirare l’attenzione so- 
pra un quadro di Cassinari, appoggiato sul ter- 
mosifone freddo: è un profilo di vecchia dai 
toni biaccosi, piuttosto sgradevole. Ma la di- 
scussione non nasce; soltanto Gianni Testori 
fa un discorsetto confuso, in cui contrappone 
il gioco « superato » di Carrà e di De Chirico 
al gioco «necessario e umano » di Cassinari 
e dei suoi compagni. Subito dopo, il concerto 
riprende con Ravel e Chabrier, si conclude 
con esemplare discrezione. 

Molti invitati guardano l’orologio, la stanza 
si vuota rapidamente. Guido Ballo li accom- 
pagna al tram. A San Babila ci chiede il nu- 
mero del telefono, per avvertirci della pros- 
sima riunione. 


Beniamo Dal Fabbro 


Lettera da Roma 


La vita artistica 


Cari amici, questa delle corrisponden- 
ze, da Roma o da qualsiasi altra città, sta 
diventando una brutta abitudine di una 
parte dei letterati e dei critici della Pe- 
nisola, e non vorrei anch’io coprirmi della 
medesima colpa. Ci vuol così poco a mette- 
re insieme una ventina di pettegole notizie, 
le quali poi, lungi da interessar voi, che siete 
fuori degli arcani di tante sottili allusioni e 
lodi e reticenze, interessano soltanto quei quat- 
tro di Roma, che si vedono giungere, attra- 
verso l’Eco della Stampa, il ritaglio. « Hai 


big 14. Esempio di impaginazione di «Paesaggio»: la rubrica Corrispondenze con i trafiletti di Beniamino del 
Fabbro e “Un curioso corrispondente” (forse Mino Maccari), con disegni di Giovanni Stradone, Antonello 
Trombadori e Orfeo Tamburi, Renato Guttuso, in «Paesaggio», a. I, n. 1, aprile-maggio 1946, pp. 46-47. 


258 


Mino Rosi e i dibattiti artistici in due riviste pisane 
del Novecento: «Una attiva partecipazione alla rinascita spirituale dell'Italia» 


INDUSTRIE GRAFICHE V. LISCHI & FIOLI » PISA - 1947 


Fig. 15. Controguardia e guardia della pubblicazione di Luigi Russo de // noviziato letterario di Luigi 
Pirandello per le Edizioni di Paesaggio, Pisa 1946, con un'incisione di Mino Rosi. 


259 


La “bella romana”. Teresa Benincampi letterata e scultrice 


ROBERTA ROANI 


“Egli è vero che la storia de’ nomi è sovente la storia 
delle cose: perché molte italiane femmine e nell’anti- 
ca età, e nella moderna dettero opera alla pittura, noi 
abbiamo il nome di pittrice, di dipintrice, e anche di 
pittoressa; ma perché pochissime donne si rivolsero alla 
scultura, si desidera ancora nei nostri vocabolari il ti- 
tolo di Scultrice: del qual titolo noi però onoriamo la 
gentilissima Teresa Benincampi”' 


In questa occasione vorrei attirare l’attenzione su una artista, donna, nota 
pressoché solo da fonti ottocentesche, alle quali ricorro per oftrirne un breve 
profilo. Si tratta della romana Teresa Benincampi nata nel 1778, che fu letterata 
e scultrice di una certa fama, fama favorita, forse, anche dalla sua avvenenza che 
i contemporanei non mancarono di sottolineare (fig.1)?: ne è testimonianza un 
bel ritratto a lapis del lucchese Agostino Tofanelli (1770-1834), direttore del Mu- 
seo Capitolino, cui si aggiunge un lusinghiero elogio scritto da un’altra donna, 
Ginevra Canonici (1779-1870) una letterata cui si devono importanti ricerche 
sulla condizione e l'educazione femminile contemporanea. Nel 1824 la Canonici 
pubblicò un ampio -: biografico delle donne italiane rinomate in letteratu- 
raò, in cui nel novero delle artiste viventi e in piena attività, rese omaggio a Teresa 
Benincampi che così descrisse: “Bellezza, scienza, maestria nell’arti belle sono 
doni che fanno ricco d’immenso tesoro colui che li possiede, ed amica fortuna 
gli (sic) elargì a favore di questa felice donna. Addestratasi nella età giovanile al 
disegno, con sentita conoscenza del bello si dedicò all’arte laboriosissima della 
scultura, dall’industre mano e dall'anima celeste dell’immortale Canova condotta 
al greco splendore dei secoli di Fidia e Prassitele. La Benincampi ha dato più ope- 
re del suo scarpello (sic), e ciò che meravigliosa la rende si è, che non l’asprezza 
del faticare incessante, non il perpetuo rimbombo del ripercosso martello, non 
l'ardua vita, nulla infine ha operato che scemo o spento sia in lei l’estro vivace 
del poetico immaginare. Sono le belle lettere ristoro della sua laboriosa vita, sono 
conforto al suo cuore, ed onoreranno esse la di lei memoria così durevolmente, 
quanto le opere della sua mano”. ‘Scienza’ e maestria necessarie nella difficile arte 


! G. Perticari, Teresa Benincampi, in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti, 1819, II, p.274. 


La fama. Giornale di scienze, lettere, industria e teatri, n. 118, 8 settembre 1836, p. 467. 
Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura dal secolo decimoquarto fino ai 
giorni nostri, Venezia 1824, p. 230. 


2 
3 


261 


Mara Roani 


della scultura e, insieme, conoscenza del bello e sensibilità poetica sono i caratteri 
che altri rileveranno nell’artista, aggiungendo anche alcuni suoi dati biografici. 

Un elogio comparso dopo la morte di Teresa avvenuta nel 1830*, rende noti 
infatti gli inizi artistici presso il padre mosaicista -Gregorio Benincampi, - “mo- 
saicista in strada della Croce”? -, del quale fino a trent'anni circa, continuò il lavo- 
ro. Contemporaneamente si dedicava allo studio delle lettere guidata dell'anziano 
letterato Francesco Battistini (1747- 1825) molto presente nell’ambito accademi- 
co romano, al quale fu sempre legata.‘ 

Battistini, arcade con il nome Megete Inopèo, fu noto per la “maravigliosa 
facilità nel poetare” in latino. Come improvvisatore in versi italiani, a gara con 
le celebri “Corilla Olimpica e Fortunata Fantastici, non lasciò che il sesso più 
forte fosse vinto dal debole” [!]. Fu fondatore nel 1799 dell’Accademia Letteraria 
Esquilina e presidente dell’Accademia Tiberina fondata nel ’12, dove, per rego- 
lamento, “le donne, che godano fama letteraria, [potevano] essere straordinaria- 
mente ammesse per contribuire con le loro produzioni all'Istituto dell’Accade- 
mia”. Nel gennaio 1815, secondo quanto riferisce il Diario di Roma, Teresa e la 
poetessa Enrica Dionigi Orfei, allora molto stimata, furono ‘ammesse’ a un’adu- 
nanze della Tiberina, Li. recitarono ognuna “un vago sonetto”. Alla “Brillante e 
solenne Adunanza” del 16 luglio* seguente, parteciparono la Benincampi e Bat- 
tistini, ‘in coppia’, recitando all’impronta “un grazioso epigramma con analoga e 
felice versione [in latino] del Sig. Battistini”. 

Tornando al finissimo ritratto compiuto dal Tofanelli, nel 1806, in occasione 
della distribuzione dei premi del concorso triennale tenuto l’anno precedente 
all’Accademia romana di San Luca, uscì un volume di elogi poetici delle opere 
esposte. Battistini in un sonetto sentitamente partecipe, loda il disegno, “lavor 
d’un nuovo Apelle” che con tratti liberi e leggeri, adombra nella mitica ninfa Ura- 
nia, l'amica - con lui ama “scorrer di Pindo i floridi sentieri?”. Il legame tra i 
due era già solido da tempo. Lo conferma anche una suadente lettera dedicatoria 
del Battistini a Teresa-Urania in occasione della pubblicazione nel 1803 della Sel- 
va del Poliziano intitolata Ambra: la stessa Benincampi, infatti, aveva sollecitato il 


4 La notizia della morte avvenuta a Roma fu pubblicata in Gazzetta di Firenze , n.27, 25 febbraio 1830. 


°C. Pietrangeli, Pio VII a Firenze e a Parigi nel 1804-1805: i doni del papa, in “L'Urbe” 45, 1982, 
pp.171,175. 

S Necrologia di Francesco Battistini scritta da Luigi Cardinali, Roma 1825. [Emilio de Tipaldo], 
Biografia degli italiani illustri, III, Venezia 1836, pp. 321-323. 

7 Leggie regolamenti dell'Accademia Tiberina, Roma 1816: Art. 1. L'Accademia si riunisce a fine 
di coltivare le Scienze, e le Lettere e particolarmente gli oggetti scientifici che riguardano la città di 
Roma”. Art. II Le donne... 

8. Diario di Roma, n.7, p.2, 1815, 25 gennaio; Diario di Roma, n 58, p. 8, 22 luglio 1815. 

° La distribuzione dei premi solennizzata sul Campidoglio li 4 luglio 1805 dall'insigne Accademia di 
Belle arti, Pittura, Scultura ed Architettura in S. Luca essendo principe della medesima il signor Andrea Vici 
architetto e conte palatino, Roma 1806, sonetto n. LXII: “Pel ritratto della Signora Teresa Benincampi 
denominata Urania, disegno del Signor Agostino Tofanelli. Questa, c’espressa in liberi e leggieri/ Tratti 
d’aureo disegno è a me davante/ Lavor d’un nuovo Apelle, e par spirante/ Sembrar vive le membra, e 
i moti veri;/ Urania è questa: i candidi pensieri/ Il cor sincero i’ veggio/ in quel sembiante;/ Così suol 
meco di virtude amante/ Scorrer di Pindo i floridi sentieri./ Che se mai non potran queste mie carte/ 
Renderla chiara in ogni età futura/ Sua bellezza e valor narrando in parte;/ Ne l’opra ch'emular seppe 
natura,/ Finchè in pregio saranno ingegno ed arte,/ N’andrà del tempo e dell'oblio sicura. 


262 


La “bella romana”. Teresa Benincampi letterata e scultrice 


maestro a tradurre dal latino in versi sciolti il poemetto!°. Da parte sua la scultrice 
gli rese omaggio raffigurandolo in un busto di cui abbiamo una vivace descrizione 
di Enrico Lovery, pubblicata nel 1826, che illustra il carattere naturalistico della 
ritrattistica cui Teresa si dedicò quasi esclusivamente.!! 

La vena poetica della artista, sapientemente coltivata, le procurò notorietà e 
riconoscimenti nell'ambiente letterario romano: fu amica della celebre poetessa 
Maria Pizzelli (1735-1807), Lida in Arcadia. Alla morte di lei Accademia vol- 
le celebrare “le sue lodi in sette lingue”: il componimento scritto da Teresa in 
quell'occasione, riportò il premio destinato alla migliore elegia in versi italiani". 

A quanto riferiscono le cronache, fu sempre la sua attitudine poetica ad avvi- 
cinarla all’“impareggiabile” Canova, quando decise di accostarsi alla pratica della 
scultura. Al grande statuario dedicò un sonetto in lode della sua Ebe —a noi nota 
in più a che nel primo decennio del secolo, le aprì la porta del famoso 
studio dello scultore frequentato da letterati e artisti. Tra questi, il tedesco Ru- 
dolph Friedrich Carl Suhrlandt (1781-1862) autore in un disegno raffigurante 
Teresa in età più matura (fig.2). Il pittore era giunto per la prima volta a Roma 
nel 1808 e vi rimase fino Ì °16 intrattenendo un vero legame di amicizia con 
Antonio Canova: è possibile che abbia conosciuto e frequentato la Benincampi 
proprio nel circolo canoviano. 

Sappiamo che Teresa eseguì busti-ritratto in marmo di personaggi contem- 
poranei e di illustri figure storiche. Le fonti ricordano tra i primi busti realizzati 
quello del Principe Federico di Sassonia-Gotha Altemburg, che soggiornò a Roma 
dal 1804 e un ritratto del papa Pio VII, probabilmente dipendente da modelli 
del Canova. Ormai scultrice affermata, ebbe uno studio in Piazza di Spagna, 
dove erano esposti “vari commendati ritratti di personaggi illustri, o per lettere o 
per nascita”; nel marzo 1818 vi si ammirava quello dell’ “incomparabile tragico 
estemporaneo Zommaso Sgricci, aretino..., lavoro dalla decisa rassomiglianza!. 
Eseguito nel 1819, il busto del naturalista e fondatore dei Lincei, Federico Cesi 
(1819), era destinato ad essere collocato al Pantheon!‘; quello di Aldo Pio Manu- 
zio, umanista, editore e stampatore, eseguito nel 1816 circa, fu commissionato 
dallo stampatore Filippo De Romanis (tra i fondatori dell’Accademia Tiberina e 
quindi legato alla scultrice) e posto nel Pantheon da cui, nel °21 fu trasferito nel- 
la Protomoteca Capitolina! Per rendere omaggio alla Tiberina, la Benincampi 
donò i busti di Omero, Virgilio, Orazio e Dante, eseguiti prima del 1817, destinati 
a ornare la “principal Sala della letteraria palestra!”. 

Anche la memoria funebre del matematico romano Gioacchino Pessutti (1743- 


10 Selva di Angelo Poliziano intitolata Ambra tradotta in versi sciolti, Roma 1803. 


Di un ritratto di Francesco Battistini operato in marmo da Teresa Benincampi romana, in Memorie 
romane di Antichità e belle arti, vol. III, 1826, pp.427-429. 

Accademia poetica in sette lingue per la morte di Maria Pizzelli, nata Cuccovilla fra i poeti Lida 
insigne letterata romana, Roma 1808, pp. 24-26. 

15. “Postiglione del Ponte Lagoscuro”, n.23, 21 marzo 1818. 
Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti, 1819, II, pp. 274-276. 
A. Tofanelli, Descrizione delle pitture e sculture che si trovano al Campidoglio, Roma 1825, p. 
125; A. Nibby, Roma nell’anno 1838, III, p 646; V. Martinelli, C. Pietrangeli, La Protomoteca Capitoli- 
na, Roma 1955, p. 13, tav. XXII. 

16. Diario di Roma, n. 103, 20 dicembre 1817. 


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Mara Roani 


1814) scolpita da Teresa nel 15, venne inizialmente innalzata al Pantheon (figg.3- 
4). Quando nel 1820 si decise di togliere dalla chiesa gli oltre 60 busti che vi era- 
no stati collocati nel tempo, la stele del Pessutti, per volere dei suoi discendenti, 
fu trasferita nella chiesa di Sant'Andrea delle Fratte, dove si trova!”. La semplice 
struttura include un ritratto a rilievo basso, dove la modellazione definita con 
tratto quasi incisorio, conferisce al profilo un carattere di marcato naturalismo. 

L'attività artistica di Teresa Benincampi fuori dall'ambito romano cui abbia- 
mo accennato, nel terzo decennio si estese a Firenze dove nel 1820 le fu conferito 
l’incarico di professore di scultura dell’Accademia di Belle Arti della città!8. Al 
suo impegno per l'insegnamento, alle relazioni intrecciate con l’ambiente locale 
e con il presidente dell’Accademia Giovanni degli Alessandri, mi auguro di poter 
dedicare in futuro l’attenzione utile a mettere in luce una fase finora sconosciuta 
della vita di una delle rare scultrici dell'Ottocento italiano. 


I MS. Lilli, Aspetti dell'arte neoclassica. Sculture nelle chiese romane 1780-1845, Roma 1991, 
pp.51-52. 

18 Già in occasione del concorso triennale che si svolse nel 1819 all’Accademia di Belle Arti di 
Firenze, la Benincampi espose una “testa muliebre in marmo”. 


264 


La “bella romana”. Teresa Benincampi letterata e scultrice 


Fig. 1 Agostino Tofanelli, Teresa Benincampi, (foto Bibliotheca Hertziana-Max-Planck-Institut fir 
Kunstgeschicthe, Roma). 


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Mara Roani 


Fig. 2 Rudolph Friedrich Carl Suhrlandt, Zeresa Berincampi (foto Kupferstichkabinet, Staatliche 


Museen zu Berlin). 


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La “bella romana”. Teresa Benincampi letterata e scultrice 


Fig. 3 Teresa Benincampi, Memoria funebre di Gioacchino Pessutti, Roma, Sant'Andrea delle Fratte. 


267 


Mara Roani 


Fig. 4 particolare. 


268 


Prima del San Carlo. Antonio Niccolini: un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


STEFANO RENZONI 


Antonio Niccolini nacque a San Miniato il 21 aprile 1772. I genitori, il padre 
Niccolò e la madre Teresa Giannini, erano inquieti ed errabondi, e ben presto, 
nel 1775', si trasferirono a Pescia, e viene difficile immaginare le difficoltà di 
uno spostamento che ebbe qualcosa di epico, dal momento che i figli erano 16, 
ed Antonio il penultimo. Fu egli molto precoce, anzi precocissimo, e a sei anni, 
secondo il biografo Antonio Benci, ebbe come insegnante il non disprezzabile 
Carlini?. Da lì a poco Niccolini, seguendo le vicende di famiglia, iniziò a percor- 
rere la Toscana in lungo e in largo: Borgo San Sepolcro, Pistoia, e qui iu 
allievo del pittore Teodoro Matteini e dell’architetto e pittore Francesco Maria 
Beneforti. Fu così bravo nel manifestare una precoce predilezione per le arti, che 
pare sia stato addirittura premiato da Pietro Leopoldo?. 

All’età di 14 anni, ce lo dice lo stesso Niccolini, egli arrivò finalmente a Pisa!. 
Secondo la testimonianza di Benci entrò nella folta bottega di Giovanni Battista 
Tempesti, grazie ad una raccomandazione del pittore pistoiese Teodoro Matteini, 
colui che a Pistoia gli aveva insegnato i latinucci. Tempesti gli dette “alcune lezioni 
di figura, ma (siccome ho udito raccontare da molti) egli adoperò il suo discepolo 
ne’ suoi medesimi quadri allorché vi si richiedevano ornamenti d’architettura”?. 

Dal momento che Tempesti aveva come stretto collaboratore il napoletano 
Pasquale Cioffo (abilissimo quadraturista e scenografo teatrale), Niccolini stesso 
rivelò che si sedette sui banchi anche di questi, così da poter dire di aver avu- 
to una formazione completa: da figurista e da quadraturista. Secondo le parole 
del Niccolini, la necessità di lavorare “mi pose a tirar linee e a far Lambrì sotto 
l’Appaltatore delle imbiancature e tinture dei Palazzi Reali; ma come egli non 
aveva a darmi lavoro per tutto l’anno, procurai supplire col filettare e tratteggiare 
ornamenti colorati sulle sedie bianche dell’Officina del seggiolaro i. Ve- 
devami lavorare e disegnare alcune architetture che io faceva per mio studio un 
dipintore a fresco di ci Fu questi, per l'appunto, il Cioffo (“Allegro 
sempre, con un fiasco di buon vino inseparabile dalla sua tavolozza de colori; 


ANHALT RONDONI - MATTEOLI 1978. 
Il Teatro del Re 1987, p. 104. 
Ibid. 
MANCINI 1980, p. 377. Secondo Benci Niccolini giunse invece a Pisa all’età di 10 anni (// 
Teatro del Re 1987, p. 104). 

> I Teatro del Re 1987, p. 104. Per una recente riconsiderazione delle vicende della pittura a Pisa 
tra Sette e Ottocento: RENZONI 2016. Su Tempesti: RENZONI 2021. 


AO DON — 


269 


Stefano Renzoni 


lavorava, e cantava tutto il giorno a forte voce di petto le strofe del Tasso”), che 
lo assunse facendogli disegnare in grande i bozzetti compiuti dal più anziano 
pittore, in modo che fosse possibile “tagliare poi i miei cartoni in pezzi adattati 
all’intonaco che giorno per giorno intendeva dipingere a fresco”. Era il 1786. 

Sulla scia di questa articolata formazione, Niccolini, approfittando anche 
dell’assidua frequenza della principale bottega pittorica pisana dell’epoca, quel- 
la appunto del Tempesti, influentissima, ottenne immediatamente alcuni lavori, 
che poterono anche esulare dall’applicazione sulle pitture murali, per inclinare 
invece verso il genere della veduta. 

Ad una data non certa ma credibilmente identificabile nel 1788, Niccolini 
venne coinvolto in una impresa calcografica di eccellenza, promossa da Giovanni 
Battista Tempesti e dal suo allievo (ma ormai storiografo) Alessandro da Morro- 
na. Intendiamo riferirci alla Raccolta di XIV Vedute della città di Pisa, splendide 
acqueforti incise da Ferdinando Fambrini raffiguranti altrettante vedute della cit- 
tà di Pisa, disegnate da un variato parterre di artisti, tutti usciti dalla bottega del 
Tempesti: tra queste ben quattro” ni disegnate da un giovanissimo Antonio 
Niccolini* (Figg. 1-4). Si trattò del primo reportage calcografico sulla città di 
Pisa, e le incisioni consegnarono al pubblico, e a noi, un'immagine della città 
veridica e spettacolare. 

Negli archivi napoletani esistono tuttora dei bellissimi disegni del giovane artista 
raffiguranti alcune vedute di Pisa (dei lungarni, del Duomo, del Camposanto, del 
Battistero), che documentano l’assiduo lavoro svolto da Antonio nella riproduzione 
dei luoghi più interessanti della città [Figg. 5-11], che attestano come quello delle 
Vedute poi incise fosse stato il risultato bi un iter progettuale intenso e articolato, 
ricco anche di episodi originali, non per i soggetti, ma per i punti di vista adottati, 
mai canonici’, e che rivelavano una mano sprezzata e già matura, anzi disinvolta. 
Una sensibilità vedutistica che del resto aveva potuto ben sperimentare, o almeno 
misurare, nel precoce soggiorno pistoiese, dove poté di certo esercitarsi e ben valu- 
tare la propensione del Beneforti per tale genere pittorico, come ad esempio nella 
tela di questi raffigurante la Piazza dell'Ospedale del Ceppo. 

Appena un anno dopo, il 1789, si iniziano ad avere le prime testimonianza 
certe relative all'applicazione del Niccolini sulla pittura parietale, che eviden- 
temente marciava in parallelo a quella di vedutista. In quell’anno Niccolini fu 


6 


MANCINI 1980, p. 377. Niente sappiamo invece del Lombardi, per ora sfuggito alle ricer- 
che degli storici. 

7. Esse sono le seguenti: Veduta del Lung'Arno di Pisa verso il Ponte a Mare; Veduta delle Logge di 
Borgo di Pisa; Veduta della Fortezza di Pisa; Veduta di Pisa fuori dalla Porta alle Piagge: Pisa 1991, pp. 238- 
45, schede di M. Bernardini. Da segnalare poi una quinta incisione, come le altre tirata dal Fambrini su 
disegno di Niccolini, raffigurante la Veduta della Certosa di Pisa, che tuttavia non sembra far parte della 
serie precedente, anche se ad essa deve considerarsi coeva: TONGIORGI TOMASI 1990, p. 208, 

8 Per la serie di incisioni: Pisa 1991, pp. 238-45, schede di M. Bernardini. Per l'autorevolezza 
della fonte va discusso il parere di Emilio Tolaini, che ritenne di poter riconoscere nel Niccolini delle 
acqueforti pisane non il Nostro, ma un omonimo, adducendo come elemento e contrario la giovane 
età che avrebbe avuto nel 1788 il Niccolini se fosse stato quello di cui stiamo discorrendo. In realtà nel 
1788 il Niccolini non avrebbe avuto 12 anni, secondo l’opinione dello storico pisano, ma 16: a quell’età 
si poteva benissimo fornire disegni per acqueforti: TOLAINI 2009, p. 20 e n.: 

> GIANNETTI 1997, p. 40, pp. 81-6. 


270 


Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


infatti tra coloro che risultarono impegnati nei lavori di decorazione, purtroppo 
perduti, delle stanze dell'importante palazzo Pretorio!°. A testimonianza di una 
verve assai vivace, l’anno successivo Niccolini fu tra coloro che agli ordini di Gio- 
vanni Stella, uno dei primi allievi di Tempesti, crearono gli apparati festivi all’in- 
terno del teatro della famiglia Prini (il più importante della città), per la festa da 
ballo che vi si tenne in occasione delle celebrazioni dell’incoronazione del nuovo 
Granduca!!. L’anno successivo vi lavorò ancora, assieme questa volta al fratello 
Giuseppe Romolo, per l'allestimento degli arredi di una seconda fastosa festa da 
ballo, tenutasi il 24 aprile per l'ingresso in città del Granduca medesimo!?. 

A parte questi interventi estemporanei o addirittura eccentrici, secondo le sue 
stesse note autobiografiche nell’arco della sua attività pisana Niccolini si dedicò 
però soprattutto alle pitture parietali, che, sebbene oggi purtroppo quasi tutte per- 
dute o indecifrabili, è tuttavia ancora possibile ricostruire almeno parzialmente. 

Una prova precoce, di cui resta testimonianza grafica, è relativa ad un lavoro di 
cui paradossalmente non resta traccia nei Ricordi redatti dall’artista. Nel 1788 la 
Comunità di Pisa prese la decisione di arricchire la chiesa dei Santi Vito e Ranie- 
ri, posta sul Lungarno nei pressi degli arsenali, con un affresco che celebrasse San 
Ranieri che, secondo la tradizione, qui era deceduto. Il piccolo oratorio era stato 
del resto completamente trasformato, e più niente aveva dell’antica fisionomia 
medievale, e dunque l’affresco recitò un ruolo doppio: devozionale, certamente, 
ma anche decorativo, dal momento che fu l'occasione per arricchirne il piccolo 
interno con delle quadrature. I progetti giunti sui tavoli dei membri della Co- 
munità — che sul tempio esercitava i patronato - furono due: quello di Pasquale 
Cioffo, onnipresente ormai in città in queste faccende, e il giovanissimo allievo 
Niccolini. Ovviamente a spuntarla fu i primo (il cui disegno fu approvato il 7 
febbraio 1789), che presentò una ornamentazione molto sobria, un finto altare, 
uno di quelli che il Napoletano aveva dipinto già altrove. Il progetto di Antonio, 
ne resta il disegno (Fig. 12), fu invece più È in quanto era pensato per 
trasformare tutta la parete di fondo dell'oratorio, o forse tutte quante le pareti, 
con quadrature che manifestavano una intonazione molto ricca, estranea agli 
esempi locali dei fratelli Melani e di Bartolomeo Busoni (tra i leaders pisani in 
questa materia), per orientarsi invece verso esempi fiorentini, alla Jacopo Chiavi- 
stelli per intenderci!*. 

Tuttavia a Niccolini fu dato un riconoscimento. Approvato il progetto del 
Cioffo, del vano centrale del finto altare si occupò Giovanni Battista Tempesti, 
che vi affrescò una importante Morte di San Ranieri (oggi completamente di- 
strutto). Secondo la testimonianza del Benci, il fondale architettonico di questo 
affresco fu lasciato al talento del Niccolini!*, che, tra i lavori dei suoi due maestri 


!° Archivio di Stato di Pisa (ASP), Comune D 170, cc. 132-33, 23.12.1789 (ma v. anche c. 144, 
25.2.1790 per un ulteriore pagamento). Il palazzo è stato completamente ricostruito dopo l’ultima guerra. 

1! ASP, Comune D 1145, 15.11.1790. 

12 ASP, Comune D 1145, 4.5.1791. 

3. RENZONI 1999. 

14 1782. Il Teatro del Re 1987, p. 104: “Talché nel quadro del Tempesti, che rappresenta la 
morte di S. Ranieri, e che fu collocato nella chiesa di S. Vito lungo l’Arno, tutte le parti architetto- 
niche vi furono dipinte dal Niccolini, quando aveva solo undici anni”. Ovviamente Benci erra circa 
l'età del pittore, che nel 1789 ne aveva 17. 


271 


Stefano Renzoni 


lasciati nel piccolo tempio, fu gratificato (e consolato) con una partecipazione 
che almeno ebbe il merito di far parlare di lui, e di mostrare la considerazione in 
cui era tenuto dai suoi maestri”. 

Intorno a quegli anni Niccolini probabilmente affrescò alcune stanze di quel 
solenne palazzo posto sui lungarni di Pisa, modernamente detto Giuli 0, adesso, 
Blu, che dal 1789 fino al 1807, quindi nel pieno degli anni pisani del pittore, fu 
la residenza della famiglia Bracci Cambini!°. 

Non conosciamo con esattezza l’anno del suo intervento, che probabilmente 
dovette precisarsi agli esordi degli anni Novanta, quando l'artista sappiamo che 
iniziava ad essere coinvolto in imprese per nulla secondarie. L'incontro con i 
Bracci fu il risultato di una precedente impresa svolta nel “grandioso” palazzo del 
magnate livornese Bevilacqua (“passava per avarone, e fu meco generosissimo”), 
posto a Fornacette, nel Pisano, vicino allaroine dell’Arno, al centro di un vasto 
possedimento e di un bel giardino. Abitando nei pressi (possedeva una villa a 
Caprona) “il cavaliere Braccia” si entusiasmò di quei lavori a tal punto da coin- 
volgere Antonio prima per la villa di Caprona (“Ma la villeggiatura di Caprone 
fu un perditempo per me”), eppoi nel palazzo di Pisa! 

Comunque sia, fu lo stesso Niccolini, nell’elencare i suoi lavori di pittura a 
Pisa, a ricordare come egli avesse esercitato il proprio talento pittorico nel bel pa- 
lazzo sul lungarno dei Bracci. Il palazzo, attualmente sede della Fondazione Pisa, 
ha subito negli anni numerosi passaggi di proprietà e altrettante trasformazioni, 
che hanno mutato l’aspetto settecentesco dell’edificio. Tuttavia in alcune stanze è 
tuttora possibile ammirare delle decorazioni a finti panneggi e velari, che possono 
essere attribuiti al pittore sanminiatese. In particolare pensiamo al grande salone 
centrale al piano nobile (Fig. 13), e ad alcune stanze di minor consistenza al pia- 
no superiore (Figg. 14-5), dove il vasto dispiegarsi delle tende, ora dipinte come 
spesse, altre come garze leggerissime, anticipa in modo assolutamente ineludi- 
bile progetti di maggiore ia eo formale, di più alta e matura qualità, che 
Niccolini disegnerà negli anni successivi, durante il lungo e proficuo soggiorno 
napoletano, così come documentato da numerosi disegni conservati negli archivi 
della capitale campana. 

La qualità un poco discontinua dei panneggi pisani induce però a proporre un'at- 
tribuzione chiaroscurata, perché le mani sembrano davvero diverse: più pesanti quelle 
del salone, più leggere e perfino aggraziate quelle dei piani superiori, circostanza che 
consente di ipotizzare una esecuzione di quelle decorazioni come frutto della bottega 
di Pasquale Ciofto, dove il giovane Niccolini come sappiamo si era formato!5. 

Furono probabilmente quelli gli anni di preparazione dell’emancipato ruolo 
artistico di Antonio, che nel 1794 venne chiamato a dipingere le scene del tetro 
dei Coraggiosi di Pomarance, mentre il successivo quelle del teatro di Pescia che, 


Tutte le decorazioni, compresa la pala del Tempesti, sono andate distrutte nell'ultima guerra. 


Sulla vicenda v.: RENZONI 1999. 

6 —RENZONI 2009, pp. 149-52. 

17 MANCINI 1980, pp. 378-79. Il cavalier Braccia è probabilmente da identificare in Filippo 
Bracci Cambini, colui che poi acquisterà il palazzo sul lungarno di Pisa: BIZZOCCHI 2001, p. 107. 

18. Su questi affreschi cfr. BURRESI 2011, pp. 65-66 (che giustamente corregge una mia prece- 
dente proposta di vedere la mano del Niccolini nella decorazione di una porta a piano terra del palazzo, 
da attribuire invece come suggerito dalla studiosa a Pasquale Cioffo). Su Cioffo: RENZONI 2020. 


272 


Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


a dar retta al biografo Antonio Benci, furono un tale successo, da essere celebrate 
dai pesciatini in modo fragoroso, “accompagnandolo [Niccolini] in trionfo e con 
gran numero di torce alla sua abitazione” ?. È sarà probabilmente dalla metà degli 
anni Novanta in poi che andranno situati i numerosi interventi che egli eseguì in 
un cospicuo numero di palazzi magnatizi pisani, che è ancora possibile identifica- 
re, ma non molto di più: Pesciolini, Rosselmini, Lucarelli, Cicconi, Montanelli?0. 

Secondo la testimonianza di Antonio Benci si sarebbe trattato di un comples- 
so d’interventi di altissimo livello, che speriamo che in qualche misura possano 
tornare visibili, perché la sensazione è quella di aver altrimenti perso un vero 
patrimonio: “Vedesi tuttavia nella città di Pisa alcune sale da lui in quel tempo di- 
pinte ove non si può desiderare maggior effetto di una vera prospettiva. Bisogna 
toccare la superficie del muro per giudicarla piana, cotanto rilevano gli edificii e 
le colonne ivi dipinte”?!. Una capacità prospettica che allineava le ricerche di An- 
tonio sulla scia dei grandi quadraturisti sei-settecenteschi, resa vitale dal supporto 
di una cultura teorica per niente banale e improvvisata: nell’ottobre del 1798 
il Nostro scrisse da Pisa al pesciatino Innocenzo Ansaldi perché gli restituisse, 
qualora come riteneva non gli fosse stata più utile, l’opera di Ignazio Pozzo”. 
Éra il segno di un aggiornamento che non seguiva solo le strade delle botteghe, 
ma anche il conforto dei libri scritti e pensati, e un interesse per le formule più 
complesse del quadraturismo barocco. 

Fu comunque sia una serie davvero densa d’interventi che fu resa possibile 
perché, nonostante la giovane età, Niccolini mise bottega per conto proprio assai 
presto, appena uscito dagli atelier di Tempesti e Cioffo, circondandosi di una nu- 
trita brigata di collaboratori, alcuni capaci di una discreta carriera autonoma. Il 
Bigoli, identificabile nel cortonese Domenico Bigoli premiato nel 1793 all’Acca- 
demia di Firenze; il Ciabatti, identificabile nel doratore Ascanio Ciabatti, assai 
attivo a fianco degli ebanisti; l’altrimenti ignoto Matteini, e infine Antonio Luzi, 
“quello che più tardi si distinse ne’ suoi dipinti alla Corte di Firenze, e che infe- 
licemente uscì di senno”, 

A questi si deve poi aggiungere il fratello Giuseppe Romolo, tra tutti sicu- 
ramente il più dotato, che, secondo una testimonianza di Carlo Lasinio, fu un 
personaggio non da poco, in quanto abile “nel genere di vedute, ed architettura”, 
nel cui campo dimostrò di essere “cognitissimo per la sua celebrità in architettura 
teatrale, in quello d’appartamento, ed in vedute. Cognitissimo in molte Acca- 
demie, non ho mai parlato con artista di merito sia francese, inglese, italiano, o 
d’altre nazioni, che A essi non fosse conosciuto il suo nome, e le opere sue”?. 


19 


TOSCANO 2013 (che segnala anche il suo non meglio precisato lavoro nel casino dei Nobili 
di Volterra). Da segnalare anche il suo intervento nel Teatro dei Risvegliati di Pistoia, dove “vi colorì 
diverse scene molto belle”: TOLOMEI 1821, p. 125. Per la citazione: // teatro del Re 1987, p. 104. 

20 MANCINI 1980, p. 379. 

2! Le parole sono quelle di Benci nella sua Vita di Antonio Niccolini: Il teatro del Re 1987, p. 104. 

2 PELLEGRINI 2008, p. 475. Si trattava del fortunatissimo testo redatto in due volumi con 
bellissime tavole, stampato a Roma nel 1693 e 1700: Perspectiva pictorum et architectorum. 

25 “Gazzetta Toscana” n. 40, 1793, p. 158. 

2%. MANCINI 1980, p. 379. 

2. LUCCHESI 1993, p. 495. Per un profilo assai essenziale della sua attività pisana: RENZONI 
1997, ad vocem. 


273 


Stefano Renzoni 


Il 31 marzo del 1792 l’artista venne pagato dai Prini per il suo lavoro “della pit- 
tura del medesimo fatta nello scenario del giardino” nella villa di Pontasserchio?®”, 
attualmente di difficile identificazione, ma che si concretizzò anche nel progetto 
di decorazione del salone della villa, condotta con i consueti velari e tendaggi, di 
cui resta un disegno?” (Fig. 16). Soddisfatti di questi lavori, le carte d’archivio ci 
restituiscono anche il senso di un apprezzamento che fu senz'altro profondo, dal 
momento che i Prini conservarono nelle loro collezioni alcuni disegni di Antonio?8. 
Fu lo sviluppo di un rapporto intenso, privilegiato, che servì probabilmente da 
caposaldo per i successivi interessi del Niccolini in campo teatrale, come vedremo. 

Incoraggiato da questi successi, nel 1793 Niccolini fece richiesta all'Ordine 
dei cavalieri di S. Stefano per poter diventare insegnante di disegno architettoni- 
co presso l’Istituto della carovana, che era una scuola concepita per contribuire 
alla formazione dei giovani cavalieri. Non vinse, ma la circostanza è ugualmente 
interessante non solo perché ribadì come i suoi interessi, e talenti, si orientassero 
verso la pittura di quadratura; ma anche perché nella richiesta egli dichiarò di aver 
già decorato due stanze “Del quartier nuovo” del palazzo Reale, nientemeno”. 

Quali fossero queste stanze è difficile dire, anche a causa dei gravi danni causati 
al palazzo dalla seconda Guerra mondiale; tuttavia recentemente È sua mano è stata 
riconosciuta nel soffitto di una stanza a piano terra con Quattro divinità greche (Era, 
Mercurio, Atena, Venere), e in quella, attigua, una sala ottagonale con Baccanti e putti. 
Si tratta di decorazioni di buona tenuta qualitativa, ma sulle quali è lecito esprimere 
dubbi circa l'attribuzione, perché, come detto, l'impegno del Niccolini documentato 
dalle carte e dalle testimonianze risulta estraneo alla pittura di figura, e - se escludiamo 
le Vedute - sembrerebbe essersi orientato esclusivamente verso la quadratura. 

Finalmente, verso la fine del secolo, il talento di Niccolini andò sempre di 
più indirizzandosi verso l'architettura, attitudine nobilitata dall’essere stato eletto 
nel 1798 Maestro di Architettura presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze®!. 
Del resto Niccolini stesso, nelle sue note autobiografiche, ricordava che in età 
imprecisata, ma verosimilmente verso la fine egli anni Ottanta, l'importante im- 
prenditore edile Antonio Toscanelli, avendo apprezzato i lavori pittorici svolti 
dall’artista col Ciofto, decise di assumerlo per fargli dipingere il suo palazzo, e 
tanto ne rimase soddisfatto da condurlo con sé sui cantieri delle numerose fabbri- 
che che aveva in costruzione, imparando in mezzo alla calce e sulle impalcature il 
mestiere dell’architetto??. Grazie a questa formazione sul posto, proseguiva il No- 
stro “Mi slanciai con difficilissime pruove. Le scale aperte sostenute da colonne 


6 Archivio Privato Prini (AFP), 204 R, 31.3.1792 
7. Il disegno è passato sul mercato antiquario assieme ad un gruppo di progetti di ristrutturazione 
della villa, appartenenti a mani diverse: RENZONI 2014. 

28 ASD, Franceschi Galletti 23, aff. XXVII. Si trattava di due disegni con Vedute teatrali. 

2° ASP, Ordine di S. Stefano 345, aff. 118. Aut. S. d. (ma del 1793). V. anche RENZONI 
1990, p. 86. 

30. Il Settecento 2011, pp. 91-4, schede di B. Moreschini. Tra l’altro l'attribuzione è esplicitamente 
il frutto di un giudizio stilistico; operazione impervia, dal momento che mancherebbero i termini di 
paragone sicuri. 

3! ZANGHERI 1999, p. 188, in data 28 marzo. 

8 MANCINI 1980, p. 378. Nessuna delle decorazioni pittoriche di palazzo Toscanelli è ricondu- 
cibile al Niccolini, ma l’edificio è stato molto rimaneggiato nel XIX secolo (la citazione è tratta dalla c. 2). 


2 
2 


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Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


di Casa Mosca, e del cavalier Montanelli: Indi il vestibolo del Teatro mi valsero 
ad essere riguardato come Architetto”, 

A giudicare del bellissimo scalone di palazzo Mosca (oggi sede degli uffici 
comunali e unito a palazzo Gambacorti), scandito da eleganti colonne doriche 
(Figg. 17-8), Niccolini era assolutamente aggiornato sull’architettura toscana co- 
eva, finendo qui con l’esprimersi nelle formule di un classicismo denaturato e 
sottile, che abbandonarono i ghiribizzi barocchi per inserirsi invece nella gora 
dell’architettura del fiorentino Gaspare Maria Paoletti. 

Quanto agli interessi per il teatro, ne accennavamo in precedenza, verso la fine 
del secolo cominciarono a sostanziarsi di occasioni decisive. Il 10 ottobre 1798 
Antonio, assieme ad un altro giovane architetto pisano destinato ad una bril- 
lante carriera in Toscana (Alessandro Gherardesca), presentò all’Accademia dei 
Costanti, che era subentrata ai Prini nel possesso del primo teatro cittadino, un 
articolato progetto per “ingrandire cioè, e migliorare il Regio teatro della Vostra 
illustre Accademia”, nella convinzione che “l'oggetto principale della costruzione 
dei moderni teatri non differisce in nessuna parte dall'antico scopo di renderla 
comoda agli spettatori, e leggiadria...”54. 

Il progetto venne inoltrato per le vie ufficiali all'Accademia, e venne analizzato 
dei membri della stessa nel dicembre del 17985, ma non se ne fece di nulla, forse 
perché i costi sembrarono troppo sostenuti (Figg. 19-21). Tuttavia il progetto dei 
due giovani architetti probabilmente risultò carente anche sotto l'aspetto forma- 
le, come un frutto ancora acerbo. La facciata ad esempio risultava eccessivamente 
sviluppata in senso orizzontale, e le era stata assegnata una conformazione stili- 
stica che faceva del prospetto di un teatro una cortina muraria poco peculiare, 
che sarebbe stato facile confondere con quella di un palazzo privato. E la cavea 
era priva di quegli ornamenti, di quelle eleganze formali, che forse i Costanti si 
LL... aspettati di trovare. 

Per nulla scoraggiato, nel nuovo secolo Niccolini sempre più approfondì la ri- 
cerca teatrale, grazie anche agli importanti lavori che nel frattempo, come vedre- 
mo, stava ottenendo nei teatri livornesi, che gli permisero di ottenere significativi 
lavori anche a Pisa: nel 1803 in quel teatro dei Costanti che era stato al centro 
dei suoi interessi, fu uno di coloro che realizzarono gli apparati scenografici de 
Il trionfo di Giuditta, un'opera di Alessandro Guglielmi su testo di Metastasio”. 

La messa in scena del dramma metastasiano cadde nel mezzo di una questione 
più grande. L'Accademia dei Costanti, che come abbiamo visto si era rifiutata 
di ristrutturare il teatro secondo il progetto di Gherardesca e Niccolini, si trovò 
a dover fare i conti con un teatro malconcio, che necessitava urgentemente di 
nuove decorazioni e abbellimenti, specie in vista della luminara triennale di S. 
Ranieri, che avrebbe portato a Pisa gran concorso di pubblico e le autorità reali. 


3. MANCINI 1980, p. 378. 

84 Si tratta di un progetto raccolto in un A/bu7 indirizzato dai due architetti “Alli Nobili Signori 
Accademia Costanti”, costituito da 9 carte rilegate più una sciolta, con relazione introduttiva, pianta del 
vecchio teatro, piante, sezioni, prospetti del nuovo. L'Album è conservato a Palazzo Blu nelle collezioni 
della Fondazione Pisa, s. n. i. : Palazzo Blu 2010, pp. 445-51 (scheda di S. Renzoni). 

3 ASD, Teatro Rossi 3, c. 12, 27.11.1798. 

36. RENZONI 2002. 

87. Il trionfo 1803. Nell'occasione Antonio collaborò col fratello Giuseppe e con Giuseppe Spampani 


275 


Stefano Renzoni 


Dalle carte d’archivio si ricava che i lavori, specie quelli al palco reale, vennero 
assegnati allo steso Niccolini, e consistettero essenzialmente in lavori pittorici. La 
questione finì però col provocare contrasti tra i Costanti e il Nostro. Niccolini 
aveva infatti prolungato la propria permanenza a Firenze (probabilmente per gli 
impegni accademici e professionali, che si facevano molto intensi), trascurando 
così i lavori pisani, che segnavano preoccupanti ritardi. Come il 30 aprile 1804 
ebbe a scrivere il segretario dei Costanti, Flaminio Dal Borgo, allo stesso artista, 
il palco Regio appariva trascurato e stava compromettendo la fama di persone 
serie di cui gli accademici potevano vantarsi. Siccome nel giugno la corte tornava 
a Pisa, era uu. che vi tornasse prima Niccolini, in s. a terminare i lavo- 
ri necessari in anticipo sulle celebrazioni”. Del resto, come segnalano le carte 
d’archivio, il lavoro assegnato al Niccolini fu molto più impegnativo del pur 
impegnativo palco Reale, in quanto avrebbe dovuto riguardare anche il soffitto, 
il sipario, il vestibolo, i palchi”. 

A questo scopo, in una seconda lettera il Dal Borgo comunicò al Niccolini e 
“ai di lei compagni essere necessario che il lavoro di pittura da eseguirsi nei Regi 
Palchi sia interamente compiuto per il giorno 9 dell’entrante giugno”, e fino a 
quel giorno gli sarebbe stato vietato di abbandonare il lavoro”. Anzi, nelle carte 
non destinate al pittore si precisò che se entro il 9 giugno Niccolini “e compagni” 
non avessero finito i lavori, il Commissario di Pisa Gherardo Maffei avrebbe sol- 
lecitato i Costanti ad usare le maniere forti”. 

Maniere che forse furono usate e che ebbero il loro effetto positivo perché, 
come risulta da un Memoriale di Giovanni Vincenzo Cosi Del Voglia, le feste in 
onore di S. Ranieri si conclusero come previsto in teatro, che risultò essere “va- 
gamente illuminato, [e] che incontrò la soddisfazione della corte e degl’innume- 
revoli forestieri e per il gusto ancora della nuova pittura, scenario e ornamento, 
opera di un certo giovine Antonio Niccolini”*3. 

Il lavoro del Niccolini andò quindi ben oltre il riassetto del palco Reale, e da 
un bel disegno autografo sappiamo come egli alla fine avesse condotto a termine 
la volta intera del teatro raffigurandovi le Nove Muse [Fig. 22]. Fu una scelta 
efficace e premonitoria, perché poi sviluppata dal Nostro non solo a Livorno, ma 
soprattutto a Napoli. 

I lavori furono molto complessi e articolati, in quanto Niccolini finì col pro- 
porre anche interventi strutturali alla parte architettonica del teatro, evidente- 


38. Niccolini “in Firenze nella suntuosa magione del filoellenico Eynard, sul lato occidentale 


dell'Arno, lo facevano avere ad artista principe, che più di altri sapevano cogliere il bello e accoppiarlo 
al sontuoso”: DE LUCA 1854, p. 109. A Firenze dipinse anche nel palazzo della marchesa Berti e nel 
teatro del palazzo della contessa d’Albany: MUZII 1997, p. 63. 

39... Per la vicenda cfr. ASP, Teatro Rossi 37, c. 2, 26.12.1803; c. 7, 26.3.1804 e 6.4.1804; cc. 9-10, 
30.4.1804 

4° GARBERO ZORZI-ZANGHERI 1992, p. 75. Antonio s impegnava ad eseguire i lavori con 
la collaborazione del fratello. 

i! ASP, Teatro Rossi 37, c. c. 11, 2.6.1804. 

4 ASP, Teatro Rossi 9, 1.6.1804. 

4. BARSANTI 2001, p. 175. 

4 —GIANNETTI 1997, pp. 75, 86: il disegno, è firmato e datato 1804. Per l’identificazione del 
soggetto v. anche POLLONI 1837, pp 54-5 n. 


276 


Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


mente memore della proposta a suo tempo fatta col Gherardesca. 

In effetti dalle carte d’archivio emerge che ad inizio Ottocento l’architetto pisa- 
no Torpé Donati fu incaricato di esaminare i disegni che Antonio Niccolini, questa 
volta assieme a Cosimo Rossi, aveva di nuovo prodotto per il “riattamento, ed 
ingrandimento del loro Regio Teatro”, perché, continuava il Donati “procedessi a 
formare un nuovo disegno per tale oggetto”, che evidentemente, ma questo non 
viene esplicitamente detto, non avevano convinto. È comunque Donati fornì certo 
nuove proposte ma, si lamentava, dal momento che oltre un anno dopo, nell’aprile 
del 1804, “i progetti sono andati in fumo, essendo quasi terminati i nuovi lavori, 
che si vanno facendo” (quelli che abbiamo visto condotti da Niccolini), Donati si 
accontentava, ma pare con qualche difficoltà, di essere ricompensato per il tempo 
che aveva inutilmente speso nel redigere piante e disegni. 

Per consentire l’esecuzione dei Li il teatro venne chiuso addirittura per 
quattro mesi, giusto per “eseguire la pittura del soffitto della platea, delle pareti di 
questa, del vestibolo e del nuovo sipario”, e Niccolini, come detto, propose ben 
altro, “in particolare una non meglio precisata variazione al palco regio e l’apertu- 
ra di due lunette nell’arco del proscenio che avrebbero dovuto, a suo dire, rendere 
più armonico il teatro ...°‘°. 

La decisione di ridipingere il teatro era stata presa dai Costanti nel gennaio 
del 1804, e tutto ruotò attorno a due fulcri: il soffitto e il palco regio, che dove- 
vano essere ridipinti e ristrutturati, circostanza che non mancò di creare qualche 
preoccupazione, perché ci si chiese se questo pur indispensabile intervento non 
avrebbe eccessivamente ridotto la capienza del teatro, sottraendogli alcuni palchi 
adiacenti quello sovrano. Il disegno tuttavia sembrò “vago e bene immaginato”, e 
Niccolini poté giocare su questo consenso per prender tempo, a Firenze”. 

Come detto, l’attività artistica di Niccolini sempre più s'intrecciava alle vi- 
cende teatrali sui palcoscenici di Livorno, dove il suo impegno fu gratificato da 
confronti assai stimolanti, e probabilmente da adeguate parcelle, nonostante con- 
tinuasse ad abitare a Pisa, nella centralissima via Tavoleria"8, ovvero nella stessa 
strada dove aveva abitato Giovanni Battista Tempesti. Del resto a Pisa, è lui stesso 
che ce lo dice, Niccolini prese a frequentare assiduamente la casa di Gaetano 
Coltellini (dove “Adunavasi in Pisa ogni sera la gioventù più allegra della Città”), 
“mio intrinseco amico”, attor comico e fratello Li poeta drammatico Abate Mar- 
co Coltellini, successore di Metastasio a Vienna, e cugino carnale della pittrice 
Costanza Coltellini*. Fu un altro segnale non solo dello spazio che si era ricavato 
in città, ma anche dei suoi ormai strutturati interessi teatrali. 


5 ASP, Teatro Rossi 9, AF. 105, 7.4.1804. Cosimo Rossi sarà da identificare nel cospicuo archi- 
tetto pistoiese Cosimo Rossi Melocchi. 

4 —SAINATI 1997, pp. 49-51. 

4 ASP, Teatro Rossi 3, c. 34, 9.1.1804; Teatro Rossi 9, 28.3.1804; 7.6.1804. Tra l’altro i lavori di 
abbellimento del teatro comportarono la necessità di rivalersi almeno parzialmente sui possessori dei 
palchi, circostanza che causò mugugni e rinunce: Zeatro Rossi 9, ottobre 1804. Del resto i lavori di ri- 
strutturazione, che ufficialmente iniziarono il 15.2.1804, costrinsero i proprietari dei palchi a trasferire 
altrove, sebbene provvisoriamente, i mobili: R. Lami, D. Sassetti, // teatro R. Rossi di Pisa e la sua storia, 
Firenze 2006, p. 7. 

48. ASP, Teatro Rossi 9, aff. 44, c. n. 72, 26.12.1805. 

9. MANCINI 1980, p. 379. 


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Stefano Renzoni 


Ed è proprio da Livorno che Niccolini scrisse ad un ignoto membro dell’Ac- 
cademia dei Costanti per avvertirlo di avergli spedito un campione di tela di Bo- 
logna (anche se di qualità non eccellente, ma non ce ne erano altre disponibili), 
“per l'esecuzione del sipario”. Addirittura non sapeva neppure se ne avessero in 
quantità sufficiente, e allora consigliava di “riscontrare” le misure col sipario vec- 
chio?°. Senza contare, aggiungeva Niccolini in una seconda lettera, che si doveva 
trovare il luogo sufficientemente grande per poter dipingere il sipario, sebbene 
una volta assicurato il convento di S. Silvestro “non importa di cercare altri locali 
[...] perché in caso che non vi entri tutto non è gran male pur che si abbia la 
libertà di serrare”?. 

Questi interessi del Niccolini rivolti verso l'architettura e la scenografia non lo 
distolsero però definitivamente dalla pittura su parete, anzi, a poco prima del suo 
congedo pisano, agli anni ultimi del suo soggiorno toscano, si deve una delle sue 
imprese pittoriche più interessanti. 

Tra il 1803 e il 1804 P’artista eseguì infatti delle pitture parietali per la villa di 
Pugnano della famiglia Roncioni. e furono piuttosto articolati, perché se è 
vero che nel gennaio del 1804 ricevette un pagamento a saldo di alcune pitture, nel 
maggio successivo ne ricevette un secondo, segno che, per l'appunto, gli impegni 
furono scanditi nel tempo??. Queste pitture sono state giustamente individuate in 
quelle elegantissime che decorano una stanza al piano terra della villa (Fig. 23), 
costituite da finti drappi adagiati sulle pareti che, secondo una tecnica consolidata 
di Niccolini, lasciavamo intravedere dei rilievi sottostanti, tratti in questo caso dalle 
Antichità di Ercolano?. Come ricordava Antonio Benci, Niccolini “in alcuni salotti, 
ove fece leggiadri gruppi di figure, poiché non gli parevano queste ben disegnate, ei 
sopra vi dipinse una tela alquanto trasparente e sì al vero consimile, che ingannava i 
nuovi spettatori, inducendogli ad accostarsi al muro per discoprire le quasi nascoste 
figure”? Forse il biografo intendeva cose proprio come queste di Pugnano. 

Per una presunta contiguità stilistica e compositiva, di recente alla mano di 
Niccolini è stata assegnata anche la decorazione del teatrino posto all’interno del 
palazzo Della Seta, nel cuore di Pisa, analogamente impostata su ampi tendaggi 
scanditi da finte figure”. La qualità tuttavia delle pitture è ben lontana dai vertici 
di villa Roncioni, e semmai a noi sembra possibile attribuirgli una più modesta 
grafia, riferibile all’ampia scuola di Niccolini, niente di più. Del resto il motivo 
della decorazione con ampi ricaschi di tende fu assai diffuso tra Sette e Ottocen- 
to, ed anche Pisa ne vanta una serie discreta di esempi, quanto basta insomma per 
consigliare una certa cautela attributiva. 


50. ASP, Teatro Rossi 9, AF. 44, 22.2.1805. 

5! ASP, Teatro Rossi 9, Af£. 44, 2.2.1806. La questione del sipario rimase in effetti in sospeso per 
la difficoltà di trovare gli spazi necessari, visto che servivano ben 300 braccia di tela: si pensò anche al 
palazzo della Conventuale dei Cavalieri stefaniani, ma non se ne fece di nulla, perché “occupato dalle 
truppe francesi”: ASP, Teatro Rossi 37, c. 30, 15.2.1805; c. 46, 7.1.1806; c. 48, 26.1.1806. 

22. Archivio Privato Prini (APR), c. 59, 21. 1. 1804; c. 113, 21.5.1804. V. anche GIUSTI-RASA- 
RIO s. d., p. 58, n. 

53. CIAMPI 1998, p. 191. V. anche // Settecento 2011, p. 169, 

5 Il teatro de Re 1987, p. 104. 

5 Il Settecento 2011, pp. 124, scheda di B. Moreschini. Ma v. anche AGOSTINI-PANAJIA 
2001, pp. 8-10. 


278 


Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


Gli ultimi anni del soggiorno toscano videro Niccolini lavorare intensamente 
a Livorno, dove fu molto attivo in campo teatrale, ma con interessi che dilagarono 
anche nella pittura privata, dal momento che la sua consolidata maestria in cam- 
po scenografico gli fecero ottenere ulteriori e variate commissioni private, come 
quella per la villa livornese del marchese Berth (“Svariate e vive dipinture”)?°. 

A Livorno ebbe poi la fortuna di fare un grande incontro, che gli cambiò 
letteralmente il punto di vista artistico, e fu quando, è lui stesso che lo racconta, 
“Capitò in Livorno a dipingere le scene il celebre cavalier Fontanesi e accorsi per 
vederle. E aimè! sclami! I dipinti cioffeschi sono larve!, Queste sono cose vere?”. 
L'incontro con lo scenografo emiliano Francesco Fontanesi ebbero così il potere 
di suggerirgli come abbandonare una concezione della quinta scenica statica e 
concepita come un fondale, alla maniera del Cioffo, per una scena dinamica, 
praticabile e ricca di contenuti prospettici, che agli occhi del Niccolini costituì la 
conclusione, il coronamento, di quegli studi che, ne abbiamo accennato, aveva 
messo a punto sui testi e le tavole di Andrea Pozzo. 

I frequenti soggiorni livornesi si conclusero al declinare del 1806, quando 
dipinse assieme al pittore livornese Giuseppe Maria Terreni il gran velario della 
volta del teatro degli Avvalorati, che a giudicare dalle descrizioni doveva essere 
all'antica, ma che ci pare riprendesse e sviluppasse le sperimentazioni sulla de- 
corazione a panneggi ampiamente sperimentate a Pisa e nel suo territorio, e che 
servirono da prototipo per la successiva e magnifica volta poi dipinta nel teatro 
San Carlo a Napoli?f. 

In quello stesso periodo, sempre a Livorno, Antonio assieme al fratello Romolo 
dipinse le scene per il balletto di Andromeda e Perseo per l'inaugurazione del teatro 
Carlo Lodovico, ideato dal celebre coreografo napoletano Gaetano Gioia. La colla- 
borazione fu assai feconda, perché agli esordi dell’anno successivo Antonio raccolse 
l'invito del coreografo di recarsi a Napoli, per un periodo che avrebbe dovuto non 
eccedere l’anno. Vi rimase fino alla morte??. Ma questo è un altro capitolo. 

Tuttavia il rapporto di Niccolini con Pisa non s'interruppe col suo trasferi- 
mento a Napoli, e così il suo interesse per il teatro, che tanto lo aveva tenuto oc- 
cupato durante i suoi anni giovanili. Nel 1823 Antonio tornò in Toscana per un 
breve soggiorno (e forse questa è una notizia sfuggita ai biografi), e sostò anche 
a Pisa, È carte pisane registrarono la sua presenza che riaccese speranze, perché 
“circa l'ingrandimento del teatro di Pisa [...] dipenderà l’effetto dall’architetto 
Niccolini venuto recentemente da Napoli”. Biabi bilmente anche questa volta, le 
idee del Niccolini sul suo amato teatro furono destinate a rimanere sulla carta”. 


56. DE LUCA 1854. 

97 MANCINI 1980. Su questo v. anche LAZZARINI 1989, pp. 73-5. 

58. Perla descrizione del velario: MAZZONI 1989, p. 94; v. anche E. GARBERO ZORZI 1989, 
pp. 55. Sulla negativa accoglienza da parte del pubblico livornese: DAL CANTO 1992, p. 38. 

5. TOSCANO 2013. 

60 ASD, Ordine S. Stefano 2126, c. 654, 30.4.1823. 


Le fotografie n. 13, 14, 15 e 19, 20, 21, vengono pubblicate per gentile concessione della 
Fondazione Pisa, che ringraziamo. 


279 


Stefano Renzoni 


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281 


Stefano Renzoni 


Fig, 1: Veduta del Lung'Arno di Pisa. 


= 


Fig, 2: Veduta delle Logge del Borgo di Pisa. 


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Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


Fig, 3: Veduta della Fortezza di Pisa. 


Fig, 4: Veduta di Pisa fuori della Porta alle Piagge. 


283 


Stefano Renzoni 


Fig, 5: Vaia dei di di Pisa dol ‘ponte nr ui 


Fig, 6: Veduta dei lungarni di Pisa. 


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Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


io, armare 


Fig, 7: Veduta dei lungarni di Pisa, con Cittadella e chiesa della Spina. 


dip: —< | —— 
2À presi _ = 


Fig, 8: Veduta di piazza del Duomo di Pisa da dietro le mura. 


285 


Stefano Renzoni 


Fig, 9: Piazza del Duomo di Pisa. 


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Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


Fig, 10: Camposanto vecchio di Pisa. 


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Stefano Renzoni 


Fig, 11: Camposanto vecchio di Pisa. 


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Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


Fig, 12: Progetto decorazione dell’oratorio nei Santi Vito e Ranieri, a Pisa. 


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Stefano Renzoni 


Fig, 13: Sala della Musica, Pisa, palazzo Blu (Proprietà Fondazione Pisa). 


Fig, 14: Decorazione parietale, Pisa, palazzo Blu (Proprietà Fondazione Pisa). 


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Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


Fig, 15: Decorazione parietale, Pisa, palazzo Blu(Proprietà Fondazione Pisa). 


Stefano Renzoni 


Fig, 16: Disegno per decorazione del salone di villa Prini a Pontasserchio. 


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Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


Fig, 17: Scalone di palazzo Mosca, Pisa. 


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Stefano Renzoni 


Fig, 18: Scalone di palazzo Mosca, Pisa. 


294 


Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


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Cono diobulehi. 8 Ingraso della Uladia. 9.Platte 
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22. Scala che conduce allitame, es0tlo-scalag 
comodo di Lueghi- comuni. 19. Diacviatina. 14 Cu 
cina di slla Diacchttina. ss. Corpo di fuardia:. 
di Trattoria. 17. Chiostra.. 18 Corsia diAidti. 
0. Manzini addetti ai repettivibalbi 20. Guardo. 
sola adatti ai ropritivAadohi:. 20. falco-scenico. 
20. Camerini gg Comici 23. dealagii PCamivini 


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Fig, 19: Album riduzione teatro dei Costanti a Pisa, pianta (Proprietà Fondazione Pisa). 


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DI Vileotigo. 10. Sngrisco della Platz 


Fig, 20: Album riduzione teatro dei Costanti a Pisa, pianta (Proprietà Fondazione Pisa). 


295 


Stefano Renzoni 


Fig, 21: A/bum riduzione teatro dei Costanti a Pisa, pianta (Proprietà Fondazione Pisa). 


296 


Prima del San Carlo. Antonio Niccolini, un pittore, 
scenografo e architetto in Toscana tra Sette e Ottocento 


Fig. 22: Disegno per soffitto del teatro dei Costanti. 


297 


Stefano Renzoni 


Fig, 23: Decorazione parietale di una stanza, villa Roncioni a Pugnano. 


298 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo 
del Ponte alla Carraia 


FABIO SOTTILI 


Le sale di palazzo Ricasoli al Ponte alla Carraia! (fig. 1) già prima del 1590 ospi- 
tarono un'importante collezione, oggi dispersa, di sculture antiche, preziosi arazzi, 
tele di Raffaello, Bugiardini e Salviati, sculture di Michelangelo e Giambologna. 
Infatti secondo il Bocchi? nel cortile interno (fig. 2) si trovavano sei “teste di rilievo 
bellissime” all’interno di tondi, un DO e un Apollo antichi di marmo mischio, 
oltre ad un Nettuno di Francesco Camilliani?, mentre in cima alla rampa delle scale 
troneggiava un busto femminile romano, di dimensioni maggiori rispetto al natu- 
rale. Entrati nel salotto rivolto verso mezzogiorno si ammiravano otto quadri “mo- 
derni” intervallati da emblemi nobiliari, e tre sopraporte: una raffigurante la Storia 
di Eliodoro, la seconda esprimente una Carità, e la terza la Parabola dei Vignaioli. 
Nella camera posta ad angolo sul lungarno si trovava un ottagono ad intarsio ligneo 
con “figure bellissime, che col pennello paiono colorite” e un San Giovannino, co- 
pia realizzata per il vescovo Ricasoli dall'originale di Raffaello che era in possesso di 
Giovan Maria Benintendi; invece una camera attigua era abbellita da una Madonna 
col Bambino, Sant'Elisabetta e San Giovannino, sempre di Raffaello. Nel salone aper- 
to verso Borgo Ognissanti si conservavano due teste classiche (un ritratto di Sci- 
pione l’Africano e un Antonino Pio), una sopraporta con alcune figure a olio tratte 
da un cartone di Michelangelo (forse quello della famosa Battaglia di Cascina), e 
una tela eseguita da Giuliano Bugiardini (ma non completata) su disegno di Fra 
Bartolomeo raffigurante il Ratto di Dina, citata da Vasari”. Nel piano nobile vi era 
anche una cappella riccamente adornata con una Deposizione di Francesco Salviati 
e un Cristo in croce in bronzo del Giambologna. 

A costituire la collezione fu Giovan Battista di Simone Ricasoli (1504-1572), 
vescovo di Cortona dal 1538 e poi di Pistoia dal 1560, uomo erudito, soven- 
te occupato in ambascerie, e persona di fiducia del granduca Cosimo presso la 
corte papale? (fig. 3). Committente illustre, a lui si i nel 1553 la volontà di 
decorare le tre facciate del palazzo al Ponte alla Carraia con episodi di storia an- 
tica affrescati da Francesco Pagani, allievo di Andrea del Sarto: questi risultavano 
già danneggiati alla fine del Cinquecento quando si mostravano in parte ancora 
visibili alcune figure di imperatori romani, un fregio con trofei, un Giove e una 
Giunone®. 


1 


Su questo palazzo vedi Ginori Lisci 1972, vol. 1, pp. 157-160. 
BoccHI 1591, pp. 103-107. 
Fino ad un decennio fa il cortile di palazzo Ricasoli esponeva un Giasone col vello d’oro di Pietro 
Francavilla proveniente da palazzo Zanchini, ora al Bargello (cfr. PEGAZZANO 2002). 
4 VasaRI 1845-1848, vol. 2, parte terza, Firenze 1848, pp. 105-106. 
PASsERINI 1861, pp. 73-80. 
BoccHi 1591, p. 103. Il vescovo Ricasoli promosse anche la costruzione di un proprio palazzo in via 


2 
3: 


s 
6 


299 


Fabio Sottili 


Delle opere d’arte da lui raccolte non se ne conoscono i destini. 

Il San Giovannino nel deserto era copia del notissimo quadro di Raffaello oggi 
agli Uffizi (fig. 4) che ebbe una grande fortuna nei secoli passati”, attestata dell: 
numerose repliche antiche. Purtroppo la Madonna col Bambino, Sant'Elisabetta e 
San Giovannino, indicata come opera di Raffaello, risulta di difficile individua- 
zione®: il Bocchi? la descrive come una Vergine che tiene in collo Gesù Bambino, 
mentre Sant'Elisabetta “sopra un caldano asciuga un panno bianco” e San Gio- 
vannino “al fuoco, come fanno i fanciulli, sembra di scaldarsi”. 

Per quanto riguarda il quadro del Bugiardini col Ratto di Dina, sappiamo che 
era stato dipinto ad olio su tela ma risultava incompleto. Rimase nella quadreria 
dei Ricasoli fino al momento della vendita pubblica di opere del palazzo di Ponte 
alla Carraia avvenuta nel XVIII secolo, quando fu acquistato lor Ignazio 
Hugford, e da questi successivamente venduto a Joseph Smith, console inglese 
a Venezia: da quel momento se ne sono perse le tracce!°. Del Ratto di Dina si 
conosce una replica autografa dello stesso Bugiardini, che nel 1737 è ricordata 
nell’inventario di quadri appartenenti a Rodolfo II, passata poi nel 1784 al Kun- 
sthistorisches Museum di Vienna dove tuttora è conservata (fig. 5). 

La Parabola dei Vignaioli si pensa invece che possa essere individuabile nella 
tavola di collezione privata (le dimensioni 130x132 cm corrisponderebbero con 
quanto riportato negli inventari Ricasoli) attribuita a Francesco Ubertini detto il 
Bachiacca (fig. 6), o una sua replica"!. 

Uno dei pochi dipinti di cui è stato possibile accertare la provenienza dalla 
collezione Ricasoli è il Compianto sul Cristo morto di Bartolomeo Fancelli", copia 
del prototipo del Perugino realizzato per le clarisse del convento di Santa Chiara 
attualmente conservato a Pitti, e riconoscibile nella “Sconficcazzione di Nostro 
Signore in tavola” (le misure potrebbero essere compatibili) conservato per due 
secoli nella galleria della dimora di Ponte alla Carraia!* (fig. 7). 

Soltanto con gli inventari seicenteschi di palazzo Ricasoli si attesta nella guar- 
daroba dell’esistenza di un parato di otto arazzi illustranti la Vita di Coriolano 


San Gallo, per il quale si consiglia la consultazione di PoLi/PiccINI/BRUNETTI 1973, e di JONIETZ 2011. 

7. Il dipinto (inv. 1890, n. 1446), nonostante sia ricordato da Vasari e dagli inventari del museo 
come autografo di Raffaello, attualmente non si considera eseguito (o almeno completato) dal pittore 
urbinate ma da un suo collaboratore di bottega, che deve aver lavorato su una composizione ideata dal 
maestro fra il 1517 ed il 1518. Il San Giovannino Ricasoli dovette essere realizzato prima del 1568, 
anno dell’uscita del prototipo dalla raccolta Benintendi. Su questo cfr. HENRY/JOANNIDES 2012, con 
bibliografia precedente. 

8 Analizzando gli inventari di Casa Ricasoli sembra di poter essere certi che si trattava di un 
dipinto su tavola di circa 150x120 cm. 

?. BoccHI 1591, p. 105. 

Turi 1994; TURI 1995. 

Cfr. la scheda di Francesca Baldassari in BERTI/LUZZETTI 2008, pp. 54-57. Di questo quadro è 
stata rinvenuta una replica dipinta su una tavola di dimensioni simili (128x129,5 cm), passata dal mer- 
cato antiquario parmense nel 1993, e assegnabile ad un pittore fiorentino del XVI secolo. Anche nella 
quadreria della famiglia De” Nobili nel 1578 si trovava una “vendemmia” in tela del Bachiacca (VASETTI 
2015, pp. 26-27). 

1? Si tratta di una tempera e olio su tavola, di dimensioni 172x138 cm, firmata e datata 1507, oggi 
appartenente ad una collezione privata fiorentina. Si consulti in proposito Fumi CAMBI GADO 2005. 

1 Firenze, Archivio Ricasoli Firidolfi (da ora ARF), filza 65, ins. 3, s.n.; ARE filza 65, ins. 12, c. 2r. 


10 
1l 


300 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


con figure al naturale, e di 13 arazzi quali sopraporte con medaglioni illustranti 
la Storia di Sansone, oltre a due portiere con lo stemma del vescovo Ricasoli!*: 
evidentemente commissionati anch'essi da Giovan Battista Ricasoli, soltanto nel 
Settecento una parte andò a caratterizzare la sala d'angolo fra il lungarno e Ponte 
alla Carraia (strategicamente con l’affaccio più ameno) che infatti venne rivestita 
per mezzo di quattro arazzi esprimenti la Storia di Coriolano”. 

Oltre a questi, una grande tavola con l’Ebbrezza di Noè e due monumentali 
“Storie degli antichi romani” (una con l’episodio di Nerone che ripudia Ottavia) 
su tela! attestano che il decoro artistico delle sale principali era incentrato su 
soggetti dell'Antico Testamento e su temi della storia romana - accompagnati da 
reperti della classicità -, in linea col gusto moralizzante e antiquariale della curia 
papale. 

A partire dal 1674 nei documenti Ricasoli appare registrata una piccola sta- 
tuetta di una figura maschile in ginocchioni, ma senza un braccio, realizzata in 
terracotta dipinta di bianco per simulare il marmo, e attribuita a Michelangelo!”: 
si ritiene fosse un bozzetto per una commissione medicea (l’Ercole e Caco per 
Palazzo Vecchio?) e che pertanto anche questa provenisse dal nucleo artistico 
radunato dal vescovo Ricasoli. 

Tutte le opere più importanti della raccolta, composta da circa centocinquan- 
ta pezzi, erano ospitate nel quartiere di rappresentanza posto al piano nobile 
del palazzo, raggiungibile dallo scalone monumentale, e costituito dall’infilara di 
quattro sale con affaccio verso il ponte e verso Borgo Ognissanti. 

I beni di monsignor Giovan Battista Ricasoli passarono a Giuliano di Pietro 
Ricasoli (1553-1590), lodato cortigiano mediceo e fondatore del priorato di Fi- 
renze, a cui si deve la costruzione dol noto casino posto di fronte al palazzo, con 
annessa terrazza e giardino (oggi non più esistenti) che verranno particolarmente 
celebrati nei secoli successivi'* (fig. 8). Dopo di lui la proprietà dn del figlio 
Giovan Battista (1580-post 1620) che nel 1602 subentrò al fratello Francesco 
nel priorato di Firenze, e venne investito dell’abito dei cavalieri di Santo Stefano 
nello stesso anno in cui sposò Virginia di Orazio Rucellai. Quest'ultima, erede 
dei Rucellai e dei Della Casa, portò molte ricchezze ai Ricasoli, e il di lei fratello, 
Luigi Rucellai, chiamando alla successione il nipote Orazio (figlio della sorella), 
lo obbligò ad aggiungere il suo cognome a quello dei Ricasoli (fig. 9). 

L’erede fu quindi Orazio di Giovan Battista Ricasoli (1604-1673)!’: paggio 
mediceo e sedicente allievo di Galileo (notizia falsa in realtà), da Ferdinando II 
venne eletto gentiluomo di camera, fu incaricato di varie ambascerie, divenne 
precettore di suo figlio Francesco e soprintendente della Biblioteca Laurenziana 
(1657). Nel 1670 fu confermato nel ruolo di gentiluomo di camera da Cosi- 
mo III. Ottenne l'elezione a gran connestabile dell'Ordine di Santo Stefano nel 


14. ARE filza 65, ins. 3, s. n. 

5. ARE filza 65, ins. 12, c. 1v; ARF filza 53, ins. 4, c. 2v; ARE filza 21, ins. 27, s. n. 

16 ARF filza 53, ins. 4, c. 2r. 

7 ARE filza 65, ins. 3, s.n.; ARE filza 65, ins. 12, c. 1v; ARE filza 21, ins. 27, s. n. Mentre nel 
Seicento risultava presente nella libreria del palazzo, durante il secolo successivo il modelletto in terra- 
cotta andò ad abbellire la galleria posta sul lungarno. 

18 Cfr. SOTTILI 2014. 

PASSERINI 1861, pp. 84-91. 


19 


301 


Fabio Sottili 


1656, dopo che dal 1620 era diventato priore dell'assemblea fiorentina. Illustre 
erudito, e console dell’Accademia fiorentina nel 1653, fece parte dell’Accademia 
della Crusca di cui più volte ricoprì il ruolo di arciconsole in quello stesso decen- 
nio: venne conosciuto all’interno dell’Accademia con l'appellativo di [Imperfetto 
e la sua impresa rappresenta un disegno in matita rossa corretto con midolla di 
pane, arricchito dal motto “Per ammenda”?° (fig. 10). Sposato nel 1632 con Ma- 
ria Felice del senator Luigi Altoviti (deceduta nel 1699), ebbe come erede il figlio 
Luigi (1639-1704). 

Con Orazio Ricasoli Rucellai il palazzo di famiglia iniziò ad essere affittato a 
nobili inquilini visto che i suoi impegni lo portavano spesso lontano da Firenze, 
e così fra il quarto e il quinto decennio del XVII secolo divenne la residenza del 
marchese Fabrizio Colloredo prima, e del marchese Filippo Niccolini poi?': in 
tale periodo il palazzo venne spogliato della sua raccolta artistica, lasciando invece 
col suo nobile arredo la loggia che lo fronteggiava, aperta su un elegante giardino 
all’italiana. All’’orto” del palazzo, sito dalla parte opposta della strada, si accede- 
va dalla loggia (fig. 8) che nel 1636 esponeva due alberi genealogici (Ricasoli e 
Rucellai), quattro quadri con fanciulli nudi, altri quattro rappresentanti paesi, 
e tre piccole statue di marmo collocate su piedistalli dipinti con gli stemmi dei 
Ricasoli; a fianco della loggia un salotto, e il relativo camerino, erano abbelliti da 
nove tele con vedute di paesaggio??. Infine un busto di marmo effigiante Giuliano 
Ricasoli, posto sopra la porta del terrazzo soprastante, celebrava la figura del com- 
mittente che aveva voluto arricchire il palazzo di famiglia con quest'area verde. 

Alla morte di Orazio Ricasoli Rucellai (1673), i suoi beni passarono inizial- 
mente al figlio Luigi, e successivamente (1704) all’altro figlio Giovan Battista 
(morto nel 1718). Da questi diventarono proprietà del nipote Ugo Maria di 
Luigi (1683-1754), ultimo del suo ramo?3. 

Il palazzo venne nuovamente abitato dagli esponenti della famiglia Ricasoli 
fra la metà del Seicento e il 1754: vi fu quindi esposta un'importante collezione 
d’arte composta da centinaia di dipinti, sculture (antiche e moderne), arazzi e 
mobili sontuosi, costituitasi ampliando la raccolta del vescovo cinquecentesco, e 
purtroppo oggi non più presente. 

La quadreria dei Ricasoli in età barocca rese ancora più sontuosa la già illustre 
raccolta rinascimentale, andando ad aftollare le pareti degli ambienti del primo 


20 


Cfr. CrarpI/TonciorcI Tomasi 1983, pp. 318-319; CAROTI 2001, pp. 27-50; Rossi 2007, 
pp. 116-118. 

2! SOTTILI 2014, pp. 190-193. 
All'epoca di Orazio Ricasoli Rucellai la “camera dell'orto” esponeva un quadro grande con un 
San Giovanni Evangelista, due paesini tondi, una piccola tela con “Nostro Signore cercato da Giudici”, 
e una Conversione di San Paolo di piccolo formato, mentre nel salotto vi erano conservati cinque quadri 
di paesi, un grande dipinto con Susanna, e un altro raffigurante una Notte; infine nella loggia vi si trova- 
vano gli alberi genealogici di Casa Ricasoli e Rucellai, quattro paesaggi, un grande quadro di un Cupido, 
quattro dipinti esprimenti “scherzi di bambini”, e l'effigie di un poeta (ARE filza 53, ins. 4, cc. 11r-v). 

2 Durante questi decenni l'Ordine di Santo Stefano riuscì ad ottenere che si ipotecassero gli 
immobili dei Ricasoli per mancanze alla rendita del priorato di Firenze dopo la morte di Orazio, fino 
a quando Giovan Francesco del senatore Giovanni Ricasoli (1686-1765), erede di Ugo di Luigi, fece 
causa contro l'Ordine pisano ottenendo così che i 5/6 della proprietà fossero afferenti a lui, ed il sesto 
restante “alla Religione”. 


22 


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La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


piano rivolte verso il prospetto principale e verso sud in sale che avevano un’affac- 
cio ineguagliabile sul “nobile spettacolo, col fiume d'Arno, co’ bellissimi palazzi 
quasi in sembianza di teatro, che sono oltra la riva, il rendono insiememente 
[sic] magnifico, e sovrano”. L'infilata di sale aveva il suo inizio dal salotto verso 
Parione, per poi entrare nella sala dei ritratti e delle statue (celebrante la famiglia 
e la latinità), continuare nella sala degli arazzi (detta anche la “sala di cantona- 
ta”), e trovare la sua apoteosi nella galleria affacciata sul lungarno, interamente 
tappezzata di quadri, concludendosi poi nel “gabinettino” con le opere di piccolo 
formato. 

La collezione divenne riflesso delle scelte artistiche della corte medicea, infatti 
celebrava i più importanti esponenti della pittura seicentesca fiorentina (Bilivert, 
Stefano Della Bella, Pignoni, Dolci, Noferi, Bonechi, Scacciati) e ospitava i pitto- 
ri che si erano trasferiti in Italia dal Nord Europa diventando gli artisti dei gran- 
duchi (Suttermans, Mehus, Reschi, e svariati, ma anonimi, autori fiamminghi). 

I più prestigiosi nomi della pittura e della scultura dei secoli XVI e XVII 
erano stati acquistati in originale (Raffaello, Bugiardini, Bachiacca, Salviati, Ca- 
milliani, Giambologna, Passignano, Santi di Tito, Rutilio Manetti, Pietro Lauri, 
Luca Giordano) e in copia (Raffaello, Bassano), dimostrando una predilezione 
per la scuola fiorentina e veneziana (episodicamente è rappresentata anche quella 
senese, napoletana e francese). Le pareti poi accoglievano un gran numero di tele 
con nature morte, fiori, animali, paesaggi, battaglie, e scene di genere (Reschi, 
Scacciati, Van Plattenberg, Van Laer), nonché ritratti di Casa Medici e Ricasoli 
(Suttermans, Della Bella, e Van Dyck forse). I soggetti più ricorrenti erano co- 
munque quelli di ambito religioso oppure a tema storico. La collezione ospitava 
anche un buon numero di tele prive di un autore. 

Nella collezione dei Ricasoli gli artisti con le maggiori presenze erano Reschi, 
Bonechi e il Bamboccio, ma soprattutto generici pittori fiamminghi, esecutori di 
quadri con vedute, marine e battaglie. 

Carlo Dolci veniva abitualmente scelto per la dolcezza e la sensualità delle sue 
immagini sacre, ed infatti qui era presente in una piccola versione su rame della 
Santa Rosa da Lima eseguita dalla figlia Agnese” replicando una fortunata tavola 
eseguita dal padre e oggi alla Galleria Palatina (fig. 11) oppure l'effigie dell’ovale 
dl pinacoteca alli mentre Livio Mehus veniva apprezzato come pittore 
di soggetti di ambito religioso (i Ricasoli possedevano un Annuncio ai pastori 
dipinto da questo artista). Del Bonechi, ammirato per le sue eleganze classiciste, 
si conservavano quattro Baccanali. 

Diverse sono le opere alle quali vengono attribuite paternità altisonanti, ma 
che invece potrebbero essere ricondotte a scolari o copisti: esemplificativi sono i 
quadri di Raffaello, Bassano, Poussin, e Van Dyck. 

Molti erano i ritratti, sia di famiglia, sia costituenti serie di uomini illustri, sia 
effigi dei regnanti medicei, ma purtroppo di pochi gli inventari rivelano la pater- 
nità artistica, come il Ritratto È Ferdinando II eseguito da Justus Suttermans e il 
Ritratto di Cosimo III a cavallo di Stefano Della Bella del 1660 circa: di quest’ulti- 


mo, raffigurante il giovane granduca in groppa ad un cavallo bianco e attualmen- 


24 


BoccHI 1591, p. 103. 


25 Sull’attività di Agnese Dolci si rimanda al testo di BENASSAI 2015, pp. 152-153. 


303 


Fabio Sottili 


te irrintracciato, esistono vari disegni preparatori?°, fra cui il bel disegno a matita, 
inchiostro e acquerello, passato recentemente a Parigi all’asta Christie's del 24 
Marzo 2021 quale lotto 22 (fig. 12). 

Dei disegni appartenuti ai Ricasoli si segnala quello in chiaroscuro del Pas- 
signano conservato nel XVIII secolo all’interno del “gabinettino” delle opere di 
piccolo formato, riconosciuto nel foglio degli Uffizi col Banchetto di Ester e Assue- 
ro?” (fig. 13), della cui provenienza Ricasoli testimonia Giuseppe Pelli Bencivenni 
a fine Settecento?8, e nato quale studio compositivo per la grande tela venezianeg- 
giante ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna??. 


26. Del dipinto rimane memoria in quattro disegni conservati all’ Ermitage, al Louvre e nella Syz 


collection. Cfr. LANGEDIJK 2013, vol. I, pp. 592-593; KLEMM 2013, p. 278, n. 8. 

27. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 864 E. Il disegno dimostra l'influenza 
della produzione grafica di Palma il Giovane. Cfr. PerrIOLI TOFANI 1982, p. 84. 

28. Firenze, Archivio della Biblioteca della Galleria degli Uffizi, ms. 463, ins. 10, Catalogo delle 
pitture della R. Galleria compilato da Giuseppe Bencivenni già Pelli Direttore della medesima. Parte I, c. 31. 
Il direttore degli Uffizi nel 1775 segnala la presenza nei corridoi degli Uffizi di un quadro raffigurante 
“La cena di Assuero sotto un magnifico loggiato, colla veduta di Babilonia. Di Domenico Cresti detto il 
Passignano. Lume da alto a .... Alto b. 2.12, largo b. 3.10. Nella collezione del Gabinetto dei Disegni vi 
è il pensiero originale di questo quadro nel vol. IX dei Piccoli n. 65, che fu lasciato per legato a S.A.R. 
dall'abate Zanobi Ricasoli nel 1777”. Nel libro che analizza la genealogia della famiglia (PASSERINI 
1861, p. 106) si ricorda che l'abate Zanobi Ricasoli (1739-1777) “visse demente in abito ecclesiastico, 
senza però ricevere veruno degli ordini maggiori. Si uccise, gettandosi da una finestra del suo palazzo, 
il 12 febbraio 1777”; quindi il disegno venne acquisito dalle collezioni granducali al momento della 
morte di uno degli ultimi esponenti di quel ramo della casata. 

2°. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemiildegalerie, inv. 1522. La tela passò nel 1792 da 
Firenze a Vienna. 


304 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


Appendice: 
ARE, filza 53, fasc. 4, cc. 2r-7r 


Inventario di palazzo Ricasoli al Ponte alla Carraia nel 1720 
c. 2r 
Inventario di tutte le robe mobilj argentj gioie et altro che si ritrovano nel 
Palazzo posto in Firenze al Ponte alla Carraia di proprietà di Messer Priore Ugo 
Maria Rucellaj Ricasolj. î 
In Sala al Piano Nobile 
Un quadro alto braccia 4:1/4 largo braccia 5:3/4 constrocordone con adorna- 
mento di legnio bianco a foggia di stuco e un filetto d’oro intorno la tela dipin- 
tovj Nerone quando ripudia n°1 
Altro sitalle alto braccia 4:1/5 largo braccia 6:1/2 con adornamento simile 
entrovj una Storia degli antichi Romani®° n°1 
N° 6 paraventi dipinti di fuorj a fiori et arcitettura con cornice di oro a mecca 
con sue [vuoto] con sue torze a ora che quattro dipintj da tutte e due le parti et 
uno fissato al chiodo al muro et uno verso la dispenza sempre di tela con suo 
paletto 
Una cassapanca di noce di braccia 5:1/6 con sua spagliera e piedi torniti 
Altra simile di braccia 5 buona misura come sopra 
Due dette braccia 3:1/2 come sopra 
Quattro dette di braccia 3 buona misura come sopra 
Due sgabellonj da teste di noce con arme di Casa Ricasolj 
c. 2V 
Prima Camera su la Sala che fa cantonata lungo Arno 
Quattro pezzj di arazzo che uno alto braccia 6:1/3 e largo braccia 7 soldi 3 
altro alto braccia 6:1/3 e largo braccia 8:5/6 quasi? 
Altro alto braccia 6:1/3 e largo braccia 8 ___ e altro alto braccia 6:1/3 e largo 
braccia 3 soldi 17 entrovj Boschereccj e Figurine 
Una cornice sopra il parato indorata a mecca in tutto braccia 30 in circa 
Tre palchettj scorniciatj e intagliatj alle finestre doratj a mecca n° 
Due tavolinj di braccia 3 con piedi tornitj di noce tintj nerj n°2 
Un para fuoco di noce n°1 
N° 10 seggiole con fusti di noce e ricorsi di dommasco rosso; e sue coperte 
rosse nuove n°10 


30. Nel 1754 nella “sala grande che riesce dirimpetto a Borgo Ognissanti” si trovavano “Due qua- 


dri lunghi braccia 5.2/3 e alti braccia 4.1/2 in circa rappresentanti due Istorie regie”. 

31 Nella guardaroba del palazzo nel 1674 si trovavano “otto pezzi d’arazzo di diverse grandezze 
rappresentante l’Istoria di Coriolano, con figure al naturale con due tele dipinte a somiglianza de sud- 
detti (alto braccia 6 Ya largo il maggiore 6: 8 e mezzo in circa e il minore 4 in circa). N° tredici pezzi 
d’arazzo ora sopra porti, et altro tutti rabescati con alcuni medaglioni rappresentanti i fatti di Sansone 
con dua portiere del Vescovo Ricasoli tutte due compagne (alti braccia 6 in circha)”, mentre “un parato 
di panno d’Arazzo con l’Istoria di Coriolano consistente in numero quattro pezzi” era nella “camera 
della cantonata” nel 1704; gli stessi quattro arazzi nel 1735 erano presenti nella “camera del canto che 
riesce lungarno nell’appartamento della signora”. 


305 


Fabio Sottili 


Due torcierj che figurano due puttinj tuttj doratj n°2 
Tre tende di tela di braccia 6:5/6 l’una alta e targhe a quattro sedi con quattro 
nappe all’inglese per tenda e sue cordonj n°3 
Una portiera dipinta a arazzo con arme di Casa Ricasolj con suo cordone di 
fattura di più color) e sue nappe similj n°1 
Due quadrj di ritrattj con cornici alla Salvator Rosa tutta dorata altj braccia 3 
soldi 2 e larghj braccia 1 soldi 12 sopra le porte n°2 
Un lio di cagliola di frutte e con un paesino con piedi torniti nerj di 
braccia n°2 
Got 
Segue la Galleria verso lungo Arno 
N°9 quadrj alti braccia uno 1/3 larghj braccia due in circa con adornamento 
dorato e poco giallo che in cinque sono paesi e figurine due vedute di città sul 
mare e due battaglie notturne. Vengono dal Fiammingo n°9 
N° due quadrj alti braccia uno 1/3 larghj braccia uno con adornamento come 
sopra dipintovj paesi. Vengono dal Fiammingo n°2 
N° . . . CINE: . 


Un quadro di braccia 1:3/4 scarse alto e largo braccia 1:1/3 dipinto su l’asse 
entrovi la Madonna con un Bambino in collo e San Giovannino con adornamen- 
to alla Salvator Rosa dorato 
Un quadro di grandezza come sopra dipinto in tela entrovj la Madonna con 
quattro puttinj con cornice come sopra 
Un quadro alto braccia 2:1/6 e largo braccia 1:2/3 dipinto Santa Caterina 
della ruota con adornamento alla Salvator Rosa come sopra 
Un altro simile di braccia 2 soldi 1 alto e largo 1:12 dipintovi la Madonna col 
salterio in mano 
Un quadro alto braccia 2:1/6 e largo 2 soldi 2 dipintovj Santa scalza di mano 
del Cav. Luca®* con adornamento alla Salvator Rosa dorato 
c. v 
Un quadro di braccia 2:2/3 alto e braccia 2 soldi 2 largo dipinto su l’asse en- 
trovj Santa Elisabetta la Madonna Giesù e S. Giovannino con adornamento un 
poco all’antica giallo et oro? 

Un quadro se Grandezza et adornamento dipintovj S. Francesco 
Un simile con istesso adornamento dipintovj un ritratto antico 
Un quadro alto braccia 2:5/6 e largo braccia 2:1/4 di legnio dipintovj la Carità 
con adornamento all’antica giallo et oro?° 


32. Stefano Della Bella (1610-1664). 
3. Anton Van Dyck (1599-1641). 
3. Luca Giordano (1634-1705). 
Un “quadro grande in tavole con cornice di noce dorata rappresentante la Madonna, con S. Li- 
sabetta al naturale, e due puttini Alto braccia 2 e mezzo e due dita e largo 3 scarze” era nel salotto lungo 
l'Arno nel 1674. Dovrebbe indicare il quadro raffaellesco raffigurante una Madonna col Bambino, Santa 
Elisabetta e San Giovannino che il Bocchi attesta in una camera di palazzo Ricasoli prima del 1590, e 
che era stato acquistato dal vescovo Giovan Battista Ricasoli, (BoccHI 1591, pp. 104-105). 

36. Una “Carità in tavola con cornice di noce filettata d’oro alta braccia 2. 5/6 larga 2. 1/6” arre- 


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La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


Un quadro di braccia 3:1/4 alto e largo braccia 2:1/3 dipintovi la Madonna 
che insegnia leggere a Giesù con adornamento all’antica giallo et oro?” 

Due quadrj alti braccia 2:1/3 e larghi braccia 3__ dipintovj Baccanalj dicano 
vengano dal Bassano®* con cornice alla romana gialla et oro 

Due quadrj alti braccia 2 e larghj braccia 2:2/3 dipintovj animalj con adorna- 
mento giallo et oro 

Due quadrettj alti braccia3/4 e larghj braccia 1 in uno dipintovj figurine di 
Monsù Bamboccio??; e l’altro un paesino di maniera fiamminga con adornamen- 
to alla Salvator Rosa doratj e gialli 

Due quadrettj di braccia ___ soldi 18 alti e larghi 2/3 braccia in uno dipin- 
tovj San Giovannino e l’altro Santa [vuoto] del Pignionj'° con adornamentj alla 
Salvator Rosa giallj et oro 

Tre altj quadrettj di poca differenza di grandezza dipintovj in due una testa di 
turchi et in uno una femmina 

c. 4r 


con adornamento alla Salvator Rosa giallo et oro 

Un altro sopra di braccia soldi 19 largo braccia 2/3 dipintovj San Carlo con 
adornamento antico dorato 

Bue-Un quadrettio to dipintovj un paese braccia __ soldi 17 largo braccia 1 
fiammingo con cornice dorata 

Altro simile dipintovj varie figurine cornice come suddetta di Monsù Ban- 
boccio”! 

Due tavole di marmo di giallo di Siena di braccia 3 scorniciate con sua coperta 
di quoio giallo fiorito e dii intagliati 

Dodici seggiole a bracciolj ricamati a rose con fustj di noce tornitj e sua co- 
perte gialle di quoio fiorito 

N°6 sgabellettj all'inglese di ricamo un poco consumato 

Uno oriuolo di ottone a suono con sveglia e sua cassa color d’aria et oro 

Due palchettj intagliatj alle finestre dorati a mecca con due tende alte braccia 
7:2/3 e larghe teli 4 con sue quattro nappe per tenda all’inglese e sua cordonj. 

Quattro ferrj con sue pulegge da portiere sulle porte. 

Due orme di matarasso bianco; e sua catinella con coperchio simile; e sua 
barina di intaglio 

Dua simile più piccole con catinella color d’agata con bare come sopra. 

c. dv 


dava il salotto lungo l'Arno nel 1674; nel 1735 la stessa doveva trovarsi nella camera terrena successiva 
a quella corrispondente a mano ritta dall’ingresso che esce in Borgo Ognissanti, mentre nel 1754 era 
nel “salotto buono de quadri” e veniva indicata come “una femmina con tre putti d.ta la carità”. Un 
sopraporta illustrante una Carità “con alcuni puttini d’attorno” era presente in un salotto di palazzo 
Ricasoli prima del 1590, (BoccHi 1591, p. 104). 

87. Forse è il “Quadro alto B:a 3 largo B:2 ‘4 incirca con cornice all'antica fondo giallo, e dorata 
rapp:te S. Anna, che insegna leggere alla SS:ma Vergine in età puerile” che nel 1754 era nel “salotto 
buono de quadri”. 

38. Iacopo Bassano (1515-1592). 

39. Peter Van Laer (1599-1642). 

40. Simone Pignoni (1611-1698). 

4! Peter Van Laer (1599-1642). 


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Fabio Sottili 


Camera accanto che riesce Lungarno 

Numero otto seggiole a bracciolj centinate di dommasco cremisi nuovo guar- 
nizione vellutata e sue coperte di corame di domasco rosse n°8 

Due tavole di noce et altrj legnami di braccia [vuoto] con a piedi tornitj e la 
cordata di intaglio nero con sua coperte di quoio et dommasco rosso n°2 
Un cassettone di noce con intagli di legnio doratj toppe e chiavi n°1 
Una segreteria alla franzese di noce filettata di nero e bianco con n°14 cassette 
con borchette di ottone dorate toppe e chiavi n°1 
Un tavolino di noce a para fuoco n°1 
N°3 ferrj da portiere con sue puleggi e gli usci n°3 

cdi 

Gabbinettino a canto che riesce Lungarno 
Un parato di seta cremisi sotto i quadri di più perni n°1 
Due quadrj alti braccia _ 6/5 di fiorj dello Scacciatjf? con adornamento giallo 
et oro n°2 
Un altro quadro di braccia 2:1/6 entrovj un ritratto di femmina che si abbiglia 
et un canino e fiorj dicesi del Biliveltj5 scolare del Cigolj/* con adornamento alla 
Salvator Rosa gialla e di oro’ n°1 
N°4 Baccanalj di braccia 1 soldi 2 di Matteo Bonechj* con adornamento 
d’oro e giallo n°2 
N°2 quadrettj di braccia 1:1/4 dipintovj paesi con cacciatorj e pescatorj e 
cornice dorata di Pandolfo Fiammingo” n°2 
Un paese bislungo alto braccia 1:1/4 cornice di oro e giallo fiammingo n°1 
Un altro paesino bislungo dipinto su l’asse con cornice come sopra fiammingo 
alto braccia _ soldi 8 n°1 
Un quadro grande braccia 3:2/3 di detto dipintovj l’Apparizione dell’Angiolo 
ai Pastorj di Livio Meus" n°1 

Due quadrj compagnj di braccia 1 soldi 1:8 dipintovj Bambocciati Fiammin- 
ghj n°2 

Un disegnio a chiaro scuro entrovj di braccia 2/3 con cornice dorata in basso 
dorata della scuola del Passigniano*? n°1 

Un quadretto della stessa grandezza et adornamento entrovj S. Girolamo di 
autore incerto?0 


c. 5v 


4. Andrea Scacciati (1644-1710). 

#4. Giovanni Bilivert (1585-1644). 

‘4 Ludovico Cardi, detto il Cigoli (1559-1613). 

5 Nel 1754 si trovava nel “Gabinetto, che riesce sull'Arno contiguo al Salotto”. 

“6 Matteo Bonechi (1669-1756). 

4. Pandolf Resch, italianizzato in Pandolfo Reschi (1640-1696). 

48. Livio Mehus (1627-1691). 

4. Domenico Cresti, detto il Passignano (1559-1638). Si tratta dello schizzo per il Banchetto di 
Ester e Assuero ora al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi. 

°° Un “S. Girolamo in tavola di mezzo busto con cornice dorata alto braccia uno e tre quarti e 
largo un braccio ed 1/5” era nel “salotto lung Arno” nel 1674. 


308 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


Uno ovato di marmo antico con adornamento dorato di braccia 5 n°1 
Altro ovato simile di legnio del Noferj? n°1 
Un quadro di braccia 1:5/8 con adornamento con paste dorato entrovj il ri- 
tratto di Ferdinando Secondo Granduca di Monsù Giusto? n°1 

Un quadro con adornamento indorato alto braccia 1:2/5 dipintovj una fem- 
mina del Vandich? n°1 
Un paese alto braccia 1:1/3 e largo braccia 2 con diverse figure a piedi e a ca- 
vallo con adornamento compagno a di uno scolare di Pandolfo?‘ n°1 
Un quadro di braccia 3 dipinte diverse figure che armano un'armata di autore 
antico 

Due quadrettj compagnj di braccia 2/3 entrovj due Battaglie con cornice do- 
rata di Monsù Antonio” n°2 

Un quadro alto braccia 1:2/5 con adornamento indorato dipintovj il Gran- 
duca Cosimo 3° di Toscana quando era giovanetto a cavallo di Stefanino della 
Bella?° n°1 

Un quadro della stessa grandezza et ornamenti dipintovj un paese fiammingo 
n°l 

Uno quadro entrovj una testa di persona ideale alto braccia 5/6 con adorna- 
mento dorato 

con paste di Salvator Rosa n°1 

Altro quadro simile entrovj dipintovj una testa di un vechio di Casa Adimarj 
quale vi è il ricordo dietro essere morto [vuoto] di autor incerto antico n°1 
Un quadretto a chiaroscuro di braccia _ soldi 12 dipintovj la Circoncisione di 
Nostro Signore con cornice dorata del Manetti di Siena?” n°] 
Uno simile dipinto sul legnio entrovj S. Giovanni Battista di Santi di Tito? 


n°l 
c. 6r 
Un quadretto di braccia a terzo con cornice dorata dipinto sul rame entr 
entrovj Santa Rosa della figliola di Carlin Dolcj? n°1 

Un quadretto tondo dipintovj un paesino del Possino®® n°1 

Un quadro di braccia 1:2/3 dipintovj un Crocifisso sul legnio antico con cor- 
nice dorata n°1 

Un quadretto braccia 3/4 dipintovj un paese con figurine che rappresentano 
quando Nostro Signore va in Emmaus con cornice dorata n°1 


51. Michele Noferi (?-1661) 
22 Justus Suttermans (1597-1681). 
5... Anton Van Dyck (1599-1641). 
54... Pandolf Resch, italianizzato in Pandolfo Reschi (1640-1696). 
5. Matthieu Van Plattenberg, noto come Antonio Montagna (1608-1660). 
Stefano Della Bella. Forse si tratta del quadro alto braccia 1 e 1/3 e largo braccia 1 e due soldi 
con un “Ritratto di un Personaggio a cavallo”, che nel 1754 era nel “salotto buono de quadri”. Si può 
ipotizzare che fosse la tela originale del Della Bella, o una sua replica, con Cosimo III ritratto “al natu- 
rale” che Baldinucci ricorda a Pitti, ma oggi scomparsa. 

5”... Rutilio Manetti (1571-1639). 

58. Santi di Tito (1536-1603). 

9. Agnese Dolci (1659-1731), figlia del pittore Carlo Dolci. 

6° Nicolas Poussin (1594-1665). 


56 


309 


Fabio Sottili 


Altro simile che rappresenta varie figurine in nave con cornice simile 

Due ovalj di braccia 1/2 dipintovj Buun bucrane con cornice dorata 

Due quadretti di braccia 1/2 dipintovj due femmine di Monsù Pietro con 
cornice come sopra 

Due quadrj di braccia 2/3 dipintj sul rame in uno San Francesco, e l’altro 
Santa Rosa-di Chiara da Sisi con cornice dorata e gialla°? 

Due quadrettj di braccia_ soldi 11 entrovj due disegnj con suo vetro sopra e 
cornice dorata 

Un quadrettino di braccia 1/3 dipintovj Nostro Signore alla colonna con cor- 
nice di intaglio dorata 

Due quadrettj di braccia 1/3 dipinti sul rame figure nude con cornice dorata 

Due battagline di braccia 1/3 con cornice come sopra 

Due quadrettj di braccia 1/2 entrovj due ritrattj 
Due où di braccia 1/2 di fiorj dipintj su la carta pecora e cornice di 


intaglio dorata 
c. 6v 
Una medaglia di bronzo entro la Madonna Giesù S. Giuseppe 
Altra simile entrovj la famosa monna Faustina 
c. 7r 


Camera della Cappella verso Parione 

Un quadro alto braccia 3:1/3 largho a 4:1/2 in circa dipintovj una Ve- 
nere con adornamento all’antica giallo et oro a mecca® 

Un quadro alto braccia 3:1/2 buona misura largo braccia 4:1/2 su l’asse en- 
trovj Novè con i sua figliolj con adornamento antico giallo et oro a mecca‘ 

Un quadro alto braccia 3 scarse e largo braccia 2:1/4 dipinto le quattro parti 
e fiorj con adornamento giallo et oro a mecca 

Un quadro alto braccia 3 e largo braccia 3:1/2 buona misura dipintovj Giu- 
ditta che taglia la testa ad Oloferne con cornice gialla all'antica filettato d’oro”. 


6! Forse Pietro Lauri (Pierre Laurier, noto anche come Monsù Pietro), francese, scolaro di Guido Reni. 


Nel 1754 si trovava nel “Gabinetto, che riesce sull’Arno contiguo al Salotto”. 
Era ancora presente nella stessa sala nel 1754. 
Di “altezza braccia 3 4 larghezza braccia 4 2/6 [...] un quadro grande in tavola con cornice di 
noce grande entrovi un Nove briaco con i tre figlioli” era nella prima sala nel 1674; nel 1704 lo stesso 
quadro si trovava nel salotto dell’appartamento di Parione, mentre nel 1735 si conservava nel “salotto 
dell'ingresso” e nel 1754 era nella “Stanza degl’'Arazzi che riesce sull'Arno”. 

65 Nel 1754 era presente nella stessa sala. 


62 
63 
64 


310 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


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311 


Fabio Sottili 


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Ospedaletto (Pi) 2015, pp. 13-68. 


312 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


"=== - 2 SEE ci ca e 
Fig. 1: G. Zocchi disegnatore, P. Pazzi incisore, Veduta di una parte di Lung'Arno dalla parte opposta al 
Palazzo del Signore Priore Corsini, 1744, incisione. Particolare con Palazzo Ricasoli. 


Fig. 2: Firenze, Cortile interno del Palazzo Ricasoli al Ponte alla Carraia. 


313 


Fabio Sottili 


J x Ù | 
Fig. 3: Romolo del Tadda, Monumento funebre di Giovan Battista Ricasoli (particolare), 1572 ca. Firenze, 
Santa Maria Novella. 


U 


314 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


Fig. 4: Bottega di Raffaello Sanzio, San Giovannino nel deserto, 1518-1519 circa, olio su tela. Firenze, 
Uffizi. Su concessione del Ministero della Cultura. Sono vietate ulteriori riproduzioni o duplicazioni 
con qualsiasi mezzo. 


315 


Fabio Sottili 


Fig. 5: Giuliano Bugiardini, // Ratto di Dina, 1531, olio su tela. Vienna, Kunsthistorisches Museum. 


316 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


Fig. 6: Francesco Ubertini detto il Bachiacca, La Parabola dei Vignaioli, terzo-quarto decennio del XVI 
secolo, olio su tavola. Collezione privata. 


317 


Fabio Sottili 


Fig. 7: Bartolomeo Fancelli, Compianto sul Cristo morto, 1507, olio su tavola. Firenze, Collezione pri- 
vata. 


318 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


SD STE: 
= 


VILLINO RICASOLI 
x n" 


— Fronte vers il Levante — 
TREIA 


Fig. 8: Felice Francolini e Pietro Mario Conti, Fronte principale del Villino Ricasoli, 1855, disegno ac- 
querellato. Archivio Storico del Comune di Firenze, car. 404/10. 


319 


Fabio Sottili 


Fig. 9: Antonio Montauti, Medaglia di Orazio Ricasoli Rucellai, 1711, riprodotta in incisione all’interno 


del Saggio di lettere d’Orazio Rucellai e di testimonianze autorevoli in lode e difesa dell'Accademia della 
Crusca, edito a Firenze nel 1826. 


320 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


2 
7 


Pei ato 


Fig. 10: Pala di Orazio Ricasoli Rucellai, detto l’Imperfetto, Disegno appartenente alla Raccolta d'imprese 
degli Accademici della Crusca, 1684. Firenze, Biblioteca dell’Accademia della Crusca, Ms. 125 (C). 


321 


Fabio Sottili 


Fig. 11: Carlo Dolci, Santa Rosa da Lima, 1668, olio su tavola. Firenze, Galleria Palatina. Su concessio- 
ne del Ministero della Cultura. Sono vietate ulteriori riproduzioni o duplicazioni con qualsiasi mezzo. 


322 


La collezione d’arte dei Ricasoli al palazzo del Ponte alla Carraia 


Fig. 12: Stefano Della Bella, Cosimo III a cavallo, 1660 circa, disegno a matita, inchiostro e acquerello. 
Parigi, asta Christie's del 24 Marzo 2021 (lotto 22). 


323 


Fabio Sottili 


Fig. 13: Domenico Cresti detto il Passignano, Banchetto di Ester e Assuero, disegno a penna e acquerello. 
Firenze, GDSU, inv. 864 E Su concessione del Ministero della Cultura. Sono vietate ulteriori riprodu- 
zioni o duplicazioni con qualsiasi mezzo. 


324 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze 
dal Seicento al Novecento 


COSTANTINO CECCANTI 


Introduzione 

La fortezza da Basso di Firenze, conosciuta anche come fortezza di San Gio- 
vanni Battista o fortezza Alessandrina, ha svolto nella storia e nella storia dell’ar- 
chitettura toscane un ruolo fondamentale. Come vedremo nel corso della relazio- 
ne, l’edificio fu il perno di una strategia politica e militare del duca Alessandro dei 
Medici (1530-1537), finalizzata a una completa revisione delle strutture difensive 
dello Stato fiorentino. Oltre a questo intervento, poco o niente venne realizzato e, 
quindi, la fortezza fiorentina resta l’unica aaibile testimonianza di questo com- 
plesso progetto. Inoltre, la fortezza da Basso, per quanto mai terminata secondo il 
progetto iniziale di Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546), fu modello per 
i numerosi interventi che nei decenni successivi alla morte di Alessandro, quelli 
del ducato di Cosimo I (1537-1574), vennero realizzati in numerose località del 

randucato. In questo frangente, riveste un ruolo fondamentale la più piccola 
bui pistoiese di Santa Barbara che venne ricostruita nei primi anni dell’epoca 
cosimiana da Nanni Unghero (1480-1546), lo stesso architetto che si occupò di 
dirigere i lavori alla fortezza da Basso. 

Quest'ultima ha, inoltre, svolto, come già accennato, un ruolo essenziale nella 
vita di Firenze, pur non essendo mai impiegata per lo scopo per cui era stata co- 
struita, cioè quello difensivo. Tuttavia, oltre ad aver adempiuto alla funzione di 
caserma, ha ospitato un carcere, alcuni rifugi antiaerei durante la seconda guerra 
mondiale, importanti laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure e, negli ultimi 
decenni, è diventata il maggior polo espositivo della regione, uno dei più impor- 
tanti d’Italia. Proprio la necessità di far convivere un edificio rinascimentale con 
una funzione che deve sempre stare al passo con i tempi, è al contempo fonte 
di nuove e più affascinanti sfide ma anche di complessi problemi relativi alla 
conservazione corretta di un manufatto di tale importanza. L'edificio continua 
a svolgere ancora oggi la funzione di fondamentale polo urbano, ovviamente, in 
maniera molto differente dal passato. Se, infatti, Gli periodo in cui era occupato 
dai militari fungeva da principale elemento del complesso difensivo della città, 
con i lavori del piano di Giuseppe Poggi (1811-1901), finalizzati a conferire un 
assetto moderno alla città di Firenze appena divenuta capitale d’Italia, la fortezza 
da Basso si è trovata ad essere uno dei principali poli del nuovo sistema dei viali 
di circonvallazione e a svolgere il ruolo di cerniera tra il centro storico e nuovi 
quartieri dell'espansione ottocentesca. 


Nel primo Seicento: la presenza di Giulio Parigi 
Agli inizi del Seicento, la struttura si presentava fedele al progetto originario 
di Antonio il Giovane per quanto riguardava i bastioni esterni, tra cui spiccava 


325 


Costantino Ceccanti 


quello del maschio, rivolto verso la città, interamente rivestito in pietra forte, men- 
tre, relativamente all’interno, gli intendimenti originari non erano stati rispettati, 
cosicché di quanto progettato dal Sangallo non era stato realizzato praticamente 
niente e le strutture edificate avevano certamente una minore qualità architetto- 
nica ed erano state approntate ogniqualvolta era stato necessario, dando vita a un 
insieme di scarsa qualità. 

Gli anni tra il 1627 e il 1630 rappresentarono un momento importante di 
svolta per la fortezza: si ha infatti notizia che nel marzo del 1627 ci furono degli 
smottamenti nel muro esterno e fu richiesto l'intervento dell’architetto grandu- 
cale Giulio Parigi (1571-1635)'. La presenza del torrente Mugnone era, inoltre, 
cagione di continui problemi dal momento che, in caso di alluvione, l’acqua del 
torrente rifluiva copiosamente nel fossato della fortezza?. 

Pochi anni dopo, nel 1635, Giulio Parigi propose, in una documentata rela- 
zione, la realizzazione di alcuni interventi tesi a razionalizzare la complessa dispo- 
sizione che si era venuta a creare all’interno del complesso?. 

Parigi suggerì di abbattere il magazzino del salnitro, probabile causa di incendi 
e di abbassare una strada interna per ridurre l'umidità degli edifici che vi si aftac- 
ciavano*. Probabilmente, tuttavia, queste proposte restarono sulla carta. 


Annibale Cecchi e la costruzione della nuova cortina meridionale nel 1646 

I lavori condotti da Antonio da Sangallo il Giovane hanno, nei decenni pas- 
sati, riscosso notevole interesse tra gli studiosi, facendo in modo che i copiosi 
interventi portati avanti nel Seicento da architetti del calibro di Annibale Cecchi 
(1600ca.-1675ca.)? e, soprattutto, di Antonio Ferri (1651-1716), siano del tutto 
passati in secondo piano. 

Infatti, è stato soltanto nel 1990, in occasione della pubblicazione della mo- 
nografia dedicata alla fortezza da Basso, che i meno importanti lavori seicenteschi 
hanno saputo catalizzare su di sé l’interesse degli addetti ai lavori. 

Annibale Cecchi apparteneva alla nutrita schiera di architetti funzionari dello 
Stato che nel granducato mediceo si occupavano essenzialmente del patrimonio 
della dinastia e di quello pubblico. 

I primi esponenti di questa categoria possono essere rintracciati già nel Cin- 
quecento: Davide Fortini, infatti, lavorò al completamento di palazzo Pitti già 
diversi decenni prima dell’intervento di Bartolomeo Ammannati (1511-1592), 
mentre Raffaello Pagni° si occupò delle fabbriche medicee in epoca granducale, 
lavorando al giardino di Boboli ma anche al completamento di alcuni aspetti 
secondari del corridoio vasariano. 


! Ivi, p. 139. 
La soluzione dei problemi derivanti dalla presenza del torrente Mugnone si avrà solo nell’Otto- 

cento, in occasione della regimentazione del corso d’acqua. 

è. Gurrieri & Mazzoni 1990, p. 141. 

4 Ibidem. 

5 È da sottolineare come, tuttavia, la vicenda architettonica di Annibale Cecchi sia stata detta- 
gliatamente indagata in Orefice 2007. 

$ Ancora oggi, poco o niente si conosce dell'attività di Raffaello Pagni, attivo negli importanti 
cantieri medicei di Castello e del corridoio vasariano. Si veda in proposito Supino 1899. 


326 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


Originario di Pescia”, città al confine tra granducato e la Repubblica di Lucca, 
ma legatissima a Firenze, Annibale Cecchi si interessò essenzialmente di fortifi- 
cazioni, tant'è che all'Archivio di Stato di Firenze è possibile consultare nume- 
rosissime sue relazioni relative alle fortezze del granducato, tra cui, per esempio, 
quelle di Pisa, di Terra del Sole, di Arezzo e molte altreS. E nota soltanto una 
sua architettura civile: si tratta del palazzo della Dogana di Livorno, realizzato 
su committenza medicea e connotato dalla presenza di un elegante loggia a tre 
arcate in facciata. 

Certamente, gli interventi posti in atto alla fortezza da Basso sono quelli che 
più impegnarono Annibale Cecchi: accanto alle pagine manoscritte, si è conser- 
vato un interessante disegno, comprensivo di una dettagliatissima legenda relati- 
vo alla porzione meridionale del muro della fortezza, a suoi problemi strutturali 
e agli interventi proposti dall'architetto per risolverli. 

Le vecchie mura trecentesche della città, costruita interamente in pietra forte, 
erano state impiegate da Antonio il Giovane e da Nanni Unghero per la realizza- 
zione della nuova fortezza, di cui andarono a costituire il limite meridionale, con 
l'intenzione di modernizzarle e includerle nella moderna cinta a scarpa. 

Tuttavia, a causa della rapidità con cui furono condotti lavori, ancora nel 
pieno Seicento quest'intervento era da realizzare. L’opera di Annibale Cecchi, 
illustrata in questo disegno, era appunto incentrata sull’allargamento di questa 
primitiva porzione di muratura trecentesca. Andando infatti ad analizzare nel 
dettaglio quanto scritto e disegnato dall’architetto, vediamo che il muro medie- 
vale era stato integrato soltanto in prossimità del maschio mentre, nella restan- 
te parte, si era provveduto soltanto a costituire un modesto terrapieno alle sue 
spalle. Il progetto, realizzato, prevedeva un sostanziale raddoppio del terrapieno 
e, soprattutto, il raddoppio della cinta mediante un suo allargamento con una 
nuova muratura in laterizio a scarpa. 

Certamente, questo intervento seicentesco diventa, alla luce di quanto illu- 
strato in questo documento, il più importante dal punto di vista militare dopo 
quelli operati negli anni Trenta del Cinquecento. Inoltre, un altro lavoro realiz- 
zato da Annibale Cecchi fu l’interessante garitta pensile localizzata nel bastione 
dello Strozzo?. 

Sempre allo stesso Cecchi dobbiamo, inoltre, la realizzazione del porticato 
localizzato al di sopra del maschio sangallesco. Questo intervento, individuato 
già da Gurrieri e Mazzoni nel 1990'°, effettuato nel 1656 per proteggere dalle 
infiltrazioni d’acqua i locali sottostanti, conferì al maschio l’assetto deffivo che 
vediamo ancora oggi". 


7. Nonè stata compiuta un'indagine genealogica relativa ad Annibale Cecchi, tuttavia è lecito 


pensare che appartenesse alla nobile famiglia pesciatina dei Cecchi, una delle più importanti della città 
assieme ai Pagni e ai Turini. 

8. Orefice 2007. 

?ASE Fortezze e Fabbriche Lorenesi, 1928, fasc. 44, c. 414 r. 

!° Gurrieri & Mazzoni 1990, p. 143. 
ASE, Fortezze e Fabbriche Lorenesi, 1928, fasc. 44, carta non numerata. 


327 


Costantino Ceccanti 


La relazione di Antonio Ferri 
Tra i numerosi interventi che, per tutto il Seicento, si susseguirono nel com- 
plesso cantiere della fortezza da Basso, va segnalato, non tanto per la sua enti- 
tà, quanto per il prestigio del progettista, quello realizzato da Antonio Ferri nel 
1689. È necessario, seppur brevemente, accennare all’attività architettonica che 
quest'ultimo svolse a Firenze e nel granducato in un periodo di grande rilevan- 
za, il passaggio tra Seicento e Settecento. Nato a Firenze, Antonio Ferri forse fu 
allievo di Pierfrancesco Silvani e di Ferdinando Tacca!?. Il suo primo incarico 
importante lo ricevette nel 1679 quando divenne aiuto dell'ingegnere delle for- 
tezze e fabbriche medicee. Il suo rapporto con l'architettura militare era quindi di 
lunga data al momento in cui si trovò a stendere la relazione relativa alla fortezza 
da Basso. A cavallo dei due secoli, il Ferri costruì numerosi edifici, a Firenze e 
altrove, in un linguaggio che riusciva a mediare brillantemente l’eredità tardo cin- 
uecentesca fiorentina e le innovazioni romane. Tra gli esempi più significativi, 
i palazzo Corsini di Firenze, il santuario del Santissimo crocifisso a San Miniato 
e il completamento del palazzo Orlandini. Stretti furono sempre i rapporti con 
Roma e con la cerchia dei Fontana, tant'è che proprio su suggerimento di Fran- 
cesco Fontana fu chiamato dal cardinale Bandino fai a dirigere i lavori 
di costruzione del suo palazzo fiorentino in via Larga. Morì a Firenze nel 1716". 
Per quanto riguarda la relazione progettuale della fortezza da Basso, il Ferri si tro- 
vò a dover aftrontare un problema alquanto annoso, quello relativo alle ripetute 
inondazioni del torrente Mugnone, che provocavano periodicamente danni sia al 
fossato che alle cortine dei bastioni. Non sappiamo se i lavori proposti vennero 
realizzati, tuttavia l'importo complessivo ipotizzato dal Ferri, 1090 scudi", ci fa 
capire come si trattasse di interventi tutt'altro che marginali, finalizzati alla riso- 
luzione di una questione di lunga data. Interessanti sono anche le annotazioni 
che l’architetto fornisce relativamente ai bastioni: per esempio, riguardo al bastio- 
ne dell’Imperiale, ci dà la notizia come quest’ultimo fosse già all’epoca fornito di 
garitte le quali erano in pessime condizioni e necessitavano di una ricostruzione. 
Il ua del fosso non venne probabilmente risolto, tant'è che diversi de- 
cenni dopo, nel 1765, una relazione in questo caso firmata dall'ingegnere Joseph 
De Boillore, di probabile origine lorenese, parlava ancora della situazione. È 
corredata da ben due disegni esplicativi, entrambi acquerellati e di grande inte- 
resse. Il primo è una pianta dell’intero complesso, comprensivo del fosso: nella le- 
genda sono indicati chiaramente i provvedimenti necessari a risolvere la situazio- 
ne. Tra questi, uno dei più risolutivi era quello che prevedeva la regimentazione 
del fossato mediante la realizzazione di due pareti a scarpa. Questo particolare è 
perfettamente illustrato nel secondo disegno, una sezione della via d’acqua. A ul- 
teriore dimostrazione del fatto che ormai fossimo in periodo lorenese è la presen- 
za, accanto alla consueta scala in braccia fiorentine, di un’altra in tese di Vienna. 


!? Cfr. Finocchi Ghersi 1997. 

53 Ibidem. 

ASE Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche Lorenesi, 1928, fasc. 44, anno 1646, carta non numerata. 
ASE Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche Lorenesi, 1955, fasc. 12, anno 1765, carte non numerate. 


328 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


Il Settecento, la rivoluzione Francese e il periodo napoleonico 

I problemi che, per tutto il Seicento, avevano interessato la fortezza da Basso si 
ripresentarono in maniera ancor più grave nel secolo successivo, soprattutto dopo 
l'estinzione della dinastia medicea, avvenuta nel 1737. 

Intanto, il ruolo militare della fortezza si stava progressivamente esaurendo, 
tant'è che nel primo Settecento diverse famiglie, i. ii. nei laboratori 
posti all’interno del complesso, vivevano negli edifici localizzati all’interno delle 
cortine. Puntualmente, i problemi relativi alle esondazioni del Mugnone tornava- 
no d’attualità. Sebbene si succedessero alla carica di ingegnere delle fortezze per- 
sonaggi di grande rilevanza, come per esempio Alessandro Galilei (1691-1737), 
architetto i Corsini e progettista della facciata di San Giovanni in Laterano a 
Roma, nessun tipo di lavoro strutturale veniva compiuto, con l’eccezione di mo- 
desti interventi relativi alla distribuzione interna delle stanze del grande edificio 
centrale porticato. 

Nei primi anni del nuovo periodo lorenese, il colonnello Odoardo Warren 
ricoprì il ruolo di direttore delle fortificazioni dello Stato. In quel frangente, cercò 
di rivitalizzare la fortezza, facendo giungere da altri fortilizi cannoni e altri arma- 
menti, tuttavia compì un passo fondamentale nella direzione della smilitarizza- 
zione, andando a affittare tutte le porzioni del complesso non necessarie per il 
perseguimento di scopi militari!°. Un altro passo decisivo in questa direzione fu la 
scelta di inserire all’interno della fortezza un carcere, sia maschile che femminile, 
che resterà al suo interno fino agli anni dell'Unità d’Italia! 

La fortezza passò in maniera tranquilla i tumultuosi periodi della rivoluzione 
Francese e dell’impero napoleonico e arrivò indenne e, pressoché fatiscente, al 1815, 
anno del congresso di Vienna e del ritorno degli Asburgo Lorena sul trono toscano. 


La fortezza da Basso tra Ottocento e Novecento 

Col periodo della Restaurazione, venne definitivamente meno lo scopo difen- 
sivo per il quale la fortezza da Basso era stata pensata. 

Ormai ai margini dei dibattiti politico e architettonico fiorentini, la fortezza, 
pur conservando la funzione di presidio militare, cominciò ad essere vista come 
un inutile orpello derivante da un’epoca passata, il simbolo di un periodo, quello 
del granducato mediceo, ormai consegnato alla storia. 

È fu proprio tra Ottocento e Novecento che l’assetto interno della fortezza, 
per quanto disorganico e cresciuto disordinatamente nei secoli, venne gravemen- 
te modificato e si arrivò perfino, già nel tardo Ottocento, a eliminare i terrapieni 
dalle cortine e perfino da alcuni bastioni, rendendo di fatto illeggibile la funzione 
originaria del complesso. 

I documenti conservati all’Archivio di Stato di Firenze, molto numerosi per 
quanto riguarda la fase ottocentesca ma quasi inesistenti per quella successiva, 
si limitano essenzialmente a progetti di poche pretese per gli edifici interni e a 
dettagliati inventari che testimoniano lo squallore in cui il complesso era piom- 
bato!!. 


6 Gurrieri & Mazzoni 1990, p. 157. 
Ivi, p. 161. 
18 Ivi, p. 189 e Concorso nazionale d'idee 1967, senza numero di pagina. 


329 


Costantino Ceccanti 


Con il trasferimento della capitale a Firenze, nel 1865, la fortezza si trovò ad 
essere uno dei cardini del nuovo piano urbanistico di Giuseppe Poggi (1811- 
1901), che decise di mantenere il fortilizio, andando però a eliminare il fossato e, 
addirittura, interrandolo parzialmente per dar luogo ai nuovi assi di scorrimento 
e ai giardini posti sui lati orientale e settentrionale. Nel 1900 avvenne un nuovo 
passaggio all'’amministrazione militare e una nuova trasformazione in caserma". 

A questo punto sono le piante che ci vengono in aiuto per poter capire quali 
sono state le modifiche apportate al complesso nella prima metà del secolo. 

Estremamente importanti sono due elaborati conservati presso l’Archivio 
storico del comune di Firenze: non se ne conosce l’esatta datazione, tuttavia il 
primo?°, che presenta anche i viali e la piazza Indipendenza, è, probabilmente, 
collocabile nei primi anni successivi all’ Unità d’Italia, mentre il secondo?! è stato 
quasi con ogni probabilità disegnato dopo il 1900, poiché è presente l’edificio 
militare collocato lungo la cortina occidentale. 

Andando ad analizzare nei dettagli le differenze tra i due disegni, ci rendiamo 
subito conto di come i cambiamenti siano stati numerosi: a metà Ottocento gli 
edifici si concentravano nell’area centrale e tra questi spiccavano il maschio e il 
grande edificio centrale porticato. Presumibilmente, i terrapieni erano ancora 
intatti, dal momento che nessuna costruzione appare addossata alle cortine. 

La situazione di circa cinquant'anni dopo è molto diversa: l’area è ormai quasi 
per intero occupata. Continua ad esistere soltanto una parte del terrapieno della 
cortina meridionale, quello tra il maschio il bastione Rastriglia e i bastioni sono 
tutti invasi da edifici, con l’eccezione dello stesso Rastriglia e del Bellavista. 

La cortina meridionale, tra il maschio e il bastione Cavaniglia, è occupata dal- 
la presenza di un fabbricato addossato alle mura: probabilmente proprio durante 
la sua realizzazione, per ricavare più spazio, il muro difensivo venne parzialmente 
demolito con l’eliminazione della parte più interna, quella cioè corrispondente 
alle mura trecentesche. Anche alla cortina orientale è addossato un lungo edificio 
che verrà poi abbattuto al momento della realizzazione del padiglione Spadolini. 
La presenza militare continuò fino a dopo la seconda guerra mondiale ed ebbe 
termine negli anni Sessanta. Nel gennaio del 1967 venne bandito un concorso di 
idee per la trasformazione del complesso in centro espositivo??. Tuttavia, bisognò 
aspettare il 1975 per assistere ai primi restauri ad opera della soprintendenza e, 
soprattutto, per la costruzione del padiglione Spadolini, divenuto col tempo il 
centro dell'intero popolo espositivo?5. Nei tardi anni Ottanta vennero compiuti 
ulteriori lavori di restauro al maschio e all'edificio porticato. 


!° Gurrieri & Mazzoni 1990, p. 189. 

20. Archivio Storico del Comune di Firenze (d’ora in avanti ASCF), amfce 1263 (cass. 43 ins. E). 
2! ASCE rot. 003641. 

Concorso nazionale d'idee 1967, senza numero di pagina. 

23. Fortezza da Basso 1984. 


330 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


Appendice Documentaria 
La relazione di Annibale Cecchi sul potenziamento della fortezza da Basso 


ASF Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lorenesi, 1928, fasc. 44 
(1646), carta non numerata: 


“Per maggiormente dichiarasi quello che si è concordato da farsi nell’opera- 
tione della muraglia alla nuova cortina della fortezza da Basso; si son fatte queste 
due figure solo per intelligenza del necessario sapersi e però senza scala o propor- 
zione precisa del naturale, bastando solo dichiarare il concordato. Dimostra la 
prima figura il profilo come sta la muraglia A che era già muraglia della città. Fu 
lasciata perché servisse per cortina della fortezza con il concordato e principio B. 
da farsi che è quello che si va principiando. Si vede la città C accosto a detta mu- 
raglia vecchia che li serve per reggere la presente poco fondata giacché con il fosso 
cavato si scalza come tutto dimostra la 2° figura D la 2° figura mostra che levata 
la terra C rimane scalzata la muraglia A e si vede che il fondamento non arriva al 
piano del fosso ma rimane a galla come in D è però necessario che per il nuovo 
muro l’intramine per fare il nuovo muro E più fondo circa tre braccia trovando 
così il pancon sodo, l’acqua viva e di fossa di meno. Per tal imperfetione di fonda- 
menti del muro vecchio si solvono far il ringrossamento a portioni di braccia 10 
o 12 per volta et alzar tali portioni fino dove arriva il i della terra secondo 
si vede fatto nella 2° figura con le linee puntate F. Le linee puntate G nell’istessa 
figura in cima mostrano l’altezza maggiore della muraglia più dell’altra cortina 

uale va livellata. E là, per decoro e da di tale lavoro, sarà bene levarlo nella 
di dell’alzamento, acciò non segua che l’alzar la muraglia F abbassar la parte 
G faccia salita nella fortezza di poco decoro. Tanto più aa si può adoperare tali 
materiali dello sbassamento all'ultimo alzamento, con più comodità. La terra 
che si porta dentro si metta ne luoghi puntati H che più tosto resti più bassa di 
quello ha da esserci con grande pendio verso il dentro della fortezza e così con 
minor carico alla muraglia vecchia e nuova. Con la 3° figura si rappresenta tutta 
la cortina acciò più Lili apparisca il modo concluso di far tal lavoro, cioè a 
un pezzo per volta e sfuggire il pericolo che scalzata, a un tratto non rovinasse. Li 
posti segniati I sono li stessi da farsi, un per volta, e ripieno come in K segniato 
con i punti. Stimai allora li pezzi segniati in L facendosi in tal modo l’ispirazione 
con più sicurezza. 

Alla muraglia avviata dalle bande ch'è quella che adesso si ha da seguitarsi, vi è la 
strada delle contramine. Quando fu rifatta l’altra cortina che era pur della medesi- 
ma muraglia della detta in retta linea con questa non fu giudicato sine far tal strada. 
Ma poiché si può indire che fusse lasciata perché allora si faceva tal cortina per esser 
rovinata la muraglia della città, e però non volettero far nel muro nuovo tal strada 
e provatisi ma non la lasciassero. Ma adesso el farsi non possa esser di danno, ma 
di comodo e di rispiarmo di manifattura e spesa. Si potria con impostar l’archetto 
d’essa nel muro vecchio servirsi quello di nuovo collaterale della strada, e non ebbe 
havere per di drietro l'orto di muraglia e per di fuora circa braccia 7 e mezzo in 
posto basso per la cortina, e da non portare infiacchimento alla muraglia, avanzo di 
materiali e spesa al centesimo et per difendersi dalle mine bisognia contraminare, 
dove non sono fatte fare le comodità. Al caso di tal muraglia è forzoso passare tal 


331 


Costantino Ceccanti 


strada per minar così fatto è questa essendosi farà utile e non porterà danno per le 
considerationi delle grossezze di muro M, strada delle contramine.” 


La relazione di Antonio Ferri sullo stato della fortezza da Basso 


Archivio di Stato di Firenze, Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lo- 
renesi, 1936, fasc. 1131, anno 1689: 


“a dì 10 novembre 1689 

signor Antonio Mormorai, sotto provveditore delle fortezze fabbriche di Sua 
altezza serenissima 

conforme il comando di Sua altezza serenissima, sono stato a riconoscere i danni 
fatti al castello di San Giovanni battista dal fiume Mugnone 

dirimpetto alla faccia del baluardo della Cavaniglia, che guarda verso la porta a 
Sangallo sulla contro scarpa la piena o inondazione del fiume affatto una rosa dove 
si tira dietro un pezzo di campo per reggere la strada coperta e della contro scarpa 
andrebbe proseguita un muro circa abbraccia 30 alto braccia 10 e grosso braccia 
uno sarà spesa a tutte spese fattura del muratore circa scudi 60 

il fianco del baluardo della Cavaniglia presentemente è fatto di due legni attra- 
verso bisognerebbe rifarlo di sopra mattone e questo si può fare con le solite mae- 
stranze della fabbrica per manco spesa di Sua altezza serenissima 

La fogna o acquidoccio sulla contro scarpa che riceve acque dal piano di Sangal- 
lo e tutta rovinata e andrebbe restaurata con spesa scudi 30 

nella contro scarpa è strada coperta dirimpetto al baluardo dello strozzo vi si è 
fatta una grandissima rosa causata dalle inondazioni del fiume Mugnone in modo 
che ad un braccio è vicino al letto del fiume; questa gran rottura andrebbe pronta- 
mente rinserrata, a ciò il fiume non rompa e si faccia la strada per i fossi della fortez- 
za ritrovandosi il letto del fiume superiore alla strada coperta la detta rottura si potrà 
riempire con la ghiaia del letto del fiume e rialzare gli argini sarà spesa scudi 300 

il casino del baluardo detto imperiale è in stato di rovina e perché le terrecotte 
non vadino male andrebbe restaurato con le solite maestranze della fabbrica 

il fianco del baluardo di bellavista va rifatto il parapetto di mattone sopra mat- 
tone per essere rovinato 

sulla piazza del baluardo di bellavista vi è un casino un magazzino da polvere in 
stato di rovinare, andrebbe rifatto avanti che rovini a ciò il legname e terrecotte non 
badino male sarà spesa in disfarlo e rifarlo circa scudi 300. 

Tutta la cunetta della fortezza è ripiena e fra il baluardo dello strozzo è quello di 
bellavista non se ne vede vestire e la maggior parte delle acque si ritirano verso le mura 
della fortezza con danno notabile delle medesime e ben vero che non si puole vuotarle 
fintanto non comincia il tramontano, l’indugiare ai caldi dubiterei che non recassero 
danno agli abitanti e per fare la detta scavazione sarà spesa circa scudi 400. 

Bisogna ordinare prontamente che sia scavato e affondato il fosso, che piglia 
l’acqua della cunetta essendo ripieno, è più alto che non è la cunetta e questo va 
fatto ora, acciò detta fossa succi più che sia possibile l’acque che sono di intorno 
alle mura della fortezza e per potere a suo tempo fare la scavazione della cunetta 
et il terreno che si cava va aggrottato lungo la muraglia acciò l’acque non abbino 
occasione di fermarsi e questo è quanto parmi necessario farsi per buon servizio di 
Sua altezza serenissima scudi 1090. 

Antonio Ferri ingegnere delle fortezze fabbriche di Sua altezza serenissima” 


332 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


Bibliografia 


Architetti e ingegneri militari (2007), Architetti e ingegneri militari nel Granducato 
di Toscana. Formazione, professione, carriera, a cura di G. C. Romby, Firenze. 


Concorso nazionale d'idee (1967), Concorso nazionale d'idee per la sistemazione ed il 
restauro urbanistico e architettonico della Fortezza da Basso a Firenze, destinata 
a Centro Nazionale dell'Artigianato, Firenze. 

FinoccHI GHERSI, LORENZO (1997), Ferri, Antonio in Dizionario Biografico degli 
Italiani, vol. 47, Roma, ad vocem. 

Fortezza da Basso (1984), Fortezza da Basso a Firenze: non “contenitore”, ma parte 
viva della città, in “Italia Nostra”, 28.1984, 227, p. 11. 

La Fortezza di San Giovanni Battista (1979), La Fortezza di San Giovanni Battista 
in Firenze. Evoluzione e decadenza di un sito, Appunti di cultura materiale, Ca- 
talogo della mostra (Firenze, 1979), a cura del Comune di Firenze-Quartiere 
n. 1 centro Storico e Gruppo Archeologico Fiorentino, Firenze. 

GURRIERI, FRANcESCO & Mazzoni, PaoLo (1990) La Fortezza da Basso: un mo- 
numento per la città, Firenze. 

OREFICE, GABRIELLA (2007) Annibale Cecchi e altri “ingegneri delle Fortezze” nella 
Toscana del XVII secolo, in Architetti e ingegneri militari 2007, pp. 73-110. 
Supino, Icino BENVENUTO, Le porte del duomo di Pisa, in “L'arte”, 2.1899, pp. 

373-391. 

WARREN, OpoarDO, (1979), Raccolta di piante delle principali città e fortezze del 
Gran Ducato di Toscana, introduzione Francesco Gurrieri, nota biografica, Luigi 
Zangheri, Firenze. 


333 


Costantino Ceccanti 


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Fig. l: La fortezza di San Giovanni come appariva nella pianta di Stefano Bonsignori: si noti la disposi- 
zione stellare degli edifici e delle strade poste all’interno. 


334 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


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Fig. 2: Annibale Cecchi, progetto per rinforzare la cortina della fortezza da Basso, Archivio di Stato 
di Firenze, Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lorenesi, 1928, fasc. 44 (1646), carta non 


numerata. 


Fig. 3: La cortina muraria meridionale costruita da Annibale Cecchi nel punto in cui si innesta col 
bastione Cavaniglia. 


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335 


Costantino Ceccanti 


Fig. 4: La cortina muraria meridionale costruita da Annibale Cecchi. 


336 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


Fig. 5: La garitta costruita da Annibale Cecchi posta sull’angolo del bastione Bellavista. 


337 


Costantino Ceccanti 


Fig. 6: Annibale Cecchi, garitta del bastione dello Strozzo. 


338 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


& 


Fig. 7: Annibale Cecchi, pianta di una porzione dell’edificio porticato, Archivio di Stato di Firenze, 
Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lorenesi, 1928, fasc. 44 (1646), carta non numerata. 


Fig. 8: Veduta di Santa Maria del Fiore dal loggiato costruito da Annibale Cecchi sopra il maschio della 


fortezza di San Giovanni. 


339 


Costantino Ceccanti 


Prese 


Fig. 9: Il loggiato costruito da Annibale Cecchi sopra il masch 


340 


La fortezza di San Giovanni o da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


Fig. 11: Veduta della fine dell'Ottocento dell’edificio loggiato di Annibale Cecchi. 


Fig. 12: Schema in cui si sovrappone la pianta dell’edificio loggiato di Annibale Cecchi con quanto 
raffigurato nella pianta del Bonsignori. In basso, è raffigurato il raddoppio della cortina realizzato da 


Annibale Cecchi. 


341 


Costantino Ceccanti 


Fig. 13: Antonio Ferri, pianta schematica della fortezza da Basso, Archivio di Stato di Firenze, Scrittoio 
delle Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lorenesi, 1936, fasc. 1131, carta non numerata. 


| ? 


Fig. 14: Joseph De Boillore, pianta della fortezza da Basso, Archivio di Stato di Firenze, Scrittoio delle 
Fortezze e Fabbriche Lorenesi, 1955, fasc. 12, anno 1765, carte non numerate. 


342 


La fortezza di San Giovanni 0 da Basso a Firenze dal Seicento al Novecento 


Fig. 15: Joseph De Boillore, sezione del fossato della fortezza da Basso, Archivio di Stato di Firenze, 
Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche Lorenesi, 1955, fasc. 12, anno 1765, carte non numerate. 


343 


Spigolature biografiche sui Gricci e, infine, una data 


CARLOTTA LENZI IACOMELLI 


Sono trascorsi quasi quarant'anni dallo studio sul pittore Giuseppe Gricci di 
Roberta Roani!, che rappresentava una delle prime, pioneristiche ricerche sulla 
pittura del Settecento condotte dalla nuova generazione di storici dell’arte di 
scuola fiorentina sulla scia di quel primo mirabile saggio di Mina Gregori del 
1965°. 

Da allora, la fitta ombra su quel periodo artistico si è andata sempre più ri- 
schiarando e sono emerse le personalità di alcuni pittori a cui sono stati riservati 
studi monografici, ma ad essi è necessario aggiungere tutta una galassia di pittori 
operosi nel Granducato di Toscana nell’epoca che segnò il declino della stirpe 
dei Medici e l’ascesa della dinastia Lorena-Asburgo, ai quali in questi ultimi anni 
sono state dedicate altre pagine corredate dalle immagini di quelle che ad oggi 
conosciamo essere le loro prove: a volte esigue, limitate a pochi saggi di pennello, 
altre più cospicue, ma non ancora esaustive. 

Mentre le ricerche procedono e le conoscenze si ampliano, grazie anche alla 
maggiore visibilità di interni di palazzi finora preclusi allo sguardo, mi piace sof- 
fermarmi su quella famiglia, da cui avrebbero avuto origine apprezzati artigiani e 
artisti, giunta a Firenze : un’imprecisata località d'Oltralpe per porsi al servizio 
degli ultimi granduchi medicei: i Gricch, italianizzati presto in Gricci?. 

I documenti tacciono la loro provenienza e lasciano aperto il campo a varie 
ipotesi, ma ne attestano la presenza nella città del Giglio già all’inizio degli anni 
Ottanta del XVII secolo, con domicilio nel popolo di Santo Stefano al Ponte. 

Fra questa una parrocchia caratterizzata dalla cospicua presenza di forestieri, 
quasi tutti legati alla milizia di stanza a Palazzo Vecchio e agli Uffizi, e proprio 
alla professione militare si lega la figura di Stefano di Matteo Gricc, «Soldato alle 
bandiere di S.A.S. Cosimo III» , che il 9 gennaio 1678 nella chiesa di Santo Ste- 
fano si maritava con Caterinangiola di Marco Credo£. 

Dall’unione sarebbero nati il 9 marzo 1680 Maria Agata), il 27 luglio 1685 


L R. Roani Villani, Per Giuseppe Gricci, in “Antichità viva”, XXIII, 1984, 6, pp. 7-15. 

2 M. Gregori, 70 pitture e sculture del ‘600 e ‘700 fiorentino, catalogo della mostra (Firenze), 
Firenze, 1965. 

3. Nei documenti il nome si trova pure modificato in Griz o Cric o Gricc. 

4 Archivio Arcivescovile di Firenze (d’ora in poi AAF1), RPU 119.3, Matrimoni della Parrocchia 
di S. Stefano al Ponte, 1664-1724, alla data. 

©... Archivio dell'Opera del Duomo di Firenze (d’ora in poi AODFI), Registro dei battezzati, 284, 
1679-1680, c. 228. 


345 


Carlotta Lenzi Iacomelli 


Matteo Vittorio”, il 6 marzo 1695 Massimiliano Antonio” e il 7 febbraio 1702 
Gaspero Leopoldo*. Se quest'ultimo era stato tenuto a battesimo da tale «Bene- 
detto Ties», Matteo era stato accompagnato al Sacro Fonte da «Mattia di Adamo 
Chirmari» e Massimiliano da «Filippo di Michele Henfler», tutti dunque appar- 
tenenti alla folta schiera di stranieri che vivevano in quegli anni a Firenze?. 

Nella casa della figlia Maria Agata, maritata Ricci, sarebbe morto il 10 marzo 
1721 Stefano, citato ora quale «Trabante di Sua Altezza Reale», associato nell’Ar- 
ciconfraternita della Misericordia a cui era affiliato! 

Non interessati alla carriera paterna nelle armi, Gaspero Leopoldo di profes- 
sione era magnano, «con bottega in Boboli», così come suo fratello Matteo Vit- 
torio che, al servizio del granduca, nel settembre 1721 aveva restaurato «l’Oriuolo 
in su la Piazza de Pitti»!!. 

Gaspero Leopoldo il 6 luglio 1749 riscuoteva il proprio compenso a saldo «del 
conto della valuta e fattura, e accomodatura al suo luogo degli sportelli di ferro 
da vetrate per due Finestre della Tribuna della Reale Cappella di San Lorenzo». 
Nella stessa cappella aveva lavorato fra il 1741e il ‘42 alla sua ornamentazione 
al fianco di muratori, scalpellini, legnaioli, marmisti, intagliatori, doratori e ai 
pittori Vincenzo Meucci e Anton Filippo Giarrè, tutti impegnati al monumento 
che rappresentava l'emblema del mecenatismo artistico dei Medici, ormai giunti 
all’estinzione dinastica!!. 

Due volte si sarebbe sposato Matteo Vittorio: la prima con Alessandra di Sfor- 
zio Marzi del popolo di Santa Maria del Fiore il 19 novembre 1715! - e da lei 
avrebbe avuto una discendenza - e la seconda nella chiesa di San Donnino, alla 
periferia fiorentina, il 4 aprile 1729 con Maria Lucrezia Califfi!. 

Senza indugiare troppo a lungo su questioni genealogiche, trovo opportuno 
soffermarmi su una novità emersa dalle carte d’archivio: la data di nascita final- 
mente acquisita di quel Giuseppe Gricci che sarebbe divenuto uno dei più celebri 
maestri della lavorazione della porcellana europea, prima alla Real Fabbrica di 


6 AODFI, Registro dei battezzati, 65, 1685, c. 255, n. 1033. Costui era il secondo bambino 
battezzato col nome di Matteo, dopo un primo nato l’8 febbraio 1682: AODFI, Registro dei battezzati, 
63, 1681-1682, c. 296, n. 1047. 

7. AODFL, Registro dei battezzati, 70, 1694-1695, c. 114, n. 1005. 

8. AODFI, Registro dei battezzati, 73, 1701-1702, c. 216, n. 850. 

? Anche il primo Matteo, venuto alla luce nel 1682, aveva avuto come compare di 
battesimo tale «Matteo di Biagio Cirmer». 

!°AAFI, 119.13, Morti della Parrocchia di S. Stefano al Ponte, 1664-1737, alla data. 

!! Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASFI), Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche. Fabbriche 
medicee, 79, Listre della Fabbrica de’ Pitti, 1720-1723, cc.n.n., alla data. 

!'?ASFI, Depositeria generale. Parte antica, 450, Entrata e Uscita dell’Eredità della Serenissima 
Elettrice vedova Palatina, 1742-1750, c. 42. 

15. ASFI, Scrittoio delle Fortezze e Fabbriche. Fabbriche Medicee, 100, Spese per il Risarcimento et 
Ornato della Real Cappella di San Lorenzo, 1740-1748, cc. 25v, 39, 50v, 54v, 55v, 57v, 60. Si veda C. 
Lenzi Iacomelli, La decorazione pittorica della fabbrica medicea, in Arte e Politica. L'Elettrice Palatina e 
l’ultima stagione della committenza medicea in San Lorenzo, catalogo della mostra a cura di Monica Bietti 
(Firenze, Museo delle Cappelle Medicee 24 marzo 2014-6 gennaio 2015), Livorno, 2014, pp. 80-93. 

14 AAFI, RPU 119.3, cit., alla data. 

5 ASFI, Manoscritti, 584, Repertorio generale dei Matrimoni della città di Firenze, 1721-1770, 
alla data. 


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Spigolature biografiche sui Gricci e, infine, una data 


Capodimonte a Napoli, poi alla nuova Fabrica del Buen Retiro a Madrid, di cui 
sarà il primo direttore dall'anno della sua fondazione, il 1760. 

Giovanni Guglielmo Giuseppe era nato il 29 dicembre 1717 da Matteo Vit- 
torio Gricci e Alessandra Marzi nel popolo di Santo Stefano a Firenze e il giorno 
seguente era stato accompagnato al fonte battesimale con il granduca Cosimo 
III quale padrino e la figlia Anna Maria Luisa de Medici come madrina, i quali 
tuttavia non erano intervenuti di persona, delegando a un gentiluomo e a una 
gentildonna di corte il ruolo di compari!°. 

Se niente sappiamo della sua prima formazione, è lecito supporre che essa 
avvenisse nell’orbita degli scultori fiorentini che di lì a breve avrebbero collabora- 
to alla Manifattura di porcellane fondata nel 1737 dal marchese Carlo Ginori a 
Doccia, solo un anno prima del definitivo trasferimento del Gricci a Napoli, dove 
partecipò fin dagli esordi all'attività di produzione nella fabbrica di Capodimonte 
istituita nel 1739 da Carlo di Borbone. 

Il motivo del cambiamento di residenza sfugge, ma forse non è azzardato sup- 
porre un legame mai interrotto tra Napoli e la nonna Caterinangiola, il cui raro 
cognome Credo svela un'origine partenopea. 

Il periodo fiorentino di Giuseppe pare trascorso ai margini della comunità arti- 
stica locale, non comparendo il suo nome nei registri dell'Accademia del Disegno 
dove invece svolgerà una presenza attiva l’omonimo cugino pittore fin dall’am- 
missione in data 11 gennaio 1758!7. Costui era infatti figlio di Gaspero Leopoldo 
e di sua moglie Maria Anna di Niccolò Duschen'*, nato il 20 febbraio 1733 nella 
parrocchia di Sant'Apollinare e battezzato coi nomi di Giuseppe Gaetano Adolfo; 
ne era stato padrino bi stuccatore di origine ticinese Giovan Martino Portogalli!?. 
Sarebbe divenuto poi un pittore assai apprezzato dalla corte lorenese, formatosi 
nella bottega di Vincenzo Meucci di cui aveva sposato nel 1764 la figlia Maria 
Elisabetta, detta Isabella?°, e attivo al fianco del maestro in numerosi cantieri 
decorativi prima di iniziare una carriera autonoma che lo porterà nelle sale della 
villa di Poggio Imperiale e in alcuni dei maggiori palazzi e chiese di Firenze e di 
Pistoia, città con cui manterrà sempre un cib legame grazie anche al favore del 
vescovo Scipione de’ Ricci. 

I registri del Catasto lorenese ci informano che Giuseppe di Gaspero Leopol- 
do possedeva nel 1776 «una casa posta nel Popolo di San Lorenzo, ed in via delle 
Ruote ... stata assegnata nelle divise seguite con Vincenzo Gricci suo fratello» ?!, 
mentre quest’ultimo era a tale data proprietario di «una Casa in via dell’Anguil- 
lara corrispondente in via delle Burella»??. 

Fra la stessa casa nella parrocchia di Sant'Apollinare in cui il padre Gaspe- 


‘6 AODFI, Registro dei battezzati, 81, 1717, c. 244, n. 733. 

1 ASFI, Accademia del Disegno. Prima Compagnia di Pittori, 112, Entrata e Uscita segnato L, 
1739-1761, c. 163. 

18. Anche questo cognome presenta sui documenti molteplici varianti, dal più frequente Duschen 
a Tuschen e all’italianizzato Dusceni. 

!°AODFI, Registro dei battezzati, 89, 1732-1733, c. 125, n. 1045. 

20. AAFI, RPU 7105, Matrimoni della Parrocchia di S. Maria Maggiore, 1726-1811, alla data 25 
novembre 1764. Testimone delle nozze era stato il pittore Giuseppe di Lorenzo del Moro. 

2! ASFI, Catasto Lorenese, 10, Catasto descrittivo della città di Firenze, 1776, cc. 3771-3772. 

2 Ibidem, 12, 1776, cc- 5335-5336. 


347 


Carlotta Lenzi Iacomelli 


ro Leopoldo viveva dall'inizio degli anni Trenta assieme alla numerosa famiglia, 
composta, oltre che dai suoi cinque figli, Caterinangiola, Maria Alessandra, Giu- 
seppe, Vincenzo e Rosa, dai quattro figli di suo tratello Matteo Vittorio, for- 
se all’epoca già morto: Stefano Antonio, Gaetano, che già aveva abbracciato la 
carriera ecclesiastica, Ottavia e Maria Tecla, quest'ultima in procinto di entrare 
in monastero. Non era più in famiglia nel 1736 il loro fratello Giuseppe, che 
tuttavia sappiamo non essere ancora a Napoli, mentre vi compaiono altri giovani 
nipoti, figli orfani della sorella di Maria Anna, Maria Felice Duschen, e del mari- 
to Giuseppe Cibi: Caterina, Maria Rosa, Isabella e Giovan Pietro. 

La casa, situata al primo piano, doveva essere piuttosto ampia, dato che con 
loro viveva anche Maria Agata Gricci, sorella di Gaspero Leopoldo, ormai vedova 
di Anton Maria Ricci”. 

In quella stessa residenza Gaspero Leopoldo, registrato pure nel Cittadina- 
rio fiorentino?", dettava 11 gennaio 1770 al notaio Onorio del Chiaro le sue 
ultime volontà, chiedendo di essere sepolto “nella Tomba dei Confrati di Santa 
Barbera come uno dei detti fratelli”. L'essere questa nella chiesa della Santissima 
Annunziata la cappella della Compagnia dei tedeschi e dei fiamminghi fornisce 
un'ulteriore indicazione sull’origine dl... 

Nel testamento venivano ricordate le figlie Francesca Vittoria, monaca nel 
convento della Nunziatina, Colomba, clarissa cappuccina a Città di Castello, e 
Alessandra, sposata col «Medico Fisico» Gesualdo Vannucci. Si menzionava al- 
tresì la moglie Maria Anna, ma suoi eredi universali erano nominati i figli maschi 
Giuseppe, che risiedeva allora nel popolo di San Lorenzo”, a cui lasciava “tutte le 
Stampe, gessi e altro riguardanti e appartenenti alla sua professione di Pittore” e 
Vincenzo, al quale andavano “tutti gli arnesi della Bottega di Boboli, e quelli che 
ancora saranno ritrovati in casa per usi di Magnano”. Il testatore si ricordava an- 
che della nuora Isabella Meucci, destinandole una cospicua somma di denaro?°. 

In quella stessa abitazione sarebbe poi mancata nell’agosto dell’anno seguente 
la moglie Maria Anna”. 

Con la morte di Giuseppe sopraggiunta nel novembre 1804, a cui seguiva- 
no le solenni esequie nella basilica di San Lorenzo e il trasporto nel cimitero di 
Trespiano°*, giungeva a estinzione il ramo fiorentino del Gricci pittore, mentre 
l’intera vita dii cugino plasticatore si era svolta prima a Napoli, poi a 
Madrid. 

Subito avviato all’attività di scultore nella manifattura di Capodimonte creata 
da Carlo di Borbone, aveva conosciuto anche lui in ambiente di lavoro la moglie 


Maria Amadea Scheppers, figlia dell’arcanista belga Livio Ottavio, sposata il 10 


2. AAFI, Stati di Anime della parrocchia di Sant'Apollinare, 36.1, 1718-1755, cc.n.n. 

2 ASFI, Cittadinario, 6, Santa Croce. Gonfalone Leon Nero, c. 69. 

2. Qui nel 1778 aveva associato la figlia Isabella, che portava lo stesso nome della madre, morta 
in tenerissima età: ASFI, Camera di Commercio, 189, Registro di morti, 1778-1780, c. 104. 

26. ASFI, Notarile moderno, notaio O. del Chiaro, 25421, Testamenti, 1769-1774, cc. 3v.-7v. 

27. ASFI, Arte dei Medici e Speziali, 266, Registro di morti, 1763-1773, alla data 19 agosto 1771. 

28. ASFI, Camera di Commercio, 199, Registro di morti, 1803-1805, c. 272, alla data 2 novembre 
1804. Oltre al citato articolo di R. Roani (1984), per la figura di Giuseppe Gricci si veda C. Lenzi Ia- 
comelli, Vincenzo Meucci, Firenze, 2014. 


348 


Spigolature biografiche sui Gricci e, infine, una data 


agosto 17449, Di lì a tre anni, dopo essere divenuto capo modellatore con un lar- 
go seguito di allievi e di aiuti, sarebbe stato raggiunto a Napoli dal fratello Stefano 
Antonio, nato nel 17215°, che lo avrebbe poi seguito nel '59 a Madrid al seguito 
del Borbone salito sul trono di Spagna col nome di Carlo III, assumendo il ruolo 
di primo modellatore de “La China”, come era denominata la Real Fabrica del 
Buen Retiro. Nel 1766 divenne inoltre direttore del dipartimento delle sculture 
della Reale Accademia di Belle Arti di San Fernando?!. 

La morte coglierà Giuseppe Gricci nel 1771 a Madrid, ma nella manifattura 
continueranno a operare i suoi figli Carlo, nato nel 1747, e Filippo, di sette anni 
più giovane, che transiteranno la produzione della porcellana spagnola verso il 
gusto neoclassico”. 


2 Si vedano A. Carola Perrotti, Giuseppe Gricci e la produzione plastica di Capodimonte, in Le por- 
cellane dei Borbone di Napoli. Capodimonte e Real Fabbrica ferdinandea 1743-1806, catalogo della mostra 
a cura di A. Carola Perrotti (Napoli 19 dicembre 1986 -30 aprile 1987), Napoli, 1986, pp. 149-232. 

3 AODFI, Registro dei battezzati, 83, 1721, c. 276, n. 1296, alla data 30 luglio. 

3! L. Ferrarino, Dizionario degli artisti italiani in Spagna (secoli XIT-XIX), Madrid, 1977, pp. 137-139. 

3. Sulla personalità artistica del Gricci e dei suoi eredi si rimanda alla voce compilata da S.A. 
Meyer in “Dizionario Biografico degli italiani”, 59, 2003, pp. 352-353, con la completa bibliografia 
precedente. 


349 


Villa Bardelli Capoquadri, Monteboro, Empoli, 


luogo natio di Andrea Corsali, navigatore cinquecentesco 


FRANCESCA RUTA 


Qualche anno fa questa villa ha attirato la mia attenzione, un po’ perché pen- 
savo, ingenuamente, che Monteboro fosse conosciuto solo come luogo calcistico, 
un po’ per la denominazione “Capoquadri” che mi riportava alla villa Capoqua- 
dri sita in La Scala. 

Da Brusciana sale, dunque, l’omonima via di Monteboro che, attraversando 
le colline, riporta a Empoli. Poco dopo aver iniziato la salita, troviamo due pro- 
prietà distinte, a sinistra Villa Comparini, a destra Villa Bardelli Capoquadri, 
entrambe in posizione rialzata rispetto alla strada. 

Villa Bardelli Capoquadri ha origini antichissime: non si hanno notizie della 
sua fondazione, compare in un documento di fine XV secolo come proprietà 
della famiglia Corsali. Agli inizi del XVI secolo viene segnalata come parte delle 
proprietà di Andrea di Bastiano Corsali che, al 1534, risulta possedere “un podere 
con chasa da oste e lavoratore posto nel chomune di Monte rappoli, popolo di 
S. Bart.o a Busciana, luogho detto Monte Boro con più pezzi di terra lavorativa”. 
Questa piccola colonica, che aveva il prospetto principale rivolto verso un rio il 
cui letto coincideva pressapoco con l’attuale via comunale, costituisce il nucleo 
originario della villa. Originari di Monteboro, i Corsali rimarranno legati a que- 
sta piccola residenza di campagna per tre secoli. 

In questa casa, probabilmente il 29 giugno 1487, nacque il famoso navigatore 
Andrea Corsali, il nome di maggior spicco della famiglia ma, spesso, dimenticato 
proprio dai suoi conterranei odierni. Fu astronomo, cosmografo e, appunto, na- 
vigatore singolare per i suoi tempi: non affrontò le traversie dei mari per affari o 
missioni politiche, non fu uno dei tanti mercanti e avventurieri, né uomo d’armi, 
ma, fornito di un grosso armamentario di strumenti per rilevazioni astronomiche 
e geografiche, eruditissimo conoscitore di scienze naturali, acuto osservatore dei 
territori e dei costumi, riportò notizie originali, accurate indagini e scoperte non 
indifferenti. Dette per primo una descrizione astronomica della Croce del Sud e 
delle cosidette nubi magellaniche, attribuite poi erroneamente al Pigafetta che le 
notò solo quattro anni più tardi, fece rilevare l'errore di Tolomeo sulla longitudi- 
ne fra la costa Africana e quella dell’India, per primo fece notare l’esistenza della 
Nuova Guinea, distinse Sumatra da Ceylon e dette un’esatta descrizione degli 
usi e costumi del popolo abissino. Il noto storico Lefevre, che su di lui tanto la 
scritto (e la cui madre curiosamente era una Bellini empolese), riferisce che ben 
tre fonti indipendenti, manoscritti coevi, testimoniano come fosse l’apportatore 
e il divulgatore dei caratteri di stampa in Africa. Suoi non disinteressati mecenati 
furono i Medici (compreso Leone X che gli affidò una missiva per Re David 
d’Etiopia,il mitico Prete Gianni, meglio conosciuto come Lebna Dengel, della 
dinastia Amhara, re d'Etiopia dal 1508 al 1540) e infatti a loro sono indirizzate 


351 


Francesca Ruta 


le lunghissime relazioni che del Corsali ci rimangono, descrivendo due fra i suoi 
più notevoli viaggi; le due lettere furono spedite dall'India in patria e subito 
pubblicate nel 1516 e 18 in edizioni divulgative, ora di difficile reperimento, e 
ristampate poi dal Ramusio nella monumentale raccolta “Navigationi et viaggi” 
nel 1550. La prima lettera è diretta a Giuliano de’ Medici, figlio del Magnifico e 
fratello di Leone X, e vi si riferisce sul lungo viaggio compiuto da Lisbona al se- 
guito di un'ambasciata portoghese, della cireumnavigazione dell’Africa, della tra- 
versata dell'Oceano indiano fino a porti e terre dell’India. La seconda relazione è 
indirizzata a Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino e vi si racconta anche dei territori 
sul Mar Rosso e sul Golfo Persico in un viaggio perigliosissimo e drammatico. 
Scrive di lui anche il navigatore Giovanni da Empoli, nella lettera scritta il primo 
gennaio 1517 dall’India al vescovo di Pistoia Antonio Pucci, che il Corsali era 
“uomo certamente di ogni fede degno, per essere litterato, e che ha cognizione 
assai, quanto fa di bisogno a questi avvisi, e della astrologia e della cosmografia; el 
quale assai tempo ha consumato utilmente a ricercare questi mari e terre et insule 
di qua, e datone di tutto perfettamente buon conto: talmente che io tengo per 
cosa certa, che altro meglio di lui non possa scrivere, per le molte buone qualità 
che sono in lui”.(G. Da Empoli, in Arch. Stor. Ital., App, 1846) 

Il suo nome e il suo stemma furono incisi in S.Croce nel 1898, insieme a 
quello di altri navigatori toscani. 

L'ultimo della Caiclà dei Corsali, Andrea, omonimo dell’esploratore, morì 
nel 1605 senza discendenti diretti. Le proprietà passarono, quindi, ai cugini Bar- 
delli. Questi, originari di Siena, vivevano in un palazzo nel centro di Firenze ma 
amavano soggiornare spesso in campagna. Per soddisfare le esigenze di questa 
ricca famiglia fiorentina, dunque, dalla seconda metà del Seicento la proprietà 
di Monteboro fu ristrutturata, ampliata e trasformata in villa. Fu ampliata nella 
parte posteriore aggiungendo due ali laterali, la cui asimmetria è forse indizio di 
lavori iniziati in tempi diversi; venne, inoltre, spostato il fronte principale verso 
Brusciana. Al piano nobile fu aperto un ampio portone d’ingresso, incorniciato 
da un bugnato a conci lisci. La facciata è resa ancor più monumentale dalla pre- 
senza di un ampio terrazzo, che permette di godere del panorama lungo l’Elsa, a 
cui si accede da due scalinate frontali simmetriche. 

Accanto ad una delle ali laterali della facciata posteriore si trova la cappella, 
edificata probabilmente anch'essa a metà Seicento e dedicata a San Nicola dal 
nome del suo fondatore, Niccolò Bardelli. Oggi vi sono tumulate le spoglie degli 
ultimi proprietari della villa, i Capoquadri. 

All’estinzione della famiglia Bardelli nel 1783 e dopo un difficile contenzioso 
tra gli innumerevoli eredi, la proprietà di Monteboro passò ai Serrati, ad eccezio- 
ne Hdi di famiglia che da acquistato da Giovan Battista Clemente Nelli, 
matematico, architetto, archivista e antiquario, ma di questa mole di documenti 
si sono perse le tracce. Scrive a tal proposito donna Giulia Grazi Bracci, erede 
recentemente scomparsa: 


“I fidecommessari (i Bardelli, nda), di nobile famiglia senese naturalizzata fioren- 
tina, godettero dei beni Corsali fino al 1783, anno della loro estinzione con Niccolò 
Bardelli, morto intestato e senza discendenza diretta. Fra i numerosi lontani parenti, 
tutti di egual grado, si scatenò un annoso, ponderoso, dispendiosissimo contenzioso 
legale per la spartizione della ghiotta eredità, costituita dal fidecommisso Corsali e dal 


352 


Villa Bardelli Capoquadri, Monteboro, Empoli, 
luogo natio di Andrea Corsali, navigatore cinquecentesco 


patrimonio strettamente Bardelli. Infine la villa di Monteboro passò a certi Serrati 
(che, non navigando in buone acque, la rivendettero rapidamente ai Setticelli), salvo 
però l'archivio e le carte contenutevi, comprendenti con tutta probabilità anche le ve- 
tuste memorie dei Corsali, richieste e ottenute con particolare interesse e accanimento 
da un altro coerede, [...]. Trattavasi infatti di Giovan Battista Clemente Nelli, quel 
famoso matematico-architetto, archivista e raccoglitore antiquario con importanti in- 
carichi granducali, che fu erede anche spirituale, nonché esecutore testamentario, di 
Vincenzo Viviani, discepolo prediletto di Galileo, nella prosecuzione delle onorificenze 
e custodia delle memorie del grande fisico. Il fatto che i documenti Corsali presumi- 
bilmente finissero in mani così specialistiche e competenti, in tempi non tanto remoti, 
lascerebbe uno spiraglio di speranza che da qualche parte, in archivi privati 0 non, 
riuniti e catalogati, potrebbero ancora ritrovarsi; G.Battista Nelli fu infatti un accu- 
rato raccoglitore e collezionista di manoscritti, della cui sorte e conservazione futura 
si curò anche in sede testamentaria, disponendone un'eventuale attribuzione pubblica 
in caso di disinteresse dei discendenti. Purtroppo le sue intenzioni furono per qualche 
verso disattese e la sua raccolta depauperata e in parte dispersa, pur conservandosene il 
corpo principale presso la Biblioteca Nazionale di Firenze come “Fondo Nelli”. (http:// 
www.carnesecchi. eu/corsali. htm)” 


Nell’Ottocento la villa fu acquisita da Virginia Del Vivo e dal marito Guido 
Capoquadri, magistrato originario di Ponte a Elsa. I coniugi effettuarono vari re- 
stauri e rimodernarono alcuni ambienti, anche attraverso hi decorazione dei sof- 
fitti lignei. Alla morte del magistrato, nel 1896, la villa fu ereditata dai figli Tito 
e Giulia, poi dalle nipoti Giuseppina Capoquadri, sposa del marchese Gustavo 
Bartolini-Salimbeni, ed Ettorina Filippi, figlia di Giulia Capoquadri, sposata al 
dottor Gaspero Silvio Grazi, erede di una ricca famiglia che aveva numerose pro- 
prietà nei territori fiorentino, senese e lucchese. I discendenti di queste famiglie 
sono tuttora i proprietari della tenuta di Monteboro. 

La dott.ssa Giulia Grazi Bracci, scomparsa nel 2019, ha vissuto nell’ala della 
villa di proprietà Grazi ed è stata una delle più proficue ricercatrici delle proprie 
origini, analizzando la biblioteca della Villa di Monteboro e le filze dei documen- 
ti È famiglia, scrivendo anche di quell’Andrea Corsali, suo avo, incontrato in 
queste ricerche per ricreare la mappa delle famiglie che avevano vissuto a Monte- 
boro. A lei un prezioso grazie. 


353 


Francesca Ruta 


Bibliografia e sitografia 


Corsi G., Dizionario bibliografico degli italiani, Vol. 29 (1983) in https://www. 
treccani.it/enciclopedia/andrea-corsali_%28Dizionario-Biografico%29/ (Ul- 
tima consultazione 25/10/2022). 


Da EmpoLi G., Lett. dalla India ad A. Pucci, vescovo di Pistoia, in Arch. Stor. Ital., 
App., III, Firenze 1846, pp. 89-91 


Grazi Bracci G., http://www.carnesecchi.eu/corsali.htm (Ultima consultazione 
25/10/2022). 


ProcHÙ L., “Donna Giulia”, Il Segno Di Empoli, n° 109/2019, pp. 4-5. 
Ramusio G.B., Delle navigationi et viaggi, I, Venezia 1563, pp. 176-189. 


SiemonI W.E, Frati, M., a cura di, “Empoli. Una città e il suo territorio. Le strade, 
i palazzi, le chiese, i musei, le ville, il paesaggio”, 1997, Empoli, ed. dell’Acero, 
pp. 88-90. 


354 


Villa Bardelli Capoquadri, Monteboro, Empoli, 
luogo natio di Andrea Corsali, navigatore cinquecentesco 


Fig. 1: Facciata della Villa Bardelli-Capoquadri 


355 


Francesca Ruta 


Fig. 2: Ritratto di Andrea Corsali 


356 


In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai 
e Costantino Nivola a Zoagli 


CLAUDIA MARIA BUCELLI 


Frequenti occasioni professionali di Pietro Porcinai nei pressi di Rapallo datano 
alla fine degli anni °30 del Novecento e si incrementano attorno agli anni ’50-°60, 
documentando lavori per giardini di ville private e lussuosi hotel, fra cui l’Excel- 
sior di Rapallo, oltre che numerose amichevoli relazioni, compresa quella con il 
Commendatore Antonio Bini, proprietario, nella stessa celebre località balneare, 
del Grand Hotel Bristol. Attestazioni di amicizia, biglietti di auguri e modalità 
amicali con il Commendatore si alternarono nell’arco di oltre trent'anni a incon- 
tri, sopralluoghi e proposte per lavori di ammodernamento del prestigioso Bristol, 
incluso un progetto di giardino e piscina realizzato fra il 1954 e il 1962. Gli ultimi 
contatti risalgono ai primi anni ’80. 

All’interesse e alle molte idee sottoposte, spesso a seguito di incontri e viaggi in 
affari e amicizia, non sempre pervenne, come auspicato, una ulteriore concretiz- 
zazione di opportunità lavorative. E solo a distanza di anni dal primo intervento, 
quando ormai nel 1980 il Grand Hotel Bristol era divenuta quella Società Bristol 
S.p.A. gestita dai successori del Commendatore - pur sempre vivente e amicalmente 
presente - Porcinai venne nuovamente contattato per un incarico professionale. 
La richiesta era quella di realizzare, in sinergia con la ditta Progeco di Genova 
che aveva in appalto le opere ingegneristiche, impiantistiche e architettoniche, un 
programma di lavori congiunti di ristrutturazione riguardanti, per il suo specifico 
apporto professionale, gli spazi esterni del prestigioso albergo. Dopo vari sopral- 
luoghi si concretizzò una riprogettazione dell'intera superficie a giardino, con la 
definizione dei percorsi e la pavimentazione del piazzale di accesso e dei parcheggi, 
nonché la realizzazione di un campo da tennis e di una sauna e piscina con a fianco 
piscinetta per bambini nei pressi dell’area ristorante per il quale era inoltre proposto 
l’affiancamento di una veranda. In aggiunta era stata anche ventilata la possibilità 
di realizzare, con presentazione del Rn progetto, un giardino pensile e solarium 
sul tetto dell’albergo. 

Subito Porcinai si era avvalso della collaborazione del fidato Orlando Rafanelli, 
chiedendogli un preventivo per lo spostamento e preliminare predisposizione di sei 
grossi esemplari di palma esistenti in situ — risultano al 1982 varie fatture emesse 
dalla ditta Rafanelli per il lavoro eseguito — di cui due esemplari non sopravvissu- 
ti. Le proposte presentate, per quanto giudicate positivamente, incontrarono dif- 
ficoltà di attuazione soprattutto per lungaggini burocratiche e lentezze dovute a 
incomprensioni e problematicità di coordinamento fra i diversi attori coinvolti — la 
cospicua documentazione certifica fra l’altro numerosi incontri fra committenza, 
progettisti e ditte interpellate, presenti a più riprese nel 1979, 1980 e 1981 l'Ing. 
Viziano della Progeco e lo stesso Porcinai — e vennero di conseguenza notevolmente 
ridimensionate. 


357 


Claudia Maria Bucelli 


Proprio a questo periodo risale un abboccamento con l’amministrazione del 
Comune di Zoagli. Lavorando per la piscina e il tennis dell'Hotel Bristol, la cui 
collocazione e impianto di depurazione, subordinate a rilascio di concessione, im- 
plicavano la municipalità di Zoagli, Porcinai — come da lettera del 16.6.80 all’In- 
gegner Barbieri di Milano per la Bristol S.p.A. di Rapallo - si trovò il 5 giugno 
1981 in sopralluogo “con il Sindaco di Zoagli e l'assessore ai LL.PP. per esaminare 
una soluzione estetica per la piazza”. Nella stessa missiva il paesaggista aggiungeva: 
“appena riceverò dal Comune le foto aeree preparerò un progetto di massima che, 
però, avrei già discusso col sindaco e con l’assessore ai LL.PP”. 

Il primo progetto legato al sito presentato dallo Studio Porcinai - al quale il suc- 
cessivo e unico realizzato, poco lontano, è indubbiamente obbligato per ispirazione 
pur negli orientamenti compositivi più architettonicamente strutturati — riguarda- 
va dunque la piazza del comune della cittadina di Zoagli. Già dalla fine del 1981 
veniva presentato all’amministrazione comunale il progetto di massima della piazza 
municipale prospiciente la spiaggia — un ampio spazio pubblico a ridosso della 
marina che si espande a salire dopo il ponte della ferrovia incuneandosi nel paese - 
proponendola a isola pedonale urbana. 

Successivamente, nel 1983, partirà dallo Studio Porcinai una concretizzazione 
grafica di progetto per un’area nei pressi, il sagrato della chiesa di Sant Ambrogio 
a Zoagli. Questo secondo progetto nacque dal contatto con Angelo Sacco - pro- 
prietario della omonima ditta edile e allo stesso tempo vicesindaco della cittadina 
ligure — che avvenne proprio a Zoagli nei coevi frangenti temporali, decretando 
la presentazione, due anni dopo, del successivo nuovo progetto. E a seguire, poi, 
l'attuazione di quella che sarà l’opera infine realizzata, non più la piazza comunale 
ma il sagrato della vicina chiesa di S. Ambrogio. 

Ai tempi della presentazione del primo progetto - quello per la piazza del co- 
mune di Zoagli - Angelo Sacco era impegnato, sempre a Zoagli, in altri cantieri di 
Porcinai, fra cui il giardino progettato per la villa dell’Ingegner Marino, in fase at- 
tuativa proprio negli anni 1981-82. E fu proprio quella l'occasione che gli permise 
di incrociare nuovamente Pietro Porcinai di persona. Si trattava di un reincontro, 
e dopo tanti anni. Porcinai e Sacco si erano infatti già visti quasi trent'anni prima, 
in quei dinamici anni ’50 che avevano ovunque testimoniato rinnovamento e ri- 
lancio, e che avevano coinvolto Porcinai più volte sulla costa ligure per vari progetti 
e cantieri fra cui, per giardino e piscina, proprio il Bristol di Zoagli dove Sacco, 
giovanissimo, lavorava, essendo stato anche impiegato - come racconterà poi ami- 
chevolmente a Gianni Medoro - come aiuto-operaio alla posa in opera del nuovo 
raffinato giardino. 

Al naufragare dunque del progetto per la piazza comunale - che l’amministrazio- 
ne di Zoagli evidentemente non volle o non poté sostenere — Sacco, ormai avviato 
professionista e attivo in quelle zone anche su cantieri coevi dello stesso Porcinai, 
forte della carica di vicesindaco e ben consapevole della preziosa opportunità, pro- 
porrà a Porcinai di spostare le proprie attenzioni ed energie ad un luogo nei pressi, 
a lui caro e all’epoca coperto di formelle in cemento. Gli sottoporrà dunque la 
pavimentazione del sagrato della Chiesa di Sant'Ambrogio della Costa, offrendosi 
inoltre di presentare la proposta di progetto al vaglio del consiglio comunale. Si 
trattava di uno spazio semplice e misurato, circa 400 mq davanti ad un piccolo 
edificio parrocchiale di culto, ad appena qualche chilometro a nord-ovest dalla cit- 
tadina turistica di Zoagli, arroccato sulle colline a ridosso del litorale e associato 


358 


In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


ad una splendida vista panoramica sul mare dall’ampia area belvedere a fianco del 
sagrato affacciato, da quasi 200 metri di altezza, sul golfo di Tigullio. 

In previsione della prima prospettata realizzazione, mai concretizzatasi, Porcinai 
aveva scritto ad un amico di vecchia data, il famoso scultore Costantino Nivola, 
offrendogli di collaborare al progetto e poco dopo ringraziandolo “per l’idea e la 
proposta per Zoagli”, pervenuta in studio a fine settembre 1981. 

L'inizio della corrispondenza, testimonianza dell’affezionata amicizia e reciproca 
stima che legarono Pietro Porcinai e Costantino Nivola risaliva già agli anni ’60. 
Del 1964 è il primo contatto epistolare documentato, l’ultimo del 1984, e del 
dicembre 1980 è una affettuosa esortazione di Nivola, che, rientrato negli Stati 
Uniti dopo un soggiorno nella sua tenuta in Toscana, scriveva all'amico in risposta 
ad alcune preoccupate esternazioni circa la salute, aggiungendo: “spero che il tuo 
cuore-d’oro si stia comportando come si deve. Sempre nel futuro, come le colline e 
gli olivi voglio ritrovare te in Toscana altrimenti mi rifiuto di fare il viaggio”. 

Quelli Fa Pietro Porcinai e Costantino Nivola furono dunque incontri amicali e 
professionali che nel volgere di un ampio lasso temporale coinvolsero i due profes- 
sionisti in un dialogo entusiastico di progetti e cooperazione. Una affinità di fervori 
e intenti per due personalità vigorose, accomunate dalla passione per il proprio 
lavoro. Ancora dopo anni, nel gennaio 1980, Nivola scriveva a Porcinai righe den- 
se di vitalità, umanità e indefessa ricerca artistica nell'occasione di un imminente 
ritorno in Italia nella tenuta di Dicomano dove “ho anche in mente, dopo il sog- 
giorno in Sardegna, quando la stagione lo permetterà (...) di campeggiare in una 
delle case. Magari portandomi provvista di pane e formaggio, un secchio di calce 
viva e un barattolo di ultramarino blu. Imbiancare gli interni con questo, unirli con 
una fascia di quel colore, e chiedermi di che cosa d’altro ho veramente bisogno. In 
altre parole viverci per qualche tempo per capire. Durante quel periodo, prima o 
durante quel periodo di prova, mi farò vivo con te”, aggiungendo poco dopo “ho 
dato il tuo nome e indirizzo a un amico che è preside del reparto di architettura alla 
University of California in Berkeley Ca. In quella università in questi ultimi anni 
ho insegnato, e trascorso piacevolmente i tre mesi invernali in quel clima delizioso. 
Ho pensato che forse ti interesserebbe venire anche tu come visiting professor in 
quella stagione. Il reparto di architettura del paesaggio sarebbe fortunato di averti”. 
Seguirà una delle tante riunioni degli amici a Dicomano il 19 luglio 1980 e poi un 
contatto per Nivola con la Syracuse University di Firenze offerto da Porcinai. Se 
numerose erano già state in passato, ancora si condensavano dunque le opportunità 
di scambio e collaborazione in quello che era un terreno di incontro fra le due pro- 
fessioni, un ambito che nella comune sensibilità e interesse affiancava ispirazione e 
progetto, paesaggio e scultura, e che vedeva i due amici, già settantenni, meraviglio- 
samente vitali e attivi nella reciproca sollecitudine e fattiva collaborazione. 

Risaliva ad una lettera di ben 15 anni prima, datata 28 maggio 1965, una ester- 
nazione di Porcinai che rimarcava questo peculiare legame: “sono fissato all’idea 
che i buoni paesaggi debbono essere opera non soltanto di ingegneri e architetti 
ma anche di tutti gli artisti; e quindi anche gli scultori. Ed è per questo che con la 
mia lettera, sia pure sommaria, ti avevo accennato ad un lavoro da attuarsi possi- 
bilmente in comune (...) realizzare, grazie alla pala meccanica, delle composizioni 
plastiche da abitare e vedere dalla finestra delle grandi costruzioni. Grazie ai nuovi 
mezzi meccanici queste opere avrebbero il vantaggio di costare pochissimo e di 
essere di grande effetto”. 


359 


Claudia Maria Bucelli 


Alcuni giorni prima Nivola si era dichiarato felice di collaborare con Porcinai 
ad un “progetto che includesse la scultura e il landscape”. Ammirando l’inesauribile 
energia del paesaggista toscano scriveva inoltre: “La faccenda è che in questo paese 
(come tu saprai) la specializzazione nelle attività è quasi generale. Come scultore a 
me aprono lavori di scultura: anche se questi li devo fare tenendo conto del disegno 
architettonico e del trattamento del paesaggio. E vero che in parte sono stato io 
stesso a voler limitare il mio intervento solo alla parte scultura, questo l’ho fatto un 
po per pigrizia, ma anche perché conosco le mie limitazioni nel campo organizza- 
tivo. Se mi permetti un consiglio, penso che la miglior cosa da fare: se vuoi stabilire 
dei rapporti di lavoro qui e di venire per visita oppure per insegnare in qualche 
università, o per fare delle conferenze. Questo non mi sembra difficile. Tanto io 
come gli amici qui e in Italia, Ernesto Ragno e Parentini, possiamo molto aiutarti. 
In questo modo avresti ampie occasioni di incontrarti personalmente con quelle 
persone (architetti, ecc.) che sono responsabili per il disegno dei molti lavori che 
si stanno eseguendo in America. Sono certo che con la tua reputazione, esperienza 
e Charming personality la visita, oltre che a costituire una esperienza interessante, 
non sarebbe inutile”. 

Si trattava quindi di un invito di collaborazione che abbracciava evidentemente 
un progetto più ampio. Un progetto di cui Porcinai aveva già fatto partecipe l’a- 
mico all’inizio dello stesso anno, cioè di “estendere, senza abbandonare Firenze, 
l’attività oltre frontiera e oltre mare”, proponendo a Nivola di potersi appoggiare 
a lui per il lavoro di Landscape Architect negli Stati Uniti. Nivola gli aveva infat- 
ti confidato pochi mesi prima la sua soddisfacente situazione lavorativa: “Qui in 
America mi sono comodamente ambientato. Posso scegliere tra le molte offerte di 
lavori quelli che più mi interessano, ogni tanto divento anche ricco per qualche 
tempo. In quei periodi naturalmente, divento pigrissimo, se faccio sculture queste 
sono piccolissime, toccate appena con la punta delle dita”. In amare esternazioni la 
situazione in Italia era riportata con sguardo alquanto disincantato da Porcinai che 
rispondeva: “Beato te che puoi scegliere! Come saprai, in Italia anche i grandi non 
possono più permettersi questo lusso perché la situazione economica è talmente 
preoccupante che gli architetti più grandi - proprio perché sono grandi — al pari 
dei dinosauri saranno i primi a scomparire”. Da qui dunque la proposta: “saresti 
disposto ad appoggiarmi per un'attività negli U.S.A.? Dove e nel caso ti manchi la 
collaborazione di un Landscape Architect, potrei intervenire io, per lavori modesti; 
preparerei il lavoro in Italia in base a fotografie, piani e disegni, mentre per i lavori 
più importanti potrei venire fin costà”. Porcinai chiedeva inoltre all'amico Costan- 
tino di contattare Umberto Innocenti, che risiedeva non lontano da lui e del quale, 
sapendolo prossimo a ritirarsi, pensava di rilevare lo studio di Landscape Architec- 
ture e su questa base iniziare una collaborazione in loco con Nivola. 

Le cose ebbero comunque un seguito, anche se il progetto di studio professio- 
nale negli Stati Uniti non riuscì a decollare per Pietro Porcinai. Si mantenne infatti 
l'amicizia e i periodici aggiornamenti sulle reciproche attività, non mancando pro- 
poste di lavoro in Italia per Nivola ed un concreto invito come Visiting Professor 
negli Stati Uniti per Porcinai. In quegli anni Nivola viveva prevalentemente a New 
York. Presentatasi l'occasione di viaggiare oltreoceano, fino in Canada, avendo il 
paesaggista ricevuto nel 1965 un invito e biglietto aereo dal comune di Edmon- 
ton, Alberta, “per problemi inerenti il Landscaping di quei paesaggi, ivi compre- 
si Landscapes notturni” e nell'occasione organizzandosi per il coevo progetto che 


360 


In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


stava curando poco lontano per Peter Batoni - e per il quale Porcinai anticipava a 
Nivola di volerlo proporre al cliente per collaborazione artistica - sorse spontanea 
l’idea di un incontro dei due amici a New York nella prima quindicina di giugno 
di quell’anno. 

Nel ringraziare successivamente l’affezionato Nivola per la “cordiale amichevo- 
le accoglienza e (...) ospitalità” ricevuta, Porcinai non mancava di accennare alla 
possibilità di ricambiare, invitandolo con la consorte a soggiornare a Fiesole presso 
la foresteria di Villa Rondinelli. Il ricordo ritornava a quelle che dovettero essere 
due giornate di intense visite e presentazioni a personalità di spicco che nella New 
York coeva l’amico, scultore famoso e acclamato, gli aveva organizzato. Aggiungeva 
infatti: “ti prego volermi scusare presso i tuoi per averti tolto due giorni a loro. 
Sono molto lieto di questa occasione che mi è stata data di incontrarti nell’ambito 
americano che ti sei saputo creare”. 

La stima e la gratitudine sfociarono anche successivamente in concrete proposte. 
Nel 1966 Porcinai segnalava Costantino Nivola alla Esso per la realizzazione di una 
“composizione scultorea nel paesaggio”, specificando come “si tratterebbe di armo- 
nizzare 6 grandi serbatoi cilindrici di 70 metri di altezza e del diametro di 70 metri 
(...) per un impianto di gassificazione di metano liquefatto di provenienza africana. 
L'impianto dovrebbe sorgere in mezzo al mare e sembrare (su mia proposta) come 
una grande scultura sull’acqua”. L'anno successivo gli comunicava di volere inclu- 
dere nel suo volume “Giardini d’occidente e giardini d'oriente” di prossima uscita 
anche una sua opera, accanto a realizzazioni di Burle Marx e Noguchi, proponen- 
do di “pubblicare un tuo giardino (quello di casa tua a Long Island oppure la tua 
piazza a New York)” e chiedendo contestualmente l’invio di alcune fotografie. La 
scelta cadde in seguito sulla Stephen Wise Recreation Area, realizzata da Nivola nel 
1962 in collaborazione con l’architetto Richard Stein. La didascalia in calce riporta 
“giardino pubblico per ragazzi. New York USA”, e nel testo Porcinai citava l’amico 
come “l’italiano Costantino Nivola, scultore e artista noto e apprezzato in tutto il 
mondo. Col giapponese Noguchi è uno dei migliori rappresentanti dell’architet- 
tura del giardino nord-americano. Nella foto, un giardino “scolpito”, caratteristico 
esempio di moderna e fantastica stilizzazione. Questo è un giardino senza età, che 
diverte bambini e adulti, come ogni problema d’arte felicemente risolto”. 

È interessante notare che gli stessi due nominativi, Costantino Nivola e Isamu 
Noguchi, verranno segnalati l’anno successivo da Pietro Porcinai - già membro 
della commissione internazionale istituita dall'UNESCO per valutare il progetto 
del trasferimento dei templi di Abu Simbel in Egitto al fine di preservarli, per la 
programmata costruzione della diga di Assuan — allo studio di ingegneri e architetti 
svedesi VBB - Vattenbyggnadsbyran, affidatario del progetto. Nel 1963 dunque, so- 
spendendo la modalità amichevole e accostandosi a una terminologia più ufficiale, 
adatta al contesto esteso a plurime collaborazioni, Porcinai scriveva a Nivola “lho 
fatto soprattutto per la stima che ho delle Sue capacità e per l'ampiezza delle Sue 
vedute”. La calorosa risposta dello scultore riportava i più sentiti ringraziamenti e 
assicurava la propria disponibilità, permanendo in seguito il grato ricordo per l’en- 
tusiasmante esperienza egiziana più volte rievocata. Nivola tenne costantemente 
informato Porcinai degli sviluppi e delle proposte presentate, che si concretizzeran- 
no in tre distinti progetti sottoposti alla commissione UNESCO, di cui uno, rea- 
lizzato, vedrà i lavori ultimati nel 1968. Altre ipotesi di collaborazione, presentate 
da Porcinai a Nivola l’anno successivo per la cappella e la villa degli Zegna a Trivero 


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Claudia Maria Bucelli 


e per Villa Doney a San Michele di Pagana non sfoceranno invece in qualcosa di 
concreto (Mereu, 2000: 99-105). 

Nel 1974 Porcinai chiedeva ancora la collaborazione di Costantino Nivola per 
il lavoro in un complesso residenziale a Montecarlo il Complex Immobilier Des 
Spélugues, commissionato dalla Neue Heimat di Amburgo per l’Hétel Loews di 
New York e di proprietà dell’Immobiliare Societé Hotelière Monegasque, nel quale 
era coinvolto per la parte paesaggistica, affiancando gli architetti Jean Ginsberg, 
Herbert Weisskamp e Jean e Jose Notari, e dove era richiesta una scultura per la 
terrazza a giardino prospiciente la sala congressi. La proposta di Nivola sarà quella 
di più sculture in alluminio policromo, “non meno di 7, meglio 9, e magari di più”, 
tutte alte circa due metri e disposte a forma di “simposium o danza cerimoniosa 
terapeutica” (Mereu, 2000: 118-119) nel grande spazio esagonale. Nel 1980 ancora 
Gerda Gollwitzer, professionista, architetto paesaggista e autrice, faceva pervenire 
per il tramite di Porcinai un invito a Nivola ad esporre le sue opere in Germania, a 
Diisseldorf, ed egli a sua volta scriveva a Porcinai “ho dato il tuo nome a un amico 
che è preside del reparto di architettura alla University of California in Berkeley Ca. 
(...) Il nome dell’amico è Richard Bender. Al presente si trova a Roma, trascorren- 
do due mesi all'Accademia Americana. Se verrà a Firenze sono certo che cercherà di 
vederti”. A ottobre 1984 ancora Nivola raccomandava l’amico Dan Kiley, prossimo 
ad una visita a Firenze — che in seguito contatterà personalmente il paesaggista 
italiano — all’attenzione di Porcinai per un incontro fiesolano nelle date del suo 
soggiorno in Italia. 

AI volgere degli anni ’70 Porcinai aveva affiancato l’amico Nivola nell’acqui- 
sto di una proprietà in Toscana e il 29 luglio 1970 gli inviava alcune fotografie 
augurandogli, a seguito del sentimento entusiasta già esternato dallo scultore per 
lo spirito dei luoghi appena acquistati, “di poter trarre da questo ambiente nuove 
ispirazioni per l’arte tua che essendo autentica è anche di ieri e di domani e pertanto 
continuatrice di nobili, indistruttibili tradizioni”. Era una lettera che faceva seguito 
a un sopralluogo che i due amici avevano fatto insieme poco tempo dopo il rogito - 
30 aprile 1970 - in quello che Nivola considerava il “mio rifugio a Dicomano”, un 
luogo di “solitudine in cima al mondo” lontano da rumori e clamori, dove nessuno 
lo conosceva e dove, favorito dall'anonimato di persone e paesi, riposava mente 
e spirito traendo ispirazione creativa nell’incanto delle splendide colline. Era una 
vasta proprietà con suggestivo agglomerato di edifici rurali ed estesi terreni con 
oliveti e vigneti - che Nivola restaurerà e incrementerà - in splendida posizione pa- 
noramica nel Mugello. Riconoscente, lo scultore rammentava in seguito all'amico: 
“ripenso con piacere alla gita (...) con la tua gradevole compagnia. Per questo e 
per altri segni di solidarietà e amicizia ti sarò sempre grato. Naturalmente ci tenevo 
molto alla tua approvazione della scelta del mio futuro rifugio in Italia. Anche per- 
ché mi piace considerarti fra i migliori cittadini di Firenze. La conquista di Colle 
sopra Colle mi ha ridato nuove energie, tanto che in questo breve periodo dopo 
il ritorno qui ho potuto realizzare una quantità considerevole di lavoro (...) sono 
molto ansioso di tornare a Dicomano per iniziare i lavori di restauro dei borghi”. 

Ai contatti epistolari più amicali si aggiungeva il costante aggiornamento che 
Nivola rivolgeva allo studio Porcinai spedendo inviti ed opuscoli di eventi relativi 
alla propria attività artistica, come le due personali tenutesi a Roma nel febbraio 
1973 presso la galleria Marlborough e a New York, tra il 30 ottobre ed il 22 di- 
cembre 1984 presso la Washburn Gallery dal titolo “Sardinian Widows”. A Roma 


362 


In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


Porcinai riuscì a vedere la mostra solo il giorno successivo alla partenza di Nivola 
dall'Italia, scrivendo poi all'amico: “Mi congratulo per questo nuovo aspetto della 
tua visione poetica e ti auguro di potere continuare a ‘scrivere al mondo’ da Dico- 
mano o dagli Stati Uniti tante altre belle pagine”. 

L'ultima fase della corrispondenza fra i due amici riguardò prevalentemente la 
vendita della proprietà di Dicomano, che su richiesta di Nivola fu oggetto di pre- 
murose attenzioni da parte di Porcinai per il tramite dello staff di studio nella per- 
sona dell’architetto Gianni Medoro. Si trattò quindi necessariamente di comunica- 
zioni funzionali alla mediazione con i clienti interessati, ma i contatti del periodo 
traspirano tuttavia un’emotività preziosa a comprendere gli stati d’animo e la si- 
tuazione contingente. Problemi di salute di entrambi connotano la corrispondenza 
di reciproche richieste di aggiornamenti e affettuosi incoraggiamenti, e orientano 
Nivola - che nel maggio 1984 scriveva “...spero di venire in autunno, se la salute 
me lo permette. Questa signora salute come tu sai alla nostra età è piuttosto ca- 
pricciosa (...) spero che la tua salute sia buona”, pur rimarcando in una successiva 
lettera del 18 ottobre “la salute è alquanto migliorata, almeno così sono tentato di 
credere. A un certo punto anche le proprie malattie vengono a noia e si finisce col 
ignorarle (sic), o con abituarsi” - a chiudere ad un certo punto situazioni impegna- 
tive a distanza e a consolidare il proprio desiderio di lasciare, verso la fine della vita, 
una tangibile traccia della propria arte nella sua terra natale, la Sardegna. Da qui la 
decisione di vendere la proprietà di Dicomano, chiedendo aiuto all'amico, rivelato- 
si già così prezioso in fase di acquisto. 

A quanto emerge dalla corrispondenza una porzione della proprietà era già stata 
vincolata a vendita nei primi anni ’80, e il 23 maggio 1983 Nivola scriveva all’ami- 
co Pietro informandolo in generale “A Berkeley è molto di moda l’architettura del 
paesaggio, la tua nobile professione. Forse si spera che questa arte serva da baluardo 
contro i distruttori del verde”, chiedendo premuroso riguardo alla sua condizione 
fisica: “Mi chiedo spesso come va la tua salute. L'ultima volta che ci siamo visti mi 
dicesti che ti eri stufato di preoccupartene, e che era meglio così”, e chiedendogli 
inoltre di procedere anche per la vendita della parte residua della proprietà: “In 
questi ultimi anni mi sono abituato a considerarti oltre che amico anche vicino di 
casa. L'amicizia rimane, ma la vicinanza di casa in Toscana è scossa dalla decisione 
di vendere la proprietà, cioè anche la seconda casa col terreno. Lo dico a te prima di 
tutti, con la speranza di venderla a persona che apprezza la bellezza del posto. Sono 
disposto di darla (sic) anche per poco. Consigliami te. (...) Io verrei per concludere 
la vendita se possibile in autunno, e starei un po’ in Italia per tradurre il ricavato 
della vendita in altre sculture in travertino e altri marmi preziosi. In altre parole, 
per spendere i soldi frivolosamente (sic). Anche se mi sento disertore lasciando 
Colle, Dicomano. Ti prometto di non ripartire senza rivederci, magari più spesso”, 
terminando con un augurio di buona salute e buon lavoro. Qualche tempo dopo 
partiva la risposta di Porcinai che prometteva di occuparsene, riscrivendo poi a fine 
settembre per comunicare di avere trovato un acquirente. Il 25 ottobre la missiva 
di Nivola riportava ancora condizioni di salute tutt'altro che positive: “no, la mia 
salute non va molto bene. Al presente sto (...) facendo una cura di raggi (...) le 
possibilità di guarigione non scoraggianti, dicono” aggiungendo inoltre “a meno 
che non avvenga una miracolosa rinascita io penso, salute o no, che l’esperienza di 
Dicomano sia cosa del passato. Mi consolerebbe però sapere che qualche persona 
che come noi ha visto e ammirato la qualità speciale del luogo diventi il vero pro- 


363 


Claudia Maria Bucelli 


prietario”. Nel marzo 1984 Nivola scriveva ancora a Porcinai riportando le proprie 
pessime condizioni di salute e aggiornandolo genericamente “grandi dibattiti qui: 
fra architetti, moderni e post moderni penso che sia lo stesso in Italia”. Riguardo 
alla vendita della sua proprietà toscana si prendeva un po’ di tempo per valutare le 
offerte ricevute, programmando di “venire in Italia in autunno magari per tradurre i 
soldi della vendita in sculture di marmo da lasciare in Sardegna”. Non molto tempo 
dopo comunicava a Porcinai in una lettera datata 11 maggio 1984 “mi ha telefona- 
to la signora che vuole comprare la casa a Colle Dicomano. Ho detto di si (...) ti 
sono grato per aver trovato una persona simpatica per abitare la casa a Colle”. 

A qualche anno prima, precisamente al 25 settembre 1981 risaliva quella mis- 
siva che Nivola indirizzò a Pietro Porcinai inviandola proprio da Dicomano dove, 
appena arrivato da New York - previo un breve soggiorno in Sardegna — villeggiava 
in serena ma intensa creatività artistica nell'amata proprietà sulle colline toscane. 
L'argomento era la descrizione e disegno di un progetto di pavimentazione per una 
piazza non specificata da Nivola ma nominata da Porcinai in riferimento a Zoagli. 
Si trattava della vivace risposta dell'artista alla richiesta dell'amico Porcinai cui de- 
scriveva, con esplicativo schizzo a mano tracciato in calce, una possibile soluzione 
compositiva. La lettera, ricevuta il 28 dello stesso mese, si riferisce con ogni eviden- 
za al progetto per la “piazza comunale di Zoagli” - come da cartigli delle tavole di 
studio - che in quell’anno lo Studio Porcinai stava portando avanti. L'incarico era 
pervenuto dalla municipalità comunale con l’invio di tavole di rilievo - uno stato di 
fatto e un'indagine conoscitiva, nonché una precedente ipotesi di progetto in elio- 
copia a scala 1.200 che prevedeva parcheggi e ampia area con altifusti e cespugliose 
afhiancate a sedute semicircolari con esteso tappeto erboso intervallato da piazzole e 
sentieri acciottolati - e di una foto aerofotogrammetrica del comune di Zoagli spe- 
dita “a seguito di accordi verbali intercorsi”, proprio il giorno dopo, 26 settembre, 
con preghiera del Sindaco “di volerla restituire al termine dell'uso”. 

AI 24 settembre 1981, dunque subito prima, risaliva invece un contatto telefo- 
nico fra Porcinai e Nivola che con ogni probabilità si parlarono al telefono anche il 
25 successivo, come accennato nella missiva sopra citata e nella nota di segreteria. 
Riferendosi alla tridimensionalità di “scultura su di un pavimento di ciottoli bian- 
chi e neri” forse Nivola rievocava una soluzione a richiamo dei suoi lavori a formelle 
in terracotta della “Serie Spiagge” dei primi anni ’60 o comunque alle modalità a 
bassorilievo di molte sue realizzazioni. E forse proprio i costi eccessivi che materiali 
e ventilata tridimensionalità di alcune parti della proposta artistica - pur nella me- 
diazione paesaggistica di Porcinai - avrebbero comportato furono il motivo della 
rinuncia da parte dell'’amministrazione comunale. Solo successivamente, occupan- 
dosi autonomamente del sagrato della chiesa di Zoagli e lasciandosi ispirare da 
quanto preventivamente presentato in collaborazione con Nivola, Porcinai permet- 
terà in qualche modo una concretizzazione finalmente, in traduzione personale di 
lastricatura in acciottolato, del progetto pensato insieme all'amico e mai realizzato. 

Sullo spunto artistico pervenuto il disegno della pavimentazione per la piazza 
comunale di Zoagli venne realizzato per lo Studio Porcinai da Adriana Manzoni in 
scala 1:200 in due soluzioni distinte che risalgono al 1981. 

Una, la “i (sic) soluzione piazza” n. 2048/1, datata 1.12.81, con lungo elemento 
ondulato quasi a dorsale di spina pesce che si dispiega sinuoso e da cui si dipartono 
come costole laterali linee arcuate e ondulate a regolare lo spazio ai lati, risalendo 
dalla spiaggia fino al sagrato della vicina chiesa di San Martino. In aggiunta, verso 


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In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


il litorale, sagome di barche attraccate in prossimità della battigia e davanti un'area 
rettangolare a doppio filare alberato, quasi al centro della piazza. L'altra, la “ii (sic) 
soluzione piazza”, n. 2048/2, sempre datata 1.12.81, in raffinata grafica di onde 
stilizzate in sottili ondulazioni nere che allargano in ampiezza e lunghezza, rarefa- 
cendosi e incuneandosi dinamicamente nello spazio urbano man mano che si al- 
lontanano dalla battigia, nei pressi della quale un incremento di densità decorativa 
avrebbe dovuto arricchire il tema marino come da disegno di Costantino Nivola 
— evidentemente semplificato da Porcinai — pur sempre riportandovi le sagome di 
barche arenate nell’area più vicino al mare e con accanto il doppio filare di alberi. 

Era, quest'ultima, la soluzione che maggiormente si avvicinava al moto decora- 
tivo e scultoreo suggerito dall'amico Nivola. Una continuità poetica fra terraferma, 
spiaggia e mare, da cui si amplia in raffinato disegno di moto ondoso stilizzato lo 
spazio della piazza, esaltato dalla sinuosa decorazione, verso il palazzo comunale 
e prospicente loggiato, incuneandosi anche più indietro, a salire lungo il corso e 
verso la chiesa di San Martino. Una vera e propria celebrazione della ricchezza dei 
doni delle acque, riportata in frase significativa dal celebre scultore, che nella sua 
missiva aveva annunciato all'amico Pietro: “ho una idea credo buona per la piazza”, 
descrivendo subito sotto, in veloce schizzo, quanto tradotto molto espressivamente 
anche in parole: “un vomito di prodotti del mare nella piazza: sirene, pesci, nettuni, 
ecc. in scultura su di un pavimento di ciottoli bianchi e neri a disegno di ondine 
sulla sabbia”. La continuità ideale del progetto con il mare e la connessione alla 
terraferma con la presenza dell'abbondanza riversata dalle onde sulla battigia da 
cui idealmente, fisicamente, quotidianamente, nella realtà e nel mito, scaturiscono 
i protagonisti della soluzione artistica, veniva dunque fortemente sottolineata dallo 
stesso Nivola. Egli citava anche le sagome nere, le “barche”, collocate in limitare, 
vicino al mare: un evidente richiamo alle barche che fin tempi antichi, e sempre, 
allora come ora, al termine della pesca venivano tratte al sicuro fuori dall’acqua dai 
pescatori e trascinate sulla spiaggia. 

Sulla proposta dell'amico Nivola dunque, scaturiva la traduzione di studio delle 
due ipotesi applicative di Porcinai - pur rielaborate e semplificate in bidimensio- 
nalità e ridotte in numero di dettagli - delle quali la seconda sarà caldeggiata e 
presentata in montaggio aerofotogrammetrico al comune di Zoagli nonché in due 
prospettive volte ad esaltare l'elegante disegno della pavimentazione bicroma. Il 
progetto non pervenne tuttavia ad essere tradotto in realtà. All’artistica soluzione a 
terra era previsto in entrambe le ipotesi di affiancare alte palme - una soluzione cara 
a Porcinai in quei luoghi, come già proposta per l'Hotel Bristol — collocate presso i 
piloni del ponte ferroviario per ridurne il drammatico impatto, arricchendo inoltre 
lo spazio circostante con aggiuntive piantagioni a creare aree di sosta ombreggiate e 
caratterizzando l’area centrale con l'ampio rettangolo a doppio filare alberato. 

Lo Studio Porcinai aveva prodotto anche due vedute prospettiche a china su 
lucido per meglio illustrare il progetto. Una dall’estremità della piazza opposta al 
mare, quindi verso la spiaggia, con ben evidente, oltre all'andamento curvilineo 
delle linee nere della pavimentazione su sfondo bianco, il taglio della linea ferrovia- 
ria e le arcate della sopraelevata che volumetricamente incombe sullo spazio della 
piazza, e con i palmizi disposti presso i piloni. L'altra con i ricchi particolari della 
pavimentazione nei pressi dell’attracco delle barche in riva, dove le sinuose linee 
nere su fondo bianco - il maroso che entra incuneandosi oltre la spiaggia — ancora 
più evidenziano davanti al doppio filare di alberi le sagome nere delle barche che 


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Claudia Maria Bucelli 


richiamano quelle del porticciolo dirimpetto e il motivo delle imbarcazioni tratte 
dai pescatori sulla battigia. 

Il tema delle onde E mare, in disegno più geometricamente uniforme, serra- 
to e stilizzato, ricomparirà anche nel radex e nelle quattro eliocopie — definitiva 
soluzione poi realizzata - inviate fra maggio e giugno 1984 da Porcinai ad Angelo 
Sacco e relative al progetto di pavimentazione successivamente proposto a e 
chilometro di distanza, “dopo quanto deciso in occasione del nostro incontro sul 
posto del 10 marzo”. 

È il 1984 infatti l’anno in cui si concretizzano gli sforzi progettuali verso la 
riuscita finale del progetto del sagrato della chiesa di Sant'Ambrogio a Zoagli. Da 
mittente Impresa Edile Angelo Sacco, vicesindaco del comune di Zoagli erano state 
inviate allo Studio Porcinai un anno prima, il 10 maggio 1983, le foto dello spazio 
davanti alla chiesa con alcune aggiuntive riprese delle aree attorno, accompagnate 
da una planimetria quotata dell’intero sagrato con indicazione degli accessi all'area 
e all’edificio ecclesiastico e due proposte di “progetto di massima per la nuova pavi- 
mentazione del sagrato”, in scala 1:50, risalenti al 1974. Un precedente tentativo di 
pavimentazione rimasto evidentemente sulla carta, che offriva due diverse soluzioni 
in ricca gamma cromatica rievocando stile e tonalità materica della settecentesca 
chiesa di San Martino, ricostruita dopo le distruzioni dell’ultima guerra. Una delle 
due ipotesi suddivideva la piazza dal centro in trapezi arricchiti da decorazioni cen- 
trali a motivi di broderies, l’altra proponeva un motivo uniforme di piccoli quadrati 
reiterati, suddivisi in diagonale e distanziati da fasce separatorie con decorazione a 
ventaglio davanti alla porta d’ingresso della chiesa. Entrambi i progetti risolvevano 
l'irregolarità della piazza con una semplice perimetrazione a fasce di diversa confor- 
mazione e profondità in lastre lapidee perpendicolari al cordolo circuitale. 

Contatti fra lo Studio Porcinai e Angelo Sacco programmarono vari incontri 
fra il Professore e il titolare dell'omonima impresa, cui seguono invii di progetti 
di massima da parte di Porcinai. A fine 1983, precisamente il 30 dicembre, lo stu- 
dio Porcinai aveva già scritto a Sacco, allegando “n. 3 copie disegno 2096” datate 
25.11.1983 per quella che era la “stesura di massima” del progetto di pavimentazio- 
ne in scala 1:50 “per il sagrato della chiesa della parrocchia di S. Ambrogio”. Il pro- 
getto, di cui sono conservate anche eliocopie, e dove vengono da rilievo dello stato 
di fatto riportate le collocazioni di due alti lecci e l'ingombro delle loro chiome, 
riporta la proposta definitiva della pavimentazione nell’area a trapezio irregolare 
come poi venne effettivamente realizzata, in “ciottolato bianco e nero alla genovese” 
come da descrizione dello stesso Porcinai con la specifica che “l’idea del disegno a 
onde bianco e nero dovrebbe simbolizzare il mare” e che “se il Comune deciderà 
di fare il lavoro seguiranno indicazioni” date personalmente in loco. Nello spazio 
antistante l’arroccato luogo di culto, delimitato da un basso muro a fungere anche 
da seduta e perimetro per la retrostante area terrazzata belvedere con vista mare - in 
uno splendido tratto della costa ligure sul golfo di Rapallo, verso Portofino - venne 
poi in breve tempo realizzata da maestranze locali, secondo l’antica tradizione ligure 
del pavé, “un motivo ad onde come a traslare la chiesa verso il mare e viceversa. Su 
questo ‘mare’ di ciottoli, tre percorsi in pietra di ardesia uniscono i tre ingressi della 
chiesa al piazzale? (MEDORO 2001:40). Una semplice pavimentazione a tridente 
e stilizzato motivo decorativo a onde in ciottoli bianchi e neri. Le linee del tridente 
al centro più spesso e ai lati più stretto - che riverberano esternamente la funzione 
degli spazi interni, corrispondendo alle tre navate alla chiesa - e del perimetro, 


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In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


tutto realizzato in fasce di lastre di ardesia grigia a spacco di diverse dimensioni che 
da progetto esecutivo riportano le misure di 100x60, 80x60, 60x60, si alternano 
alle ampie bande in pavé bicromo che in ricorsi uniformi e uniformemente ondu- 
lati, neri su sfondo bianco, stilizzano il movimento ondivago del mare, richiamo 
al suggerimento di Nivola. Le preesistenze di lecci secolari divennero motivo di 
integrazione decorativa e furono volutamente inseriti nel disegno dell’acciottolato 
realizzandovi una piccola area quadrata di protezione, non presente a progetto e 
probabilmente definita direttamente in cantiere dallo stesso Porcinai con pavimen- 
tazione uniforme a ciottoli bianchi. 

Sul lato sinistro del sagrato, verso l'ampia visuale panoramica sul golfo sotto- 
stante si colloca un’area belvedere affacciata direttamente sul mare e separata dalla 
nuova pavimentazione da una seduta a L, denominata da progetto ‘muretto sedile’. 
Pavimentata in cotto, si distingue per maggiore definizione volumetrica rispetto alle 
altre soluzioni di sosta del sagrato — il muretto diventa infatti ‘sedile’ praticamente 
in tutti i tratti del perimetro - nonché per la composizione raccordata ad ampie 
fioriere. Dietro il ‘muretto sedile’ dell’area belvedere si collocano infatti “contenito- 
ri-fioriera” con cespugliose e un’altra fioriera quadrangolare prende posto presso la 
scala a doppia rampa che collega questo spazio al livello sottostante. In quest'area 
tuttavia, come specificato da Gianni Medoro, lo studio Porcinai non intervenne. 

Nel 1984 proseguirono i contatti di Porcinai con Angelo Sacco relativamente 
all'invio — accanto ad alcuni altri incontri di persona - del progetto definitivo, e il 
3 agosto 1984 di particolari costruttivi - datati tavola 27.7.1984 a firma Adriana 
Manzoni, con specifiche di dimensioni e materiali: fasce di ciottoli neri di 15 cm 
di spessore e di ciottoli bianchi di spessore 30 cm e intervallo di sinusoide (quat- 
tro intervalli per ogni onda completa) di 47 cm per una dimensione totale ai lati 
dell'asse centrale di 375 cm - e per la presa visione di campionari di ciottoli e ar- 
desia in lastre. In aggiunta si decideva la collocazione di una sbarra per chiudere la 
piazza al traffico automobilistico, anche se la soluzione finale sarà quella di paletti 
in ghisa e catene a chiudere l’accesso sia ad auto che a motocicli, permettendo solo 
la fruizione pedonale. Al febbraio 1985 risalgono gli ultimi contatti fra Porcinai e 
Sacco, e giunse anche allo Studio Porcinai una lettera con foto della ditta Neri per 
“la fontana e le (suddette, NdA) colonnine da mettere nella Piazza di S. Ambrogio 
(...) da disporre come da schizzo allegato”. Subentrava poco dopo la fine del can- 
tiere e la chiusura dei lavori. 


367 


Claudia Maria Bucelli 


Archivi 

APPF - Archivio Pietro Porcinai, Fiesole FI 

Disegni: Rotolo ‘Piazza di Zoagli’. 

Faldoni: 13, 17, 183, 196, 64, 356, 362, 400, 412, 422. 


Bibliografia 

Arrea G., Costantino Nivola, 2005, Nuoro: Ilisso. 

CARAMEL L., Pirovano C., Costantino Nivola. Sculture dipinti disegni, 2000, Mi- 
lano: Electa. 

CARAMEL L., Pirovano C., Nivola scultore, 2003, Milano: Electa. 

ForestIER S., Nivola Terrecotte. Opere dello Studio Nivola, 2004, Amagansett, 
USA, Milano: Yaca Book. 

GrironI T., Natura, Scienza, Architettura. L'eclettismo nell'opera di Pietro Porcinai, 
2006, Firenze: Polistampa. 

LicHt F., SATTA A., IncErsoLL R., Nivola sculture, 1991, Milano: Yaca Book. 

MartEINI M., Pietro Porcinai architetto del giardino e del paesaggio, 1991, Milano: 
Electa. 

McManus K., Italiani a Harvard. Costantino Nivola, Mirko Basaldella e il design 
Workshop (1954-70), 2015, Milano: Franco Angeli. 

MEDORO, G., Pietro Porciani: Esempi di intervento e ego Il giardino, la cava, 
la piazza, in “Arte, Architettura, Ambiente. Periodico dell'ordine degli archi- 
tetti di Cagliari e provincia” Aprile-Giugno 2021, pp. 35-40. 

Mertu A., /l Nivola ritrovato. Un artista tra l’America e il Mugello, 2012, Firenze: 
Nardini. 

Pirovano C., (a cura di), Nivola, l'investigazione dello spazio, 2010, Ilisso, Nuoro. 


PorcinaI P., MONDINI A., Giardini d'occidente e giardini d'oriente, 1966, Milano: 
Fabbri. 


Sitografia 
https: Vimeo Matteo Frittelli Videos //vimeo.com/33109553 


Ringraziamenti 

I miei più sentiti ringraziamenti vanno a Gianni Medoro, che collaborò con Lu- 
igi Latini, già presidente dell’Associazione Pietro Porcinai, alla realizzazione con 
Tuca Matteo Frittelli del video su Zoagli riuscendo, come sempre fatto e con 
il loro esempio dimostrato, stimolare in me curiosità e dedizione. Se ho deciso di 
intraprendere questa strada anche alla loro passione generosa sono debitrice. Un 
sentito grazie alla Dott.ssa Anna Porcinai per l’immutata cortesia, il sostegno e la 
dini di accesso ai documenti originali, imprescindibile supporto all’in- 
tuizione e, in successiva indagine, alla comprensione degli eventi e dei progetti. 
NB: Il presente documento doveva essere pubblicato nel 2021 e presenta quindi 
lo stato della ricerca a questa data NdA. 


368 


In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


guri 


RI CASA 


ME NNDAAIÀ 


Fig. 1. Planimetria con studio di pavimentazione a onde in progetto congiunto di Pietro Porcinai e 
Costantino Nivola su rilievo aerofotogrammetrico della piazza comunale inviato dal sindaco di Zoagli 
allo studio Porcinai, in Matteini, p. 219. 


369 


udia Maria Bucelli 


Fig. 2. Lettera di Nivola a Pietro Porcinai con la proposta di progetto per la piazza del comune di Zoagli 
in Mereu, p. 127. 


370 


In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


Fig. 3. “i (sic) soluzione piazza” prodotta dallo studio Porcinai nel 1981 per la Piazza del Comune di 
Zoagli, rielaborazione grafica Claudia Maria Bucelli. 


Fig. 4. “ii (sic) soluzione piazza” prodotta dallo studio Porcinai nel 1981 per la Piazza del Comune di 
Zoagli, rielaborazione grafica Claudia Maria Bucelli. 


371 


Claudia Maria Bucelli 


Fig. 5. Il disegno del tridente del sagrato della chiesa di Zoagli con le superfici perimetrali pavimentate 
in lastre di ardesia e le aree residuali in ciottoli neri e bianchi a disegno di onde continue orizzontali, 
rielaborazione grafica Claudia Maria Bucelli. 


372 


In scultura e paesaggio. Pietro Porcinai e Costantino Nivola a Zoagli 


i 


Figg. 6 e 7. Le due vedute prospettiche della proposta di progetto per la Piazza del Comune di Zoagli, rea- 
lizzate a china su lucido dallo Studio Porcinai con l'andamento curvilineo a onde diseguali disegnate dalle 
linee di ciottoli neri su sfondo bianco, e con l'aggiunta, verso la battigia, delle sagome di ‘barche’ spiaggiate. 


373 


Claudia Maria Bucelli 


Fig. 8. Ripresa fotografica del sagrato della chiesa di San Ambrogio a Zoagli, in Matteini, p. 219. 


374 


Curiosità araldiche della Diocesi di San Miniato 


MICHELE FIASCHI 


La Diocesi di San Miniato si appresta a celebrare i suoi quattro secoli di vita. 
Nacque, infatti, con Bolla di Gregorio XV, con data 5 dicembre 1622. 

La città aveva intrapreso i suoi primi tentativi di richiesta nel 1409, ma solo 
nel 1621 le trattative furono riallacciate con energia dalla vedova di Cosimo, 
Maria Maddalena d'Austria alla quale il marito, insieme alla reggenza durante la 
minore età del figlio Ferdinando II, aveva lasciato come vitalizio la podesteria di 
Colle e il Vicariato di San Miniato. 

Fu così che nel gennaio 1621, dopo un fitto intreccio di lettere fra Roma e 
Firenze, il Cav. Francesco Niccolini presentò al Papa la richiesta per l'elevazione 
della città a sede Vescovile. 

Grazie all'intervento mediatori del Cardinale Ludovico Ludovisi, suo nipote, 
il Pontefice acconsentì, esigendo però che il Granduca provvedesse a una pensio- 
ne annua di 1000 scudi per il nuovo Vescovo finchè non si fossero rese vacanti le 
“sinecure” che avrebbero costituito la sua Mensa!. 

Alcune problematiche iniziali si ebbero soprattutto sulla definizione dei con- 
fini, poiché il Vescovo di Lucca, Monsignor Alessandro Guidiccioni, non inten- 
deva accettare la perdita d’importanti parrocchie del Valdarno. 

Nel mese di ottobre tali problemi vennero risolte: San Miniato avrebbe avuto 
un Vescovo suffraganeo dell'Arcivescovo di Firenze, nonché diciannove Pievi con 
relativi Pivieri, la Prioria di Santa Croce sull'Arno, la Positura di Castelfranco di 
Sotto e l'antico Piviere di San Maria a Monte per un totale di novantadue chiese 
curate, centosessanta benefici semplici, dieci monasteri femminili e tredici con- 
venti di frati(comprese in questo numero anche gli apporti del Barghigiano e del 
Pietrasantino che non perverranno contrariamente a quanto stabilito). 

A questo punto si trattava di scegliere il nuovo Vescovo, così la Reggente 
Maria Maddalena d'Austria e Cristina di Lorena, attraverso il Cav. Niccolini (am- 
basciatore Toscano a Roma) fecero pervenire due nominati: quello del Canonico 
della Cattedrale Francesco Nori e quello di Giulio Cavalli da Pontremoli, il quale 
era Dottore e Auditore della Consulta del Granduca che però non era ancora 
sacerdote. 

Il Papa, il 24 dicembre 1622, scelse il monsignor Francesco Nori che poté 
essere consacrato solo nel maggio 1624; era, infatti, deceduto Papa Gregorio XV 
e si dovette attendere l'elezione del suo successore Urbano VIII. Nel frattempo la 
Diocesi fu retta dal 7 gennaio 1623 al maggio 1624 dal Canonico Andrea Romo- 
lo Buonaparte, quale Amministratore Apostolico?. 


SIMONCINI 1989. 
2? LortI 1981 


375 


Michele Fiaschi 


Nel corso dei 400 anni della Diocesi si sono susseguiti molti presuli che hanno 
generato alcune curiosità araldiche degne di approfondimento, come i blasoni 
adottati: dal canonico Buonaparte, dall’Arcivescovo Pichi, dai due vescovi Fazzi e 
dal Beato Pio Alberto Del Corona. 

L'uso di emblemi araldici ebbe inizio in modo significativo nella Chiesa in 
un secondo momento rispetto a ciò che avvenne nell’araldica gentilizia, associata 
alla professione militare. Ai chierici era vietato usare stemmi, pena la scomunica 
e solo alla fine del XIII° e fino gli inizi del XIV° secolo, gli ecclesiasti iniziarono 
ad usare gli stemmi, in virtù Li loro utilità, all’interno del sigillo. Nacque così 
l’araldica ecclesiastica, anche se il primo stemma papale risale a Innocenzo III 
(1198-1216), benché non vi siano prove a livello documentale di un effettivo 
uso. Il primo Pontefice che si avvalse di uno stemma fu Bonifacio VIII (1294- 
1303), Benedetto Caetani, con l'emblema araldico della propria arma di fami- 
glia: d’oro alla gemella ondata d'azzurro posta in banda. 

Nell’araldica ecclesiastica il contenuto dell'arma gode di maggiore stabilità, 
rispetto agli ornamenti esterni, che essendo segni di dignità possono variare a 
seconda della carica ricoperta. 

Tuttavia i primi stemmi del clero non furono timbrate da questi contrassegni; 
solo nel XIV® secolo fece la comparsa il timbro dello stemma con il cappello 
prelatizio o galero dei cardinali di colore rosso e solo nel XV° secolo vi compare il 
cappello verde proprio dei vescovi o arcivescovi, che gradualmente iniziò a sosti- 
tuire la mitra, quale timbro dell’arma. 

Nel corso del tempo divenne sistematico l’uso dei cappelli differenziato dal 
numero dei fiocchi per identificare i gradi gerarchi del clero. Nel 1644 il timbro 
di questi ornamenti venne regolato mediante apposite norme. Gli ornamenti 
identificativi sono: la tiara, le chiavi, l'ombrello, la mitra, il pastorale, il galero o 
capello, il pallio, la croce, la mazza priorale, il rosario, il motto e le decorazioni 
cavalleresche limitate all’ Ordine di Malta e al Santo Sepolcro. 

Passiamo all’analisi dello stemma del Canonico Andrea Romolo Buonaparte, 
Priore di San Frediano a Firenze, Canonico della Collegiata plebana di Santa 
Maria e San Genesio e Vicario foraneo del Vescovo di Lucca. Adottò, in qualità 
di Amministratore Apostolico, lo stemma di rosso, alla gemella in banda di nero, 
accompagnata da due stelle a otto punte dello stesso ordinate in palo (Fig. 1); anziché 
alla gemella in banda d'argento, accompagnata da due stelle dello stesso, come 
invece è l'arma familiare” (Fig.2). 

Appose dunque una Li. al blasone ereditario, detta brisura. Da una ri- 
cerca approfondita, l’uso della variante delle figure nere, fu un vero e proprio se- 
gno distintivo tipico dei religiosi di questa famiglia sanminiatese dal XVI° secolo 
al XVIII° (Fîg.3). Il Canonico applicò tale regola in maniera parziale, creandone a 
sua volta una nuova; non lo sappiamo con certezza, ma possiamo solo ipotizzare, 
che sia stato un elemento proprio per l’alto ruolo raggiunto, del resto fu il solo 
clericale dei Buonaparte ad usare tale distinzione. Il tutto timbrato dal galero 
nero con sei nappe dello stesso, per lato e disposte: 1,2,3; segno distintivo vicario 


3 
4 


Corpero LAnza DI MonTEZEMOLO POMPILI 2014; HeIM 1981. 
La famiglia Buonaparte fu iscritta del Libro d'Oro della nobiltà samminiatese e ivi emerse nel 
1370 in seguito alla conquista della Città da parte dei fiorentini. Cfr. CASINI 1991. 


376 


Curiosità araldiche della Diocesi di San Miniato 


generale e/o episcopale (Fig. 1). 

Un altro emblema araldico interessante è quello del Vescovo Monsignor An- 
gelo Pichi di Borgo San Sepolcro, Arcivescovo di Amalfi dal 1638 al 1648. Egli 
conservò il titolo di Arcivescovo ed è stato l’unico presule a possedere, fino ad 
oggi, questo titolo nella sede samminiatese. Nominato il 27 novembre 1648 e fu 
il terzo episcopo. 

Adottò lo stemma familiare, un'arma parlante o agalmonica?: d'azzurro, a tre 
picchi d'oro, posati 007 in palo, 2.1, e al capo cucito d'Angiò. Il tutto accollato alla 
Croce di Santo Stefano e timbrato croce astile o processionale doppia e dal galero 
verde con dieci nappe dello stesso, per lato e disposte; 1, 2, 3, 4; segno distintivo 
di arcivescovo (Fig. 4). 

Il 22 luglio 1799 fu nominato il XIII° Vescovo, Monsignor Francesco Bruno- 
ne Fazzi di Calci. Nacque nel 1726 e fu ordinato sacerdote il 1 marzo 1749. Fu 
pievano di Santa Maria Assunta a Bientina e dal 1764 parroco di San Matteo a 
Pisa. Il 29 settembre 1768 il Granduca Pietro Leopoldo I lo nominò professore 
di morale all’Università di Pisa e fece parte della cerchia dei vescovi toscani che 
condividono orientamenti di tipo giurisdizionalista, anche se non atteggiamenti 
riformati (alcuni atteggiamenti anticuriali, episcopalistici e improntati i “rego- 
lata devozione” lo avvicinano a Scipione De' Ricci, Vescovo di Pistoia). 

Egli usò quale stemma quello familiare: d'oro, all'aquila dal volo abbassato di 
nero, e alla ia diminuita attraversante d'argento. Il tutto timbrato dalla croce 
astile o processionale e dal galero verde con sei nappe dello stesso, per lato e di- 
sposte; 1, 2, 3, segno distintivo di vescovo. (Fig. 5). 

Dopo la sua morte avvenuta il 27 gennaio 1805 gli succedette il nipote Mon- 
signor Pietro Fazzi, che il 26 novembre 1806 divenne così il XIV° Vescovo. 

Egli nacque il 23 novembre 1768, fu ordinato sacerdote nel 1791, laureato a 
Pisa in diritto canonico. Fu prelato domestico di Sua Santità; Assistente al Soglio 
Pontificio e Canonico della Primaziale pisana. Nel 1811 partecipò, a Parigi al 
concilio nazionale indetto da Napoleone. 

Monsignor Pietro come suo zio, pose nel proprio scudo lo stemma familiare 
(Fig. 5). Così zio e nipote ebbero la medesima arma, una singolarità davvero cu- 
riosa nel panorama araldico di questa diocesi. 

Monsignor Pio Alberto Del Corona’, domenicano, il 3 gennaio 1875 fu con- 
sacrato Vescovo titolare di Draso (questa sede oggi non compare più nell’Annua- 
rio Pontificio) e il 18 gennaio fece il suo ingresso in San Miniato come Vescovo 
coadiutore in dv tantum e Vicario generale. Divenendone Vescovo effet- 
tivo della Diocesi alla morte di Monsignor Barabesi, il 2 febbraio 1897 e ottenen- 
done l’exequatur il 10 marzo. 

Pio Alberto Del Corona era nato a Livorno il 5 luglio 1837, il 1° febbraio 
1855 vesti l'abito domenicano nel convento fiorentino di San Marco e nel 1860 
fu ordinato sacerdote. Nel 1872 fondò a Firenze la Congregazione delle Suore 
Domenicane dello Spirito Santo. Nel 1900 Papa Leone XIII fu nominato Assi- 
stente al Soglio Pontificio. Il 30 agosto 1906, gravemente ammalato, rimise il suo 


> Con il termine parlante o agalmonico, si di indicano gli stemmi le cui immagini alludano al 


nome della famiglia e sono considerate le più antiche. 
i Pio ALBERTO DEL CORONA 2012. 


377 


Michele Fiaschi 


mandato nelle mani di Papa Pio X, che non le accettò, affiancandogli come Am- 
ministratore l’Arcivescovo di Pisa Maffi. A San Miniato non tornò più, dividen- 
dosi per sei anni tra l’Asilo e il Convento Domenicano. Il 29 agosto 1907 Papa 
Pio X lo nominò Arcivescovo titolare di Sardica (oggi, nell’Annuario Pontificio, 
è chiamata Sardi, sede metropolitana nella provincia di Lidia); morì a Firenze, 
il 15 agosto 1912. In data 17 settembre 2014 Papa Francesco ha promulgato il 
Decreto per la sua Beatificazione, che è stata proclamata il 19 settembre 2015. 

Pio Alberto Del Corona adottò uno stemma ricco di forte simbolismo reli- 
gioso e nel contempo ricco di molte figure araldiche, tipico dell’epoca. L'arma 
del presule fu: di rosso, al giglio fiorentino d'argento, sormontato da una fascia rial- 
zata, arcuata e rigonfia verso il basso dello stesso, attraversata da una corona chiusa 
cimata da una croce greca patente e biforcata, il tutto d'oro e pendente da una catena 
dello stesso movente dal capo, fiancato di rosso al leone al naturale, quello di destra 
rivolto; (capo vu... al capo attraversante di “bianco”, al cane rivolto, coricato 
in punta, tenente 46 le zampe anteriori un globo terracqueo, bailonato di una torcia 
accesa, il tutto al naturale, sormontato da una corona all'antica d’oro infilzata da 
un ramo di giglio di giardino fiorito e da un altro di palma, entrambi al naturale e 
decussati, e risormontati da una stella di otto raggi d'oro, il tutto attraversante su un 
cappato ricurvo di nero. Il tutto timbrato dalla croce astile o processionale e dal 
galero verde con sei nappe dello stesso, per lato e disposte; 1, 2, 3, segno distin- 
tivo di vescovo. Nella riproduzione allegata (Fig. 6) è stato invece riprodotta con 
ornamenti esterni arcivescovili. 

Il fondo di color rosso, indica l'amor di Dio, il giglio bianco centrale rap- 
presenta la giustizia e probabilmente anche Firenze, la città dove il Monsignore 
iniziò la vita religiosa e il ministero sacerdotale. I due leoni simboleggiano la for- 
tezza e la generosità, le due lance da essi tenute simboleggiano l’onore e infine il 
rosario da cui pende la croce greca rappresenta la devozione. Uno stemma carico 
di simbologia cristiana. 


378 


Curiosità araldiche della Diocesi di San Miniato 


Fonti archivistiche: 


ACSM - Libro d'Oro 

ADSM -Acta Beneficiaria fascicoli: 
296-299-300-303-304-306-307-309-314-317-320-321-322-324-325-326- 
327-330-331-332-333-334-335-336.340-341-342-343-344-345-350-352- 
355-356-357-358-359-371-372-373-380-381-389-390-393-395-396-397- 
398-399-400-402-404-405-406-407-408-410-411-412-416-420-421-422- 
425-430-431-440-442-443-444-445-449-450-460-461-464-465-466-467- 
468-469-470-471-472-473-474. 


Bibliografia 


Casini B., I “Libri d’Oro” della Nobiltà Fiorentina e Fiesolana, Firenze, Arnaud 
Ed., 1991. 


Corpero Lanza DI MonTEZEMOLO A., PompiLi A., Manuale di araldica eccle- 
siastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 
2014. 


Hem B.B., L’Araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Roma, Li- 
breria Editrice Vaticana, 1981. 


Lotti D., San Miniato nel Tempo, Pisa, Pacini Editore, 1981. 


DeL Corona Pro A., Pio Alberto Del Corona Vescovo di San Miniato dal 1897 al 
1906, Il Pastore Santo, Supplemento al n.37 di Toscana Oggi del 2012. 


SIMONCINI V. (a cura di), San Miniato e la sua Diocesi (I Vescovi, le istituzioni, la 
gente), Tirrenia, Ed. Del Cerro, 1989. 


379 


Michele Fiaschi 


Fig. 1: Stemma del Canonico Buonaparte, San Miniato, ingresso dell’Episcopio 


380 


Curiosità araldiche della Diocesi di San Miniato 


Fig. 2: Stemma della famiglia Buonaparte (Archivio Storico del Comune di San Miniato, Libro d’oro) 


381 


Michele Fiaschi 


Fig. 3: Stemma Buonaparte, San Miniato, Cattedrale dei SS. Maria e Genesio 


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Curiosità araldiche della Diocesi di San Miniato 


Fig. 5: Stemma mons. Fazzi (disegno di Rosaria De Blasio) 


383 


Michele Fiaschi 


Fig. 6: Stemma Beato Pio Alberto del Corona (disegno di Rosaria De Blasio) 


384 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa 
di Montebuono presso Pistoia 


FEDERICO CECCANTI 


Appena entrati il Sig[no]r Napoleone colla d[etta] Maria Marraccini, dopo averci reveriti 
tutti, disse il Sig[nor] Napoleone, che profittando di quello che li permetteva il Concilio di 
Trento segnatamente a me rivolgendosi come Par[ro]co sposava la Maria Marraccini, e che 
intendeva nell’atto di sposarla, servendosi di q[ues]te precise parole: jo prendo p[er] Sposa 
La Maria Marraccini che eccola qui presente, ed Ella replicò, che prendeva p[er] Sposo il 
Sig[nor]e Napoleone Franceschi, ripetendo il Signor] Napoleone che jo ero il Paroco, e gli 
altri Testimoni}. 


Questo episodio, che si configura come un matrimonio a sorpresa che evo- 
ca quello manzoniano di Renzo e Lucia, era avvenuto sul fare della notte il 12 
agosto 1825: ma dove? Chi erano i protagonisti, a rifarsi dal signor Napoleone e 
dalla Maria Marraccini? Chi era il parroco che riferiva questo fatto e chi erano i 
testimoni? 


! Archivio Vescovile di Pistoia (d’ora in poi AVPt), III, R, 75, 11, Processo per la validità del ma- 
trimonio clandestino tra Giuseppe Napoleone De Franceschi e Maria Marraccini (1825-1826), “Comparve 
citato in questa Curia [...]” 20 VII 1825, G.B. Allegri. Questo passo e i moltissimi altri che saranno 
citati, tratti dai numerosi documenti dell’appena ricordato “Processo /...7°, sono raccolti senza ordine né 
inventario in una cartella che porta tale intestazione. Detti documenti sono costituiti prevalentemente da 
pochi fogli, talora uno solo, e soltanto in qualche caso da fascicoli, peraltro non troppo corposi, privi altresì 
di qualsivoglia numerazione delle pagine. Al fine di una loro individuazione si è provveduto a nominazli, 
quando c'è, con il titolo, scritto in corsivo, quando manca invece con le prime cinque o sei parole, qualsi- 
asi esse siano, tra virgolette, in entrambi i casi seguite dalla data del documento, con il giorno e l’anno in 
numeri arabi e il mese in numero romano, nonché, del nome del firmatario o, se più di uno, del primo di 
essi. Nel caso dei documenti più corposi in cui le date e i firmatari sono più di uno, al titolo o all’incipit 
che rimangono sempre gli stessi, si è aggiunta la data e la firma relative alla parte a cui appartiene il passo 
nella circostanza citato. Per quanto riguarda la trascrizione dei testi, essa è stata fatta in maniera puntuale e 
rigorosa, mantenendo le maiuscole anche nei casi in cui oggi non si userebbero, a meno di quelli di alcune 
lettere, segnatamente, nell’ordine della loro frequenza, la s, la |, la c e la f che talora sono indistinguibili 
dalle minuscole: in tali circostanze si sono interpretate e trascritte con ovvio criterio soggettivo, cercando 
tuttavia di aderire per quanto possibile alla forma che solitamente veniva usata al tempo della compilazione 
dei testi medesimi. Per non appesantire questi ultimi sono stati mantenuti senza segnalazioni i termini 
scritti in maniera desueta e anche, in taluni casi, oggi errata, ma al tempo usata. Per speditezza di lettura 
e per conferire uniformità al testo sono state integrate mediante aggiunte fra parentesi quadre tutte le ab- 
breviazioni, in particolare quelle dei termini “signore” e “signora” e dei loro plurali, i quali, per comparire 
in moltissime forme, generano una fastidiosa sensazione di disordine. Sono state, infine, eliminate le quasi 
sempre presenti inutili sottolineature dei numeri indicanti date e, con esse, il punto che agli stessi fa seguito 
e sono stati attualizzati alcuni termini di interpunzione oggi non in uso, quali, ad esempio, i due punti “:” 


impiegati in luogo di quello singolo “” o “=” in luogo degli appena detti due punti “:” o altro. 


«9 


385 


Federico Ceccanti 


Il luogo, innanzitutto, era la villa pistoiese di Montebuono, posta nei pressi 
della località di Barile, poco discosta, verso sud, dalla via per Lucca e il “Sig[nor] 
e Napoleone Franceschi” uno dei figli del defunto generale napoleonico Giovan 
Battista Franceschi, come l'Imperatore, del quale era più vecchio di circa tre anni 
per essere nato nel 1766 a Bastia, corso di nascita, morto il 19 marzo 1813 a 
Danzica, dove i superstiti della infausta spedizione russa erano asserragliati. 

La villa di Montebuono, a dispetto del nome posta in luogo perfettamente 
pianeggiante tra il colle di Giaccherino e le propaggini ultime del Montalbano ai 
piedi del luogo denominato Collina di Vinacciano, era stata costruita sul finire 
del Seicento da Francesco Panciatichi?, esponente del ramo pistoiese di quella 
famiglia che non si era trasferito a Firenze su “invito” di Cosimo I al fine di con- 
tribuire alla definitiva cessazione di quella sorta di guerra civile che vedeva sul 
fronte opposto la famiglia Cancellieri e che aveva insanguinato per anni Pistoia e 
l'aveva fortemente impoverita. 

Percorsa una luminosa carriera e divenuto primo segretario di Stato?, France- 
sco Panciatichi, forse anche per possedere una dimora di campagna consona alla 
posizione sociale che tale carica gli conferiva, nella ricordata località, nella quale i 
suoi antenati avevano delle proprietà fino dal XIV secolo e dove pare esistesse un 
edificio fortificato, eresse, molto probabilmente utilizzando anche quest'ultimo, 
o comunque una preesistenza, una villa”. La grandiosa fabbrica, di tre piani fuori 
terra e a pianta semplicemente rettangolare, si caratterizzò fin dall’inizio da una 
scala esterna a due rampe, sul lato settentrionale, il cui ripiano dà accesso diretto 
al salone centrale posto sull’asse della stessa, aperto sull’altro lato su una loggia 
che si affaccia sul posteriore giardino murato e, oltre questo, sul breve tratto 
pianeggiante che la separa dalle ricordate pendici del Montalbano. Il semplice 
blocco fin qui descritto nella parte centrale, in corrispondenza del salone e della 
loggia, si eleva però, in conseguenza dell’altezza maggiore del primo rispetto ai 
locali adiacenti, sopra la restante parte, movimentando in tal modo il profilo 
dell’insieme: nel complesso, quindi, una struttura semplice, ma non banale, forte 
e severa, dove tuttavia questo carattere dalla parte del giardino è decisamente 
attenuato dalla presenza della loggetta che conferisce ad essa addirittura un tono 
di agreste serenità. 

Ai Panciatichi la villa appartenne fino al 1811. L'ultima, Tommasa, aveva spo- 
sato il nobile Giulio Giuseppe Amati, proprietario del grandioso palazzo citta- 
dino nei pressi del convento di San Domenico e della villa, un tempo medicea, 
della Magia vicino a Quarrata. Interessi economici avevano incrinato i rapporti 
tra i due: l’Amati pretendeva di poter disporre dei beni della moglie, la quale a 


2 


2 Cfr. Arrighi 2014, p. 690, dove a proposito di Francesco è detto: “Solo con il padre 
di Giovanni, Francesco, titolare di importanti incarichi presso la corte granducale (fu segretario del 
cardinale Giovan Carlo e poi primo segretario di Stato, segretario di guerra, gran cancelliere dell'Ordine 
di S. Stefano, senatore dal 1680 e accademico della Crusca) avvenne il trasferimento definitivo nella 
capitale. 

Francesco morì il 13 giugno 1696, destinando la maggior parte della sua eredità al figlio primoge- 
nito Iacopo Andrea, che fu sovrintendente alle poste del Granducato dal 1688 e anche l’unico a sposarsi 
e a continuare la famiglia”. 

3. Cfr. la nota precedente. 


4 Cfr. in proposito Gennari & Gesualdo 2004, pp. 157-160. 


386 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


tale pretesa si era decisamente opposta. La causa civile che ne era derivata si era 
conclusa a favore della donna, la quale, potendo a quel punto disporre liberamen- 
te delle sue proprietà, decise di cederle, pur mantenendo l’uso di parte di esse, 
al ricordato generale Franceschi. Si trattava della villa descritta e dei numerosi 
poderi che al essa facevano capo, l’altra casa di campagna di Poggio alla Guardia, 
corredata anch'essa da altri poderi, sulla collina oltre Serravalle, il palazzo di città, 
nella piazza dello Spirito Santo, e, oltre ad un podere, alcuni non meglio preci- 
sati beni a Pisa, probabilmente una casa’. Tommasa si riservò l’uso, vita natural 
durante, del palazzo cittadino come propria abitazione® e anche della porzione 
occidentale della villa di Montebuono, a cui avrebbe potuto accedere realizzando 
a sue spese una apposita scala”. 

Con l’annessione, nel 1807-1808, all'Impero francese, la Toscana fu, come 
risaputo, divisa nei tre dipartimenti dell’Arno, dell’Ombrone e del Mediterraneo, 
del quale ultimo il Franceschi fu nominato comandante e per tale suo ufficio co- 
stretto a risiedere nella città di Livorno, di tal dipartimento capoluogo. 

L’ormai lunga carriera militare aveva evidentemente consentito fi generale di 
mettere insieme una certa fortuna economica: fatto questo testimoniato dal titolo 
di Barone dell’Impero conferitogli da Napoleone. 

Aveva egli, quindi, deciso di investire la sua fortuna in questo bel possesso, 
determinato probabilmente ad andarci, ma evidentemente non subito, a vivere 
con la famiglia. 

Egli aveva sposato nel 1798 a Genova Maria Clorinda Guasco, anch'essa di 
famiglia corsa”, dalla quale avrebbe avuto cinque figli, una femmina, “Giulia, 
che andò in sposa al marchese francese Ippolito Doni de Beauchamp”?, e quattro 
maschi. Le date di nascita di tutti costoro sono molto incerte e a poco servono 


°. Tutti i beni sono singolarmente e minutamente descritti nell’atto di compravendita redatto 
Pistoia il 5 ottobre 1811, a meno di questi ultimi, a proposito dei quali è detto semplicemente: “com- 
presi ancora i Beni posti nel Circondario di Pisa, Dipartimento del Mediterraneo, tra i quali anche il 
Podere della Panzana che Ella acquistò con titolo di Compra dal fù Signore Avvocato Vincenzo Desiderj 
(Archivio di Stato di Firenze [d'ora in poi ASFi]), Notarile moderno, Protocolli, 29379, 1811, Notaio 
Giovanni Domenico Angiolucci, C, n. 93, 5 ottobre 1811, cc. 3r e v). Riguardo alla eventuale casa, si 
può ragionevolmente pensare che, come altre famiglie nobili pistoiesi, anche i Panciatichi ne possedes- 
sero una dove avrebbero potuto risiedere i giovani rampolli in occasione del soggiorno di formazione 
per l'ottenimento del cavalierato di Santo Stefano o di quello per l'effettuazione degli studi universitari. 

2 Cfr. ivi, c. 37r, dove in proposito è precisamente scritto: “La Signora Tommasa Venditrice 
coll’annuenza, e consenso di detto Signore Compratore si riserva per sua vita natural durante l'Uso, ed 
abitazione gratuita della Casa di Pistoja, della Rimessa, Scuderia e Stalla, di una porzione della Cantina 
per deporvi tanta quantità di Vino per il suo Consumo, e del suo Servizio”. 

7. Cfr.ivi,c. 37, dovesilegge esattamente: “ed oltre sia riservato, conforme si riservò, e riserva detta 
Signora Tommasa Venditrice per sua vita durante, con annuenza parimente, e consenso di detto Signore 
Generale l’uso, ed abitazione gratuita di una porzione della Villa di Montebuono dalla parte di Ponente a 
cui sia permesso di farvi a proprie spese una Scala di Legno per accedere al primo piano, che incanali nella 
Scala di Pietra che porta al secondo Piano, senza che detta Signora Tommasa sia tenuta al pagamento di 
alcun affitto, né pigione”. 

i Cfr. De Franceschi, SIUSA, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivisti- 
che: https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl’ TipoPag=prodfamiglia&Chiave=28212&Ri 
cDimF=2&RicProgetto=reg-tos. 

° Ibidem. 


387 


Federico Ceccanti 


in proposito tanto l'albero genealogico riportato in un volumetto su Carlo Giu- 
seppe de Franceschi, bisnipote del generale!’, e con tutta probabilità ripreso da 
uno spesso citato, ma non facilmente reperibile, lavoro bh famiglia della figlia 
dell’appena detto Carlo Giuseppe!', che i dati ricavabili dagli stati delle anime 
relativi alla famiglia del secondo decennio dell'Ottocento, essendo in molti casi 
decisamente inattendibili, a rifarsi, in particolare, proprio da Maria Clorinda: 
secondo quello della parrocchia di San Pantaleo del 1813, ella aveva allora ven- 
totto anni", discendendo da ciò che fosse nata nel 1785 e che, alla luce della poco 
sopra riportata data del suo matrimonio, in tale circostanza ella fosse tredicenne 
e la stessa cosa si rileva nelle occasioni delle sue residenze in due altre parrocchie 
della città di Pistoia, quando in un caso di anni ne avrebbe avuti quattordici e 
nell'altro nientemeno che dodici'5. Riguardo ai figli, da tali conteggi la femmina 
che nell'albero genealogico, senza che ne sia indicata la data di nascita, è segnata 
come primogenita risulterebbe nata in un caso nel 1800, in un altro nel 1801, 
nel terzo nel 1802!“, sovrapponendosi queste date a quelle relative al primo dei 
maschi, Eugenio Luciano, che sarebbe nato nell’anno 1800 o nel successivo!. 
Riguardo agli altri tre, solo di Napoleone Giuseppe, il protagonista della vicenda 
di cui si sta riferendo, sulla base di un altro dato di cui si dirà meglio più avanti, 
della nascita, che ebbe luogo ad Aquisgrana nel gennaio del 1804'°, se ne cono- 
scono precisamente gli estremi; e mentre il quarto Giulio Felice, sarebbe morto 
prematuramente! l’ultimo, Vincenzo Eugenio, di nuovo basandosi sui dati degli 
stati delle anime, sarebbe nato, probabilmente a Livorno, poco prima che da 
parte del generale fosse effettuato l'acquisto del possedimento dei Panciatichi!5. 
L’atto di compravendita era stato stilato “L'Anno mille ottoCentoundici, il 
giorno cinque del Mese di Ottobre, Giorno di Sabato, a ore dieci di notte”!? e 


1010 barone Carlo de Franceschi s.d., p 6. 

4! de Franceschi Bocchi Bianchi 1974. 

1? Cfr. AVPt, Duplicati, San Pantaleo 110, Duplicato dello Stato dell’Anime della Chlies]a di S. 
Pantaleo, fatto da me infrascritto qlues]to dì 5 Ap[ri]le 1813 in occasione di dare L'Acqua S[ant]a alle Case, 
carte non numerate (d’ora in poi cc.n.nn.), senza numero (d’ora in poi s.n.) fra 39 e 40. 

15. Cfr. per il primo dei due casi gli stati delle anime di cui alle note 37, 39 e 43 e per l’altro quelli 
di cui alla nota 47. 

14. Per il primo caso cf. lo stato delle anime di cui alla nota 43, per il secondo quello alla nota 39 
e per il terzo quello alla 47. 

!5 In De Franceschi, SIUSA, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche: 
https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=prodfamiglia&Chiave=28212&RicDi 
mF=2&RicProgetto=reg-tos è chiamato erroneamente Luciano Giuseppe. Per quanto riguarda l’età, cfr. 
la nota 154; nel ricordato albero genealogico (cfr. il testo di cui alla nota 10 ) non è segnata alcuna data 
di nascita. 

16 Cfîr. le citazioni di cui alle note 105 e 107 e quanto detto alla 106. Secondo l’albero genealogico 
di cui alla nota 10 sarebbe invece nato nel 1805. 

7 Cfr. De Franceschi, SIUSA, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche: 
https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi 

bin/pagina.pl?TipoPag=prodfamiglia&Chiave=28212&RicDimF=2&RicProgetto=reg-tos 

18. Cfr. il testo di cui alla nota 34, dove appunto l'età del bambino all’inizio della primavera del 
1813 è indicata in un anno e sette mesi. 

9 ASFi, Notarile Moderno, Protocolli, 29379, 1811, Notaio Giovanni Domenico Angiolucci, C, 
n. 93, 5 ottobre 1811, c. lr. 


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12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


non, come è stato anche scritto “alle dieci di sera”?°, lasciando supporre che con 
quella dicitura il notaio, per quanto per legge fosse stato abolito già a metà Set- 
tecento e a maggior ragione non fosse più legale in quei giorni di appartenenza 
della Toscana Atapao francese, avesse indicato l’ora secondo l’antico e ancora 
vivo nell'uso comune sistema di conteggio delle ore all’italiana, per cui quelle “ore 
dieci di notte” corrispondevano, in quei giorni di inizio ottobre, pressappoco alle 
attuali cinque antimeridiane?!, facendo Li tale scelta dal fatto che la lettura 
dell’atto, di ottantaquattro pagine, avrebbe richiesto un tempo assai lungo, an- 
dando quindi avanti nella giornata del sabato??. 

In ogni modo, l’intenzione del generale Franceschi di andare a vivere a Mon- 
tebuono in un momento successivo è attestata dal fatto che poco dopo l’acquisto, 
all’inizio del 1812, egli aveva ceduto, per nove consecutive annate agrarie la ge- 
stione dei poderi ad altre persone, il mire di Montaione Francesco Chiarenti e 
l’aerimensore Gaetano Collodi, cedendo loro in uso anche diversi ambienti della 
villa‘; per il momento il suo ricordato ufficio di capo del dipartimento del Medi- 
terraneo ne richiedeva logicamente la presenza costante nel capolugo dello stesso 
ed è pertanto sorprendente questa affermazione fatta da uno storico pistoiese 
senza alcun supporto documentale: 


Nonostante il suo importante incarico, che aveva la sede ufficiale in Livorno, il generale 
preferì stabilirsi a Pistoia nella grande villa di Montebono, vicina alla città, che aveva acquista- 
to nell’ottobre del 1811 da Tommasa, ultima erede della famiglia pistoiese dei Panciatichi?”, 


quando invece lo stato delle anime dell’anno 1812 redatto dal parroco di San 
Pantaleo all'Ombrone della cui giurisdizione la villa faceva parte, nel mese di mar- 
zo, precisamente il giorno 16, di quell’anno la indica disabitata’. A ciò fanno se- 

ito le fantasiose, romanzate descrizioni della sua partenza da Montebuono tra cui 
quella dello stesso storico così formulata: 


Una carrozza era giunta a Montebono per condurre Jean Baptiste a Livorno; da quel 
porto una nave lo avrebbe portato a Tolone insieme agli altri richiamati che si trovavano nella 


20. Andreini Galli 1989, p. 149. 

2! Quello italiano usato per diversi secoli a partire dal medioevo era un sistema di misurazione del 
giorno secondo il quale questo aveva inizio mezz'ora dopo il tramonto ed era annunciato dalle campane 
con il suono dell'Ave Maria della sera; esso variava pertanto continuamente nel corso dell’anno e co- 
munque le prime ore della nuova giornata erano quelle notturne. Tale sistema, in un mondo in cui le ore 
erano indicate alla generalità delle persone, le quali non possedevano personali strumenti di misurazione 
del tempo, dai rintocchi delle appena dette campane consentiva ad esse, sottraendo a ventiquattro il 
numero dei rintocchi appena sentiti, di conoscere di quante ore potevano ancora disporre per compiere 
l’attività in cui erano impegnati. 

22 Infatti, se invece quelle “ore dieci di notte” avessero indicato due ore prima della mezzanotte, 
essendo sabato, il notaio e gli altri partecipanti a quell’operazione sarebbero stati impegnati in ore not- 
turne e, almeno in parte, in giorno festivo. 

23. Per queste ed altre notizie sulla vicenda cfr. Gennari & Gesualdo 2004, p. 162. 

2 Notizie sul generale napoleonico Jean Baptiste Franceschi (Bastia 1766-Danzica 1813) 2011, p. 209. 

25. Cfr. AVPt, Duplicati, San Pantaleo 110, Duplicato dello Stato dell’Anime della Chlies]a di S. 
Pantaleo fatto da me inffrascrit]to qlues]to dì 16 Marzo 1812 in occasione di dare L'Acqua S[ant]a alle 
Case, cc.n.nn., s.n. fra 39 e 40, dove precisamente è detto: “Villa del sud[dett]o [Generale Franceschi] 
Vuota”. 


389 


Federico Ceccanti 


Toscana. La moglie, dopo aver abbracciato il generale, era poi rimasta ferma sulla porta della 
villa mentre la carrozza si avviava lungo il viale alberato che allora collegava Montebono al 
piccolo borgo di Barile, sulla strada Lucchese; ad un certo punto aveva visto spuntare dallo 
sportello laterale la mano del marito che agitava un fazzoletto in segno di saluto”, 


dopo la quale, subito di seguito, è precisato: 


Fu quella l’ultima immagine del generale, perché dopo, per anni, non se ne seppe più 
niente. 

Solo nel 1815 fu possibile rintracciare alcuni veterani della Grande Armée, che dettero 
notizie del generale e della sua morte”. 


Se senza dubbio ciò dovette effettivamente avvenire?*, la notizia della mor- 
te occorsa, come si è già visto, a Danzica il 19 marzo 1813”, era già giunta a 
Montebuono meno di quattro mesi più tardi, dal momento che sotto la data del 
successivo 19 luglio il parroco di San Pantaleo ebbe ad annotarne nel libro dei 
morti, con procedura anomala segnando a margine della registrazione la parola 
”Ricordo”?, la dipartita nei termini che seguono: 


A di 19 Luglli]o mille otto cento tredici 

Sua Eccellenza Generale Giam Blattis]ta Franceschi di questo Popolo, passò agl’eterni 
riposi il di 19 Marzo dell’anno sud[dett]o nella Città di Danzica, come mi viene riferito da 
Madama M[ari]a Clorinda sua Consorte; ed in fede P[adre] Valentino Giovannelli Economo 
Mfan]o p[ropri]a?!. 


26 


Notizie sul generale napoleonico Jean Baptiste Franceschi (Bastia 1766-Danzica 1813) (2011), 
pp. 210-211. Una seconda descrizione, in Andreini Galli 1989, p. 150: “Da Montebuono partì in 
carrozza nella primavera del 1812, sventolando il fazzoletto dal finestrino. In alta uniforme, il colletto 
in piedi, le falde della giacca rigide come fossero di latta, dietro di lui già si profilava un altro mondo: il 
tintinnio delle spade e degli speroni, i discorsi, gli ordini dati e ricevuti in francese, schiere di fanti e di 
cavalli e battaglioni coi volti impietriti, che sfilavano al passo” non si discosta troppo dalla precedente, 
a differenza di una terza in // barone Carlo de Franceschi s.d., p. 4 che recita: “Anche la mattina della sua 
partenza era una bella giornata di primavera e il profumo dei limoni invadeva il viale ma il generale, 
dicono, aveva un brutto presentimento e, già pronto, in alta uniforme, già in sella al suo cavallo, tornò 
tre volte indietro per abbracciare sua moglie e i bambini; i suoi occhi corsero lungo il viale d’ingresso 
e su, allo snello loggiato del salone del primo piano dove aveva voluto che fosse dipinto lo stemma dei 
de Franceschi, scudo beccato bianco rosso e giallo con fascia nera, insignito della Croce di S. Stefano” 
subito dopo aver affermato, omettendo qualsivoglia riferimento documentale ed evidentemente non 
rilevando la contraddizione temporale, che “Nel 1812, il 15 settembre, a Montebuono, prima di partire 
per la disastrosa campagna di Russia, Giovanni Battista stese il suo testamento nel quale lasciava erede 
dei suoi beni la moglie Clorinda” (ibidem). 

7. Notiziesul generale napoleonico Jean Baptiste Franceschi (Bastia 1766-Danzica 1813) 2011, p.211. 

28 Inivi, p. 212, facendosi la seguente premessa: “Atto di notorietà del 1815 marzo 20, redatto 
dal notaro Pietro Leopoldo Gaggioli di Pistoia. Un estratto, in copia semplice, era conservato nell’Ar- 
chivio di Montebono (oggi disperso), nel fascicolo Carte di Montebono”, è trascritta la dichiarazione dei 
militari. 

2°. Sembra che anche il generale Franceschi, come numerosi altri in quell’assedio, fosse morto per 
aver contratto l’infezione di tifo che si era diffusa tra le truppe. 

30. Archivio Diocesano di Pistoia, (d’ora in poi ADPt), Parrocchia di San Pantaleo, XXVII, Regi- 
stri dei morti, 34, 1726-1808, p. 47, n. 176, 19 VII 1813. 

3 Ibidem. 


390 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


Questa segnalazione al parroco da parte della Guasco aveva avuto luogo per 
essersi ella e la famiglia, quando ormai dovevano essere giunte anche in Toscana 
le prime notizie della rovinosa ritirata da Mosca ed essere la situazione politica 
assai incerta, trasferite a Montebuono, come attesta lo stato delle anime della 
parrocchia di San Pantaleo dell’anno 1813. 

Datato dal parroco 5 aprile, in esso sono da lui elencati i componenti del 
nucleo familiare a partire da “Sua Eccellenza Sig[nor]e Giam Blattis]ta del fù 
Giusep[p]e Franceschi” del quale tuttavia, aggiungendo subito di seguito: “è 
all’armata””, segnalava l'assenza da casa, da Maria Clorinda, da due soli figli, 
Napoleone Giuseppe lì correttamente indicato di nove anni di età ed Eugenio, la 
cui nascita, essendo lì indicato avere un anno e sette mesi, doveva appunto essere 
avvenuta poco prima dell’acquisto della villa, dai genitori Giovanni Battista Gua- 
sco e Angiola, o Angela, Caterina Biadelli e da tre servi**. Quel 5 aprile, tuttavia, 
e il parroco non poteva esserne a conoscenza, “Sua Eccellenza Sig[nor]e Giam 
Blattis]ta del fù Giusep[p]e Franceschi” era morto da oltre due settimane. 

È evidente che a quel punto, mancato il generale, anche se la allora, per i Fran- 
cesi, pessima situazione politica e militare avesse preso per gli stessi una nuova 
e positiva piega, la vedova e parenti non avevano motivo di tornare a Livorno. 
Ma che anche il soggiorno a Montebuono nella situazione determinatasi con la 
presenza di altre persone derivante dal precedentemente ricordato accordo non 
potesse esser che temporaneo lo attesta il fatto che in occasione della benedizione 
delle case dell'anno 1814 Maria Clorinda, i genitori e due soli dei figli maschi, 
Napoleone Giuseppe e Vincenzo Eugenio, non potendo andare a vivere nel loro 
palazzo cittadino ti piazza dello Spirito Santo, dove abitava Tommasa Panciati- 
chi che, lo si era già visto, se ne era riservato l’uso esclusivo” vivendoci fino alla 
morte avvenuta il 19 febbraio 18225, avevano preso alloggio a Pistoia, nella par- 
rocchia di San Giovanni Fuorcivitas, e precisamente nella “Casa de [...] S[ignor] 
i Franchini” posta nel Corso, al numero civico 112855, dove, questa volta anche 


3. AVPt, Duplicati, San Pantaleo 110, Duplicato dello Stato dell’Anime della Chlies]a di S. Pan- 
taleo, fatto da me infrascritto qlues]to dì 5 Apl[ri]le 1813. in occasione di dare L'Acqua S[ant]a alle Case, 
cc.n.nn., s.n. fra 39 e 40. 

3 Ibidem. 

3%. Cfr. ibidem. 

Cfr. ASFi, Notarile moderno, Protocolli, 29379, 1811, Notaio Giovanni Domenico Angio- 
lucci, C, n. 93, 5 ottobre 1811, c. 371, dove è detto: “La Signora Tommasa Venditrice coll’annuenza, e 
consenso di detto Signor Compratore si riserva l'Uso, ed abitazione gratuita della Casa di Pistoja”. 

3. ADPt, Parrocchia dello Spirito Santo, CKXXIII, Registri dei morti, 9, 1808-1840, p. 90, n. 
294, 19 II 1822. 

#7. ADPt, Parrocchia di S. Giovanni Fuorcivitas, XIII, Stati delle anime, 29, 1811-1818, p. 167, 
1814, n. 58. 

38. Ibidem. Il numero civico consente di individuare esattamente in quale punto di quella lunghis- 
sima strada la casa si trovasse: infatti nella sua Guida [...] Giuseppe Tigri quel numero, pur facendolo 
corrispondere al “Palazzo Agati” (Tigri 1853, p. 284), quello della famiglia dei celebri costruttori di 
organi che lì avevano anche la fabbrica (cfr. ibidem), lo indica in maniera inequivoca all’incrocio del 
detto Corso con la via di Postierla, l’attuale via Cino e con il dirlo “eretto nel 1844 sulle antiche case de’ 
Franchini-Tavianî (ibidem) conferma che esso fosse l’edificio in cui i de Franceschi presero alloggio. Il pa- 
lazzo fu, su progetto dell’architetto Raffaello Brizzi, radicalmente trasformato verso la metà degli anni 
Trenta del secolo successivo per adibirlo a sede del Consiglio Provinciale dell'Economia Corporativa. 


391 


Federico Ceccanti 


con la figlia Giulia, che non si sa dove fosse stata l’anno precedente, ma ancora 
sempre senza Luciano, sarebbero stati presenti anche un anno più tardi”. Non 
si sa con esattezza dove ella e la famiglia risiedessero l’anno ancora seguente: in 
quella casa infatti non vi era più nella primavera del 1816‘, anche se, come si 
vedrà più avanti da una dichiarazione del figlio Napoleone, egli aveva trascorso 
con la madre una parte di quell’anno sempre a Pistoia e una parte a Firenze"!, 
dove in effetti costei, nel settembre, come risulta da un certificato del Buon Go- 
verno, aveva affittato una casa per quattro mesi”. Nel 1817 la famiglia era però 
ritornata a Pistoia: alla fine di marzo di quell’anno è infatti registrata ancora nella 
parrocchia di San Giovanni Fuorcivitas, questa volta nella “Casa del Sig[no]re 
Bacci”* posta anch'essa nel Corso di fronte a quella dei “S[ignor]i Franchini”, ma 
senza il padre di lei Gian Battista Guasco e nessuno dei figli più grandi‘ Eugenio 
Luciano e Napoleone Giuseppe, il primo dei quali vi si trovava già nel precedente 
18165, risultano registrati in tale anno entrambi tra gli alunni del Collegio e 
Seminario vescovile di Pistoia‘. 

Nel 1818 e nel 1819, poi, questi stessi componenti della famiglia Franceschi, e 
cioè la baronessa Maria Clorinda, sua madre, la figlia ed il più piccolo dei maschi, si 
trasferirono in casa dei Gamberai, adiacente al palazzo di San Gregorio che apparte- 
neva ai Puccini, in via di porta Lucchese”. In detti anni i due maschi più grandi erano 
ancora registrati come collegiali nel Seminario di Pistoia e Napoleone vi risulta pre- 
sente .. nella primavera del 1820*, quando, molto probabilmente, Maria Clo- 
rinda si era risposata, o comunque stava per risposarsi, con il nobile fiorentino Filippo 
Corboli Scalandroni ed era andata a vivere nella casa di lui quest'ultimo a Firenze. 

Tornando alla serata del 12 agosto 1825 e all’interrogatorio fatto al parroco 
otto giorni dopo quello in cui aveva avuto luogo l’episodio di cui egli riferiva con 
quella sua ca riportata all’inizio, subito dopo la data: “Adì 20 Agosto 
1825799, l'incipit 


9. Cfr. ADPt, Parrocchia di S. Giovanni Fuorcivitas, XIII, Stati delle anime, 29, 1811-1818, pp. 
219-220, 1815, n. 58. 

40° Cfr. Ivi, p. 278, 1816, n. 58, dove è annotato: “N. 58 - 1128 Casa de sud[dett]i Signori [Fran- 
chini]: Non è abitata”. 

4 Cfr. la citazione di cui alla nota 110. 

#2 Cfr. AVPr, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Certificasi che dai 
riscontri fatti [...]”, 20 XII 1825, G. Lami?. 

4... ADPt, Parrocchia di S. Giovanni Fuorcivitas, XIII, Stati delle anime, 29, 1811-1818, p. 368, 
1817, n. 162. 

4 Cfr. ibidem. 

4... Cfr. ADPr, Parrocchia di San Vitale, CVIII, Stati delle anime, 46, 1816-1829, cc.n.nn., 1816, 
n. 216. 

4 Cfr. Ivi, cc.n.nn., 1817, n. 216. 

4 Cfr. rispettivamente ADPr, Parrocchia di San Vitale, CVIII, Stati delle anime, 46, 1816-1829, 
cc.n.nn., 1818, n. 11 e ivi, cc.n.nn., 1819, n. 13. Quella dei Gamberai era una famiglia di noti capi- 
mastri, dalla quale sarebbero usciti altrettanto noti ingegneri, mentre il palazzo di San Gregorio, che 
apparteneva ai Puccini, sarebbe stato divenuto, in virtù del lascito testamentario dell’ultimo di questa 
famiglia, il celebre Niccolò, la nuova sede dell’Orfanotrofio di Pistoia. 

48 Cfr., nell’ordine relativamente ai detti tre anni, ivi, cc.n.nn., 1818, n. 199, ivi, cc.n.nn., 1819, 
n. 205 e ivi, cc.n.nn., 1820, n. 219. 

5 AVPt, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 


392 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


Comparve citato in questa Curia Vesc[ovi]le, ed avanti all’I{Ilustrissi]mo R[everendissi] 
mo Sig[nor]e Vic[arilo Genfera]le, assistito dai Sig[no]ri Consultori Re[everendissi]mo 
Sig[norJe Can[oni]co Arcip[re]te Angiolo Cecconi, ed Ecclellentissi]lmo Sig[nor] Dott[or] 
Bartolomeo Venturi Priore della Ch[ies]a dello Spirito S[ant]o di Pistoja? 


dà conto, precisando che il primo dei tre personaggi indicato solo con la carica 
e di cui si dirà più avanti, si chiamava Sebastiano Maggi, da parte di chi fosse 
condotto l° appena ueorlao i. fatto, come è ia a immediata- 
mente dopo, al “Molto Rev[eren]d nor] Don Gio[vanni] Batt[ ist] ]a Allegr 
Paroco della Ch[ies]a di S. Lui Ln Diocesi Pistojese”?!, il i. 
nella risposta ad una successiva domanda in cui riferiva della qualifica appena 
detta precisava “Io hò 41 Anno incirca”’?. Richiesto immediatamente dopo . 
conoscesse “il Sig[nor] Gius[eppe] Napoleone Franceschi figlio d[e]l fù Sig[nor] 
General Gio [vari Bat[tis]ta?? e poi ancora da quanto tempo Lu. alla pri- 
ma domanda: 


lo conosco pier] che è mio Popoluno, domiciliato nella sua Villa di Monte Buono nel Cir- 
condario della mia Parrocchia”” e alla seconda “È molto tempo che jo lo conosco, ma poi dal 
1821 a qlues]ta parte ha dimorato continuamf[ente] nella mia Parrocchia, ed jo fin d’allora 
l'ho descritto nel Libro dello Stato dell’Anime”, 


come in effetti, a meno di quel primo anno 1821, si riscontra fino all'anno 
1826. È qui il caso di segnalare, notando che il parroco anteponeva a Napoleone 
il nome Giuseppe, che, come si vedrà nel prosieguo del racconto, le due forme, o 
anche i due nomi singolarmente, erano indifferentemente usati; per la precisione, 
come si riscontra in due documenti ufficiali ricordati in questo scritto, il Fran- 
ceschi di nomi ne aveva quattro, così lì nell'ordine segnati: “Napoleone-Carlo- 
Giuseppe-Maria”? 

Riprendendo l'interrogatorio del parroco, dopo avergli chiesto se il giovane 
Franceschi avesse soddisfatto il precetto pasquale, i tre passavano a #1 
se avesse conosciuto la ragazza, di loro definita “una certa Maria Figlia di Ang [iol] 
o Marraccini, che dicesi Diocesana Pesciatina”?7, in tal modo A notizia della 
paternità e, piuttosto genericamente, del luogo di provenienza, che era quella sera 
con lui. Così rispondendo: 


La conosco p[er]che nel 1823 o 1824 avendola trovata nella d[ett]a Villa d[ell 
Sig[nor]e Franceschi La descrissi nel Libro dello Stato d[e]ll’Anime e sodisfece al Precetto 
Pasquale, come pure quest Anno presente, ha sodisfatto al Precetto Pasquale, e dipoi glie- 


Curia [...]” 20 VII 1825, G.B. Allegri. 
50 Ibidem. 
5 Ibidem. 
> Ibidem. 
53. Ibidem. 
54 Ibidem. 
5 Ibidem. 


Cfr. il passo riportato alla nota 191; con questo nome nella sua interezza è indicato anche 
nell'altro documento di cui alla successiva nota 192. 

9. AVPr, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 
Curia [...]” 20 VII 1825, G.B. Allegri. 


393 


Federico Ceccanti 


ne feci un attestato p[er]che lo presentasse al Suo Par[roc]o di Montecatini, non essendo 
piu decritta allo Stato d[e]ll’Anime della mia Chl[ies]a giacche ove non ci faceva piu la 
sua dimora?8, 


forniva la notizia di una sua avvenuta residenza nella parrocchia di San Pan- 
taleo: cosa questa, come si vedrà dalle altre testimonianze, rispondente al vero, 
mentre non risulta invece la sua registrazione nello stato delle anime nella villa di 
Montebuono?; poi richiesto anche “d[e]ll’opinione d[e]l Popolo, circa la conver- 
sazione di d[ett]o Sig[nor]e Franceschi con d[ett]a Fanciulla” e aver dichiarato 
che essa “non era favorevolissima”, ancora rispondendo ad altra domanda, e cioè 
“Se durante la pratica di d[ett]a Fanciulla con il d[ett]o Sig[nor]e Franceschi, vi fù 
alcun tempo che Essa se ne allontanasse, e p[er] qual motivo”: 


Se ne allontanò, p[er] che nel Mese di Maggio, o di Giugno salvo, fù esiliata da q[ues] 
to Commissariato, p[er] Ordine d[e]l Tribunale; dopo pochi giorni d[e]l di Lei Esilio, tornò 
richiamata dalla Madre d[e]l Sig Giuseppe, e si trattenne in d[etta] Villa altri 8 o 10 giorni® 


egli indicava indirettamente a quale epoca, almeno, risalisse la relazione. 
Dopo alcune domande riguardanti la giovane protagonista, con il Franceschi, di 
uel matrimonio a sorpresa, o clandestino, come si è soliti chiamare un tal genere 
i evento, sulle quali si tornerà più avanti, veniva chiesto all’Allegri “Chi fosse 
presente a questo Congresso”; elencando egli nella sua risposta quattro persone, 
e cioè il curato della confinante parrocchia di San Piero in Vincio, Carlo Melani, 
due parrocchiani di quest'ultimo, e cioè Umiliano e Cesare Marini, padre e figlio, 
fornaciai, e il fattore di una vicina proprietà posta anch'essa nella parrocchia di San 
Pantaleo, Domenico Rossi, dava conto di coloro che del detto matrimonio erano 
stati i testimoni. Alla domanda fattagli subito di seguito riguardo al motivo di quel- 
la sua partecipazione egli, dopo aver risposto di essere stato mandato a chiamare da 
Carlo Capecchi suli del Franceschi, senza che questi, richiesto della cosa, gli 
avesse saputo dire la ragione della convocazione, facendo riferimento al padrone di 
casa, descriveva il suo arrivo alla villa in questi termini: 


Una Sua Serva mi disse che passassi in Sala, ove trovai Cesare Marini che p[er] altra porta 
entrava nella med[esim]a Sala, e di poi la med[esim]a Serva, cioè Dorotea Capecchi, disse 


8. Ibidem. 

Cfr. in proposito i fascicoli degli stati delle anime relativi a quegli anni in AVPt, Duplicati, San 
Pantaleo 110. 

6 AVP+, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 

Curia [...]”, 20 VIII 1825, G.B. Allegri. 

6 Ibidem. 

© Ibidem. 

6 Il secondo dei modi usati è da collegarsi a quel genere di matrimoni ai cui aspetti negativi, 
come si dirà più avanti (cfr. il testo di cui alle note 150 e 151), le disposizioni del Concilio di Trento 
invocate da Napoleone Giuseppe intendevano porre rimedio. Il primo, indicato anche durante il pro- 
cesso con alcune varianti nella preposizione, è riferito al fatto di non essere il parroco preventivamente 
avvisato dell’intenzione degli sposi. 

6 AVPt, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 
Curia [...]” 20 VII 1825, G.B. Allegri. 

6 Cfr. Ibidem. 


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12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


all’uno, ed all’altro che si passasse in altro Salotto contiguo alla Sala, ove trovai Umiliano 
Marini, e Domenico Rossi, e quasi nell'atto stesso sopraggiunse il Cur[at]o Melani”, 


senza che da queste sue parole potesse stabilirsi di quale delle tre sale affaccian- 
tisi sul salone si trattasse. 

Subito dopo, alla richiesta se il Franceschi si fosse presentato solo o con la 
ragazza, rispondeva con le parole con le quali si è iniziato questo racconto. E 
ulteriormente richiesto riguardo alle reazioni ad esse da parte sua e dei convenuti 
egli rispondeva ancora: 


Disapprovai con calore la sua condotta, e la sua maniera di procedere in tal fatto, gli 
feci dei rimproveri, che era un’'impulitezza essersi servito della mia presenza e di t[ut]ti 
gli altri p[er] fare un’Atto che era illecito, e di cui si sarebbe pentito, dissi di più, che la 
mattina veniente avrei fatto il rapporto al mio Superiore Ecc[el]l[entissi]mo, e che di più 
Esso avrebbe incontrato delle inquietudini presso il Governo, ma Esso non attendeva 
ragione, e che non faceva altro che profittare di quello che li concedeva il Concilio di 
Trento, presentandoci inclusive il Libro d[e]l Canonista Cantini, e t[ut]ti gli altri, disap- 
provarono l'Atto fatto”. 


Non risulta dai successivi interrogatori che la disapprovazione di “t[ut]ti gli 
altri” avesse conseguenza alcuna; egli dopo aver detto che si era ancora trattenuto 
un decina di minuti, dopo di che era rientrato da solo alla propria abitazione, 
probabilmente proprio “la mattina veniente”, e comunque certamente nel corso 
di quella giornata risultando esso alla data del 13 agosto consegnato”, provvide 
a fare il promesso rapporto al “Superiore Ecc[el]l[entissi]mo”, cioè il vescovo di 
Pistoia e Prato Francesco Toli, che consisteva in una essenziale relazione del fatto 
intervenuto la sera del giorno precedente e le circostanze in cui si era svolto. 

È il caso qui di precisare che quell’interrogatorio del parroco Allegri era avve- 
nuto facendo seguito alla determinazione presa dal vicario generale dell’appena 
ricordato vescovo il successivo giorno 16 agosto. Dopo avere, come in tutti gli 
altri documenti ufficiali, premesso il suo nome e per esteso tutti i titoli, e cioè 


Sebastiano Maggi G[ran] Clancelliere] [,] Nobile Livornese, Proposto della Insigne Chie- 
sa Cattedrale di S. Zeno della Città di Pistoja, e dell’Ill[ustrissi]mo, e Rev[erendissi]mo Mon- 
signor Francesco Toli, Per La Grazia di Dio, e della Santa Sede Apostolica Vescovo di Pistoja, 
e Prato ec. in detta Città, e Diocesi di Pistoja Vicario, e Luogo-Tenente Generale”, 


riportata per esteso la denuncia fatta al vescovo dall’Allegri, egli dichiarava: 


Ci siamo determinati in seguito di essere a Noi rimessa La Denunzia med[esim]a sotto- 
porla all'esame, e decisione di un Giudizio Sommario; e perciò commettiamo, ai Ministri 
della Nostra Curia di procedere serv[atis] serv[andis] all'esame dei Testimonj, e dei Con- 
traenti, e di qualunque altra persona occorra da farsi, o avanti di Noi, o alla presenza d[e]l 


6 Ibidem. 

9. Ibidem. 

68° Cfr. ibidem. 

9° Cfr.ivi, “Il[ustrissi]mo, e Rev[eren]d[issi]mo Monsignor Vescovo [...]”, 13 VII 1825, G.B. Allegri. 
70 Ivi, “Sebastiano Maggi G[ran] C[ancelliere] Nobile [...]”, 16 VIII 1825, S. Maggi. 


395 


Federico Ceccanti 


Re[veremdissi]mo Sig[no]re Canfoni]co Arciprete Angielo Cecconi, e dell’Ecc[ellentissi]mo 
Sig[nor] Dott[or] Bartolomeo Venturi, che per la presente Causa elegghiamo in Nostri Con- 
sultori, e Assessori in tutta la prosecuz[ione] della Causa. Riservando però a Noi di decidere, 
e sentenziare in definitiva sopra gli appresso dubbi cioè 

1°Se costi, o nò della validità del Matrimonio nel caso di cui si tratta, o possa risolversi in 
una promessa di futuro Matrimonio. 

2° Se sia Luogo ad alcune pene, e a quali, tanto spirituali, che ecclesiastiche, contro il 
Par[ro]co e Testimonj, che furono presenti a d[ett]o valido, o non valido Matrimonio: e sopra 
qualunque altro dubbio, o incidente insorger potesse nel corso della presente Causa. 

Incarichiamo poi i Ministri della pred[ett]a Nostra Curia, a redigere tutti gli Atti di d[ett] 
o Giudizio fino alla Sentenza inclusive, e sua finale esecuzione, sotto la direzione di d[ett]i 
Sig[no]ri Consultori, e del Nostro primo Cancelliere”. 


Quest'ultimo, che sottoscriveva con il Maggi l’atto, era l avvocato Carlo Pe- 
172 
TUZZI”. 
La convocazione dell’Allegri per l'interrogatorio era avvenuta per il tramite del 
Commissario Regio Agostino Fantoni il quale il giorno stesso dell’interrogatorio 
scriveva in proposito al Maggi: 


fino dal giorno scorso, secondando le premure contenute nella di Lei Ministeriale del 
giorno Medf[esim]o, furono immediatamente dati gli ordini opportuni per l'oggetto della 
pronta consegna al suo destino per mezzo d’un cursore, della citazione che mi accompagnò 
per il Parroco di S. Pantaleo”, 


aggiungendo altresì di seguito: 


Le do parte nell’istesso tempo come per la compilazione del Processo, che si và facendo 
in questa Cancelleria Criminale per il noto Matrimonio per sorpresa, ho fatto racchiudere in 
questa Fortezza il Sig[nor]e Barone Giuseppe Napoleone Franceschi, e in una stanza presso il 
Conservatorio delle Monache del Ceppo, la nota Maria Marraccini di Montecatini”*. 


Due giorni dopo l’interrogatorio del parroco fu la volta di quello di “Dome- 
nico del fù Antonio Rossi di S. Pantaleo Agente dei Sig[no]ri Pupilli Figli del 
fù Sig[nor] Amerigo Cellesi”?? ad essere sentito su quanto avvenuto nella villa 
di Montebuono la sera del 12 agosto. Alla scontata domanda relativa alla sua 
conoscenza del Franceschi, del quale era più vecchio di una ventina di anni, 


© Ibidem. 
© Cfr. ibidem. 
73. Ivi, Sig/nor] Vicario Generale della Curia Vescovile Pistoja, 20 VIN 1825, A. Fantoni. 
Ibidem. Riguardo alle accennate monache così Giuseppe Tigri con concisione e chiarezza dà 
conto della loro sede e della loro fondamentale occupazione in questi termini: “CHIESA E MONA- 
STERO DI S. MARIA DELLE GRAZIE, O DEL LETTO. È contigua all’Ospedale del Ceppo, e 
appartiene al Convento di Oblate che prestan servigio in detto Spedale” (Tigri 1853, p. 245). Questa 
primaria funzione era stata loro assegnata con la riorganizzazione degli enti di assistenza operata dal 
granduca Pietro Leopoldo nel penultimo decennio del Settecento. Le monache, come si è visto, qui 
indicate con il nome dell'ospedale, lo erano anche con la seconda designazione della chiesa derivante dal 
fatto di esser conservato all’interno di questa un letto oggetto di un evento miracoloso (cfr. la citazione 
di cui alla nota 179). 

?.AVPt, II, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 
Curia [...]”, 22 VII 1825, D. Rossi. 


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12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


dichiarava di conoscerlo per essere “stato anche suo Fattore”7°, precisando poi, a 
seguito di altra domanda relativa alla frequentazione della villa di Montebuono, 
riferendosi a questo suo incarico, di avervi addirittura risieduto: “Non solamen- 
te la frequentavo, ma fino al Mese di Aprile d[e]l decorso Anno 1824 abitavo 
continuamf[ente] in d[ett]a Villa in qualità di Fattore”. Poi richiesto da quanto 
tempo durasse la conoscenza del figlio del generale e quale fosse stata da allora in 
poi la sua dimora rispondeva: “Io conosco il d[ett]o Sig[nor] Gius[eppe] Napole- 
one dal 1813 in quà, e da quel tempo in poi ha sempre dimorato nella sua Villa 
di Monte Buono situata nel Popolo di S. Pantaleo all’Ombrone”?, non essendo 
riguardo a questo secondo punto il Rossi preciso per essere, come si è visto, fino 
NA fine del decennio in cui la conoscenza era avvenuta la residenza del giovane 
documentata altrove, intendendo tuttavia probabilmente il Rossi medesimo rife- 
rirsi per tali periodi a soggiorni brevi o villeggiature”?. 

Ad altra domanda ancora relativa alla loro frequentazione, poi, il fattore ri- 
spondeva, lasciato il suo incarico a Montebuono, di avere con ii giovane France- 
schi, “sempre continuato a conversare insieme, barattandoci scambievolmente le 
visite, giacche abitavo jo in una Villa denominata il Paradiso dei S[ignor]i Fran- 
chini, ero molto vicino a quella di Monte Buono”, facendo ciò supporre che, 
come in effetti era e si vedrà meglio più avanti, superate le differenze dovute alle 
diverse condizioni sociali e anche all’età, tra loro si fosse stabilito un rapporto di 
amicizia, forse anche da parte del più giovane, quasi un affetto filiale. 

Richiesto dagli inquirenti se conoscesse la giovane Maria Marraccini, col ri- 
spondere: “Sì Sig[nore] La conosco benissimo, poiche è stata a mio tempo in 
di Villa di Monte Buono, tenendo ivi Scuola di Cappelli”?! dava a vedere 
quale fosse il motivo dell’accennata dal parroco Allegri lunga presenza a Mon- 
tebuono della ragazza, esplicitata nella domanda successiva al Rossi riguardo al- 
l'“opinione che si teneva nel Popolo di S. Pantaleo, circa la coabitazione, e pratica 
di d[ett]a Maestrina con il Sig[nor] Gius[eppe]. Franceschi”*° che lascia intendere 
come la relazione tra i due non fosse poi tenuta dagli stessi tanto nascosta e anche 
il Rossi poi rispondendo: “Per quanto potessi intendere, l'opinione non era pres- 
so tutti Son cioè che fra essi vi potesse essere qualche segreta intelligenza”8 
lasciava intendere che la cosa fosse risaputa. 


7 Ibidem; Domenico Rossi, allora ventinovenne, è registrato come fattore già nel 1814 (cfr. AVPt, 


Duplicati, San Pantaleo 110, Duplicato dello Stato dell’Anime della Chlies]a di S. Pantaleo, fatto da me in- 
frascritto questo di 28 Marzo 1814 in occasione di dare L'Acqua S[ant]a alle Case, cc.n.nn., s.n. fra 39 e 40. 

7 AVPr, II, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 
Curia [...]”, 22 VIII 1825, D. Rossi. 

78. Ibidem. 

7 Negli stati delle anime di San Pantaleo di quegli anni Napoleone Giuseppe non è mai registrato: 
cfr. in proposito i fascicoli di ciascuno dei detti anni conservati in AVPt, Duplicati, San Pantaleo 110. 

80 AVPt, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 
Curia [...]”, 22 VIII 1825, D. Rossi. 

81 Ibidem. 

8 Ibidem. 

8 Ibidem; Domenico Rossi allora ventinovenne è registrato come fattore già nel 1814 (cfr. AVPt, 
Duplicati, San Pantaleo 110, Duplicato dello Stato dell'Anime della Chlies]a di S. Pantaleo fatto da me infra- 
scritto questo di 28 Marzo 1814 in occasione di dare L'acqua Santa alle Case, cc.n.nn., s.n. fra 39 e 40. 


397 


Federico Ceccanti 


Lo stesso Rossi subito dopo rispondendo alla domanda relativa alla durata del 
soggiorno della ragazza a Montebuono: 


Vi abitò pl[er] circa 8 mesi, quando circa il Genn[ai]o 1824 per Ordine d[e]lla Sig[no]ra 
Baronessa Franceschi allora mia Padrona, jo la Licenziai, ed Essa partì. Nell’Inverno passato 
però, fù richiamata in qualità di Maestra di Cappelli, non so precisamente se richiamata 
dalla Sig[no]ra Baronessa, o da d[ett]o Sig[nor]e Napoleone, e circa a un mese fa fù di nuovo 
Licenziata, o sivvero se ne partì8*, 


confermava quanto già detto dal parroco. 

Vale la pena riportare poi per esteso la descrizione dell’atto centrale della sera- 
ta fatta dal Rossi; già riferito con le parole dell’appena detto parroco e con queste 
sostanzialmente coincidente, vi si nota una maggiore serenità. Così diceva il Rossi 
partendo dall’antefatto: 


Io non mi rammento se fosse la sera d[e]l di 11 o 12 d[e]l corr[ent]e mese, che un servi- 
tore d[e]l Sig[nor] Gius[eppe] Napoleone soprannominato Pontremoli, né sò il nome, ne il 
casato, mi venne a trovare alla Villa d[e]l Paradiso, e mi disse se li facevo il piacere di andare 
a Monte Buono, che il suo Padrone mi voleva vedere, ed essendo circa ore 23 e % jo andai 
subito da d[ett]o Sig[nor]e ed entrato nella Villa di MonteBuono lo incontrai sopra una Scala 
che conduce al s[econ]do Piano di d[ett]a Villa, e jo disse passate in Salotto, aspettate un mo- 
mento che adesso adesso [sic] vengo. Ed entrato jo in d[ett]o Salotto, ove non trovai Persona 
alcuna, quasi subito ivi comparve Umiliano Marini indi a poco comparve il Sig[nor]e Curato 
di S. Pantaleo in compagnia di Cesare Marini Figlio di d[etto Umiliano Marini, e quasi 
subito sopraggiunse ancora il Sig[nor] Curato di S. Piero in Vincio. Indi si presentò il d[ett]o 
Sig[nor] Gius[epp]e con d[ett]a Maria Marraccini, e fermandosi ambedue sulla porta p[er] la 
quale si eran presentati, salutò tutti, e disse: Signori non li imagineranno il motivo p[er] cui 
gli ho mandati a chiamare, ma gliene dirò jo questa è una certa Maria Marraccini di Monte 
Catini, la quale è stata qui qualche mese in qualità di Maestra da Cappelli e che a me piace, 
onde intendo farmene mia Sposa, siete contenta Maria di prendermi p[er] Vostro Sposo? Sì 
Sig[nor]erispose d[ett]a M[ari]a ed io son contentissimo suggiunse Lui di prendervi p[er] mia 
Sposa. Signori Testimoni hanno sentito? Tutto q[ues]to discorso fù diretto principalmente al 
Par[ro]co di S. Pantaleo, a Cui anche il d[ett]o SigInor] Gius[eppl]e disse Sig[nor] Curato son 
Crisiano anch'io, e mi rimetto a ciò che richiede La Chiesa basta che questa sia la mia Sposa”. 


Secondo la testimonianza successiva, l’affermazione “son Cristiano”8° fatta 
“mostrando un libro” e dicendo “sò quello che dice il Concilio di Trento, e son 


84 AVPt, II, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 


Curia [...]”, 22 VII 1825, D. Rossi. 

8 Ibidem. Come si vede, riferendo dell'ora in cui fu mandato a chiamare, il Rossi usava per 
indicarla l'antico, ma sempre in uso sistema italiano del conteggio dei diversi momenti della giornata, 
di cui si è in precedenza detto (cfr. la nota 21). Allo stesso modo, come si vedrà, si sarebbe comportato 
Napoleone Giuseppe (cfr. la citazione di cui alla nota 117), mentre Umiliano Marini poco più tardi 
dicendo “la sera d[e]l di 12 del corr[ent]e mese poco prima d[elll’ AveMaria d[e]lla sera venne da me 
Carlo Capecchi Contadino di d[ett]o Sig[nor] Franceschi, e mi disse, che il Suo Padrone mi voleva ve- 
dere” (ivi, “Comparve citato in questa Curia [...], 22 VIII 1825, U. Marini) faceva riferimento, anzichè 
all'ora, al termine della giornata. 

86 Ibidem. 

8 Ibidem. 


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12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


pronto di venire alla Chiesa p[er] fare quanto occorre”** era stata fatta non così 
immediatamente di seguito, ma, secondo la medesima testimonianza, “dopo poi 
essendosi incollerito il Sig[nor] Curato Allegri d[e]lla sorpresa che diceva, che 
gli avevano fatta”, come del resto lo stesso curato Allegri aveva riferito. Questo 
nuovo testimone era “Umiliano d[e]l fù Fran[ces]co Marini d[e]l Popolo di S. 
Pierino in Vincio, Fornaciajo”?°, che interrogato lo stesso 22 agosto, riguardo alla 
conoscenza del Franceschi aveva dichiarato: 


Sì Sig[nor]e poiche abitando egli da più anni nella sua Villa d[ett]a di MonteBuono nel 
Popolo di S. Pantaleone assai vicino alla mia Casa, e p[er]che lì ho servito più volte di Mate- 
riali p[er] Muramenti, ed anche chiamato p[er] testimoniare in più tempi, a diverse pubbli- 
che, e private Scritture, ho avuto diverse occasioni di trattarlo”!. 


Come appena sopra accennato, il Marini era titolare di una antica e rinomata 
fornace adiacente alla sua casa, posta subito di fronte, al di là della via Lucchese, 
alla strada pubblica che portava, e tuttora porta, alla villa di Montebuono. L'abi- 
tazione del Marini, pur essendo in altra parrocchia facendo la detta via Lucchese 
da confine tra quella di San Piero in Vincio e quella di San Pantaleo, era distante 
poche centinaia di metri dalla villa. All’epoca il Marini era vicino ai sessantasei 
anni”, il figlio Cesare che aveva anch'egli partecipato all'evento, allora ventotten- 
ne come in effetti si evince dall’atto di battesimo dal quale risulta essere appunto 
nato il 9 giugno 1797”? per quanto nella sua deposizione avesse invece dichiarato 
di avere “26 Anni in clir]ca””, era il terzogenito di otto, fra maschi e femmine”. 
È, per inciso, il caso di ricordare tra i primi Serafino, di Cesare più giovane di due 
anni”, che, presi gli ordini religiosi e cambiato il nome in Angelico, sarebbe dive- 
nuto il ben noto predicatore e fervente patriota, nonché della poetessa irlandese 
Louisa Grace che, presa nel 1841 stabile dimora a Pistoia, partecipò entusiastica- 
mente alle vicende risorgimentali italiane, “quasi un secondo padre””. 


8 Ibidem. 
8 Ibidem. 
0 Ibidem. 
Ibidem. 


9 Cfr. AVPt, Battezzati della Cattedrale, II B 46r, dal 1759 al 1761, c. 14r, n. 106, 28 IX 1759: 
nato il giorno precedente al battesimo, quindi il 27 settembre 1759, gli erano stati imposti i nomi di 
“Giuseppe, M[ari]a, Michele, e Rom[olo]”, nome quest’ultimo che per antica consuetudine veniva dato, 
declinato ovviamente al maschile o al femminile, a tutti i bambini e bambine pistoiesi. Per una ignota 
ragione, come del resto talora avveniva all’epoca, era sempre però stato chiamato Umiliano; che però si 
trattasse proprio di lui è dimostrato dai nomi lì riportati del padre, “Fran[ces]co di Dom[eni]co” e della 
madre, “Lucia di Gio[vanni] Giulio Querci” coincidenti con quelli annotati nello stato delle anime del 
1819: “Umililano del q[uondam] Francesco Marini, e Lucia Querci” (ADPt, Parrocchia di San Piero in 
Vincio, IC, Stati delle anime, 15, 1813-1833, cc.n.nn., 1819, n. 105). 

9. Cfr. AVPt, Battezzati della Cattedrale, II B 60r, dal 1797 al 1801, c. 5v, n. 60, 9 VI 1797, da 
cui peraltro risulta anche che il suo nome completo era “Antonio Cesare Romolo”. 

% AVPr, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 
Curia [...]” 22 VIII 1825, C. Marini. 

9. Cfr. ADPt), Parrocchia di San Piero in Vincio, IC, Stati delle anime, 15, 1813-1833, cc.n.nn., 
1815, n. 110. 

%6 Cfr. ibidem. 

9. Billi 1996, p. 56, che prosegue ricordando che “Sir William Grace [...] in punto di morte 


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Federico Ceccanti 


Richiesto anche lui riguardo alla conoscenza della Marraccini, il Marini di- 
chiarava di “averla veduta qualche volta in d[etta] Villa di Montebuono, e faceva 
la Maestra di Cappelli di Paglia”?8, ma di non sapere niente a riguardo del fatto se 
fra lei e il giovane Napoleone fosse “passata qualche amorevole corrispondenza”? 
per poi dint dell’episodio centrale della serata nei termini già riportati. 

Di seguito, nel medesimo giorno sarebbe stato interrogato il poco sopra ri- 
cordato glio di lui Cesare; la sua deposizione, del tutto coerente alle altre, non 
aggiungeva niente di particolarmente rilevante!"!. 

Alli interrogatorio del quarto, ed ultimo, testimone, Carlo Melani parroco di 
San Piero in Vincio “di Anni quaranta, o quarantuno Circa” 10! si sarebbe prov- 
veduto solo il 9 settembre successivo “Attesa L'assenza da q[ues]ta Diocesi”! per 
essere stato “a Livorno a prendere i bagni, e tornato nel giorno di jeri l’altro”!08. 

Già dal 29 agosto era stato interrogato presso la fortezza nella quale era dete- 
nuto ormai, come si è visto, il protagonista principale della vicenda. 

Richiesto di fornire il proprio nome si dichiarava “Napoleone Giuseppe figlio 
d[ell fù Sig[nor] Cavlalier]e Genelralle Gio: Batta de’ Franceschi e d[e]lla Sig[no] 
ra Maria Clorinda Guasco”!° e successivamente, riguardo alla sua età, rispondendo: 
“Ho Anni 21 e Mesi 7”"°, dava a vedere di essere nato sul finire del gennaio 1804190 
e poi, riguardo al luogo di nascita, dichiarava ancora: “Son nato in Aquisgrana, ed 
ivi fui battezzato non sapendo però in qual Chiesa”, precisando altresì: “quando 
nacqui mio Padre, e mia Madre si ritrovavano colà accidentalmente”!°8, 

Affermava poi rispondendo in maniera esaustiva e, per quanto riguarda l’esat- 
tezza, alla luce dei documenti prima riportati, assai precisa, ad altre due domande 
successive: 


Per quanto jo mi ricordo l’epoca più remota che si presenta alla mia memoria, è allorche 
mi ritrovai condotto dalla mia Sig[no]ra Madre a Pisa in Toscana, verso la fine d[e]l 1809. Suc- 
cessivamente con d[ett]a Sig[no]ra Madre passai a Siena, e quivi trattenendomi poche Stagioni 
passai a Livorno. Ivi dimorai dalla metà d[e]l 1810.in circa fino agli ultimi mesi d[e]l 1812 
Passai poi a Pistoja, o nel Pistojese, e segnatamente alla Villa di Monte Buono, ove dai miei 
Genitori fu fissata la dimora d[e]lla mia Famiglia fin a t[ut]to l'Anno 1813 incirca!® 


proprio al religioso aveva affidato la figlia amatissima” (ibidem); ancora poi in proposito è stato scritto: 
“Il trasferimento [di Louisa] a Pistoia fu certamente proposto da padre Angelico, che sentendosi respon- 
Li della fanciulla, la condusse là dove era la sua patria” (Camarlinghi 1996, p. 14). 
AVPt, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “Comparve citato in questa 

Curia [...]% 22 VIII 1825, U. Marini. 

9. Ibidem. 

100 Cfr. ibidem. 
Ivi, “Comparve citato in questa Curia [...]” 9 IX 1825, C. Melani. 

102 Ibidem. 

19° Ibidem. 

10 Ivi, “In Seguito d[e]lla Commissione ingiunta [...]”, 29 VIII 1825, N.G. Franceschi. 

105 Ibidem. 

106 Come già ricordato, nell’albero genealogico di cui alla nota 10 come anno di nascita, con tutta 
evidenza erroneamente, è indicato il 1805. 

107 AVPt, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “In Seguito d[e]lla Commis- 
sione ingiunta [...]”, 29 VIII 1825, N.G. Franceschi. 

108. Ibidem. 

100 Ibidem. 


400 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


e ancora: 


dal 1813 in poi jo costituito sotto l'obbedienza della mia Sig[no]ra Madre, mi trattenni in 
Pistoja con Essa fino al 1815 in circa abitando in una Casa di proprietà dei Sig[no]ri Franchi- 
ni, in Cura di S. Gio[vanni] fuor Civitas. Quindi in Campagna, e a Monte Buono, e al Poggio 
alla Guardia, abitando nelle Ville appartenenti alla mia Famiglia, e poste nella Diocesi Pi- 
stojese. Nel 1816 fui alternativam[vamente] a Pistoja, e a Firenze. Nel 1817 tornai in Pistoja 
stabilmente, dimorando nella Casa Bacci nella pred[etta] Parrocchia di S. Gio[vanni] f[uor] 
Clivitas] Quindi entrai in Collegio in Pistoja, e mi vi trattenni, p[er] i miei studi, fino al 7bre 
d[e]l 1820. Tornai a Monte Buono, e mi rassegnai all’apertura degli Studi nell'Università di 
Pisa, ma non vi mi portai fino al Mese di Febbrajo, così richiedendo i miei interessi, giacche 
fin di quel tempo la Sig[nor]a Madre era passata alle seconde Nozze. Nel Giugno successivo 
tornai a MonteBuono luogo che fin da quell'epoca jo fissai p[er] mio domicilio. All'apertura 
degli Studi di Pisa vi feci ritorno, ma mi fu giocoforza il ritornare a MonteBuono, poco confa- 
cendosi quell'aria al mio temperamento, un Mese dopo. Da quell’epoca in poi fino al presente 
non mi sono assentato dal citato a Monte Buono, che p[er] giorni, e quindi negli Atti Civili 
l'ho riguardato come mio domicilio!!°, 


L’inciso relativo al ritardato trasferimento a Pisa, nella sua essenzialità, pare 
adombrare una sua avversione a quelle “seconde Nozze” della madre, che dove- 
vano aver avuto quindi luogo Li. fine del 1819 e l’inizio dell’anno successivo, 
se messo in relazione con quanto diceva il giovane Napoleone Giuseppe riguardo 
alla cura dei propri “interessi”. 

Così rispondendo riguardo a eventuali promesse di matrimonio da lui o a lui fatte: 


Io non ho promesso ad alcuna Donna, ne ho avuto promesse da Donne, di Matrimonio, re- 
centemente soltanto, e segnatamente nei primi del presente mese, proposi alla Maria Marraccini 
figlia Angiolo Marraccini Agricoltore possidente, originario, e domiciliato nella Propositura di 
Montecatini Diocesi di Pescia, di unirmi con Essa in Matrimonio, quando Essa acconsentisse, e 
nel seguente modo così portandolo le mie circostanze in proposito de’ rapporti sociali, cioè con 
andare dal di Lei Proposto di MonteCatini, e quindi alla presenza di due Testimonj significargli 


che fin da quel momento ci riguardavamo come Moglie, e Marito!!!, 


oltre a conferire al padre della ragazza la qualifica di “Agricoltore Possidente” 
che, come si vedrà fa poco la stessa avrebbe smentito riguardo alla seconda con- 
dizione, dà a vedere l’intendimento, già all’inizio di agosto, di procedere in quella 
forma che avrebbe poi messo in atto, dopo aver responsabilmente, con queste sue 
parole, avvertito la ragazza che ella avrebbe dovuto “aspettarsi a de’ forti dispia- 
ceri p[er] parte de’ miei congiunti, e segnatam[ente] di mia Sig[nor]a Madre?!!2, 
la stessa al proposito gli aveva risposto “tale e tanto essere l’amore riconoscente 
che Essa p[er] me nutriva, che di buon’ animo si inanzi, da farli di buon’ animo 
soffrire qualunque peripezia a mio riguardo”!!5. 


!!0 Ibidem. Della permanenza a Pisa per gli studi universitari nell’anno 1821 è dato conto anche 


nel certificato del parroco della chiesa di San Frediano dove è detto che in quell’anno era stato da lui 
annotato, unitamente al fratello Luciano, nel registro dello stato delle anime: cfr. ivi, A di primo De- 
cembre 1825. Certificasi [...], 1 XII 1825, G. Pacini. 

! Ivi, “In Seguito d[e]lla Commissione ingiunta [...]”, 29 VIII 1825, N.G. Franceschi. 

12 Ibidem. 

153° Ibidem. 


401 


Federico Ceccanti 


Con stupore si apprende dallo stesso Napoleone nel rispondere ai suoi inter- 
roganti di ciò che era avvenuto nella mattinata del 12 agosto 1825: quel rocam- 
i matrimonio che era andato in porto la sera di quello stesso giorno era 
già stato tentato, senza successo, davanti al proposto di Montecatini. Raccontava 
infatti agli interroganti al riguardo il giovane: 


Mi portai infatti colla d[ett]a Fanciulla dal precitato Proposto, e fatti p[er] convenienza 
in AntiCamera trattenere i Testimonj, cui non aveva palesate le mie intenzioni, li comunicai 
esser nostra volontà a motivo de’ tempi, e d[e]lle circostanze di unirci in Matrimonio ne’ 
modi che sopra; ed Egli sagacissimamente mi rispose tenendosi sulle generali che avrebbe 
scritto a mia Madre, e quindi dileguandosi da’ nostri occhi in atto di chiamare un tal servo 
che Ci apprestasse un rinfresco, più non si vidde comparire, essendo quelli che avevo eletti 
pler] Testimonj tuttora ignari d[e]l fatto, e nella pred[etta] Anticamera!!”. 


I due quindi, portando con loro, come avrebbe precisato la ragazza nel suo 
interrogatorio del giorno successivo, “Pierino Niccoli, e Gianni Ferretti Suoi 
Contadini”!", si erano presentati dal proposto di Montecatini, ma questi, senza 
il clamore con cui don Abbondio nel racconto manzoniano aveva fatto fallire la 
sorpresa e il matrimonio, operando in modo assai più scaltro aveva raggiunto lo 
stesso risultato. Il Franceschi così continuava nella sua esposizione: “Vedendo che 
avevo perso inutilmente il tempo, mi portai subito a MonteBuono unitamente 
alla nota Giovine partecipandoli che quivi si sarebbe contratto il citato Clan- 
destino Matrimonio”!!°, in tal modo dimostrando, nonostante la delusione per 
quel fallimento che avrebbe fiaccato altri meno determinati, lucidità ed energia 
non comuni, nel rispondere alla domanda se quella operazione fosse stata volta 
effettivamente a concludere il matrimonio, ribadendo la sua volontà tornava a 
riassumere gli accadimenti di quella sera a Montebuono: 


delle mie intenzioni sufficientem[ente] chiare, e palesi parrebbe si dovesse sufficientemen- 
te intendere come io mi pensassi, quando tornai a Monte Buono, infatti fatto pregare il M[ol] 
to Rev[eren]d[o] Sacerd[ote] Sig[nor] D[on] Gio[vanni] Bat[tis]ta Allegri onde compiacesse 
portarsi da me verso le Ore 23 in circa d[e]l di 12 d[e]l corr[ent]e Mese di Agosto nel qual 
giorno era stato a MonteCatini come sopra (non consentendo la mie occupazioni che jo da 


Lui in Persona mi recassi) e quindi invitati p[er] la med[esima] Ora ne’ modi che sopra!!, 
q p p 


ripetendo poi lo svolgimento dei fatti, sostanzialmente occorsi anche secondo 
il suo racconto nei modi precedentemente descritti dal parroco di San Pantaleo e 
dai testimoni fino ad allora sentiti!!5. 

Da quali altre “occupazioni” potesse essere preso in quella agitatissima gior- 
nata non ci si potrebbe dare ragione, se quella non fosse stata la giustificazione 


per non ripetere l'errore della mattina portandosi in casa del parroco dove più 


14 Ibidem. 

155 Ivi, “In Seguito d[e]lla Commissione ingiunta [...]”, 30 VIII 1825, B. Venturi e C. Peruzzi per 
conto di M. Marraccini. 

116 Ivi, “In Seguito d[e]lla Commissione ingiunta [...]”, 29 VII 1825, N.G. Franceschi. 

147 Ibidem. 

!!8 Come si è visto, per la sua assenza da Pistoia il parroco di San Piero in Vincio sarebbe stato 
interrogato il successivo 9 settembre. 


402 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


facilmente questi, come era avvenuto a Montecatini, potesse in qualche modo 
sottrarsi all'operazione. 

Fu poi .: riguardo alla conoscenza di alcune regole riguardanti il matri- 
monio, sulle quali ci si soffermerà più avanti. 

Il giorno seguente, 30 agosto, si procedette all’interrogatorio della giovane: 
interrotto ad un certo punto per una causa non troppo uu fu proseguito il 
giorno ancora successivo, ultimo del detto mese di agosto. Esso avvenne, premet- 
tevano gli interroganti, “al Conservatorio de Ti di q[ues]ta Città di Pi- 
stoia, [...] in una stanza fattaci assegnare dall "Ill[ustrissi]mo Siglnor]e Commis- 
sario de’ R[egli Spedali riuniti di Pistoja Superiore di d[ett]o Luogo”!!?. Anche 
dalle sue parole emergono molti ed interessanti particolari di lei, della famiglia 
e della loro condizione. Dichiarava intanto per iniziare: “Io mi chiamo Maria di 
Angiolo Marraccini, e d[e]lla Barbera Martinelli, e sono nell’età di Venti Anni 
compiti p[er] quanto mi pare”!° e poi: “Son nata, e battezzata a MonteCatini. 
I miei Genitori non posseggono alcun Fondo, ma son Contadini di Stefano Vi- 
telli di MonteCatini”!?!, contraddicendo con quest'ultima affermazione quanto 
aveva detto in proposito il Franceschi e precisando subito dopo riguardo alla loro 
attuale dimora “Abitano attualmente in MonteCatini, molto vicini al Poggio alla 
Guardia”!. Dopo avere dato poi con esattezza il luogo di nascita col dire “Io 
nacqui in un luogo detto Monte a Colle in d[ett]Ja Cura di MonteCatini”!?, 
dicendo ancora: 


I miei Genitori hanno più volte variata abitazione, ma sempre dimorato in d[ett]a Cura. 
Io poi nell’Età di 16 Anni mi trasferii a Livorno presso una mia Zia p[er] nome Pasqua Bat- 
tini, ove mi trattenni p[er] sette mesi. Di Lì tornai alla mia Casa, e dopo cinque, o sei mesi 
passai a Monte Buono Villa de’ Sig[nor]i Franceschi nel Pistojese, ove sono stata con qualche 
interruzione però fino al presente tornando di tanto, p[er] qualche mese a Casa mia!” 


riferiva di quella che, probabilmente, avrebbe costituito la svolta della sua vita, 
potendosi ragionevolmente pensare che quel suo soggiorno livornese fosse avve- 
nuto per imparare l’arte della fabbricazione dei cappelli di paglia che l'avrebbe 
poi condotta a Montebuono. Domandandole subito di seguito dove e quando 
avesse avuto luogo il matrimonio e chi fossero stati i presenti, riguardo a questi 
ultimi elencava i soliti personaggi che già Napoleone e i testimoni a quel punto 
già interrogati avevano elencato, dopo aver risposto al primo quesito: “Seguì a 
MonteBuono oggi sono diciotto giorni, mi pare, seguì nella Libreria d[e]lla Villa 


!!9 AVPr, II, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “In Seguito d[e]lla Commis- 
sione ingiunta [...]”, 30 VIII 1825, B. Venturi e C. Peruzzi per conto di M. Marraccini. Come si è visto 
(cfr. la citazione di cui alla nota 74), la Marraccini era stata rinchiusa “in una Stanza presso il Conser- 
vatorio delle Monache del Ceppo”, quelle, cioè, che prestavano servizio presso l'omonimo ospedale sul 
quale il rammentato “Commissario de’ R[egli Spedali riuniti di Pistoja” aveva giurisdizione. 

120 Ibidem. È questa l’unica volta che nei documenti del processo compare il nome della madre 
della ragazza. 

121 Ibidem. 

12 Ibidem. 

123. Ibidem. Monte a Colle è una località collinare a nord-ovest del castello di Montecatini, oggi 
Montecatini Alto, ancora caratterizzata dalla presenza di sole case sparse. 


124 Ibidem. 


403 


Federico Ceccanti 


?125 


di MonteBuono d[e]l Sig[nor] Giuseppe Franceschi”!, in tal modo fornendo un 
particolare da nessuno dei partecipanti all'evento mai indicato con la stessa esat- 
tezza, e cioè segnalando dei generici salotti aftacciantisi sul salone quello avente 
la specifica funzione da lei detta, che, senza che ve ne sia certezza assoluta, sembra 
che fosse quello subito a destra per chi, salita la monumentale scala di accesso, 
entrava di; detto salone dalla porta principale della villa. 

Continuando l’interrogatorio il giorno successivo e richiesta di “quanto tem- 
po fosse che Ella era informata, che il Sig[nor] Giuseppe la voleva sposare”!°%, si 
dilungava in un racconto che lascia esterrefatti riguardo alla sostanziale assenza 
di garanzie dei naturali diritti delle persone appartenenti a ceti subalterni, coll’ar- 
rivare a prendere misure di limitazione della libertà di movimento non precisa- 
mente motivate, ma dietro, evidentemente, la semplice richiesta di un potente. 
Raccontava precisamente: 


Io fui p[er] Ordine del Tribunale di Pistoja nel mese di Maggio passato, non ricordando- 
mi il giorno, esiliata dal Territorio Pistojese. poiche essendo stata chiamata p[er] mezzo di un 
foglietto a portarmi a d[ett]o Tribunale, jo obbedii e dal Cancelliere mi fù detto che jo par- 
tissi subito, e che non conversassi più col Sig[nor] Giuseppe. Fin d'allora il d[ett]o Sig[nor] 
Gius[epp]e non sò come se la pensasse; Ma poi richiamata a MonteBuono p[er] Ordine d[e] 
Ila Siglnor]a Madre di d[ett]o Sig[nor] Giuseppe, mi trattenni ivi quindici giorni, dopo i 
quali me ne viegni a Casa mia, ma mi lamentai di non poter girare liberamente nel Pistojese, 
ed il Sig[nor] Giuseppe p[er] consolarmi mi disse che stassi quieta, che mi avrebbe sposato, e 
ciò seguì non mi rammento in qual tempo!”7. 


Da ciò emerge in maniera chiara la spregiudicatezza di Maria Clorinda, com- 
battuta fra la volontà di allontanare la giovane Maria dal figlio e la evidente ne- 
cessità dell’opera della stessa per completare il lavoro intrapreso e il conseguente 
per lei lucroso affare. 

A questo punto era stato chiesto alla stessa giovane della conoscenza da parte 
dei suoi genitori delle intenzioni del Franceschi ed ella rispondeva: “Alla Mam- 
ma glielo dissi, al Babbo nò p[er]che non era a Casa”!?8 e all’ulteriore domanda 
riguardo a “Cosa dicesse Sua Madre”! rispondeva, non potendosi peraltro im- 
maginare quale altro avesse potuto essere il sentimento della madre medesima in 
una simile fortunata circostanza, in maniera succinta con tre disarmanti parole, 
e cioè “Che era contenta”! Allo stesso proposito al giovane era stato chiesto se 
avesse egli provveduto a informare i genitori medesimi ed egli aveva risposto, evi- 
dentemente convinto che la cosa comunque non sarebbe loro dispiaciuta affatto: 


Non Sig[nor]e credendo così farli una grata sorpresa, tanto più che dalla Giovine erano 
compiti gli anni 20 e che era a Loro piena notizia, come pure a t[ut]to il Paese di MonteCa- 
tini, che jo amassi questa Giovine!5!. 


15. Ibidem. 
126 Ibidem. 
17. Ibidem. 
128° Ibidem. 
19 Ibidem. 
130. Ibidem. 
13! Ivi, “In Seguito d[e]lla Commissione ingiunta [...]”, 29 VII 1825, N.G. Franceschi. 


404 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


Proseguendo LE richiesta poi la ragazza di come avesse avuto 
per lei inizio la giornata del 12 agosto precisamente in questi termini: “In che 
modo partì dalla Casa Paterna, e in compagnia di Chi?”!5? ella rispondeva: 


Il Sig[nor]e Giuseppe mi mandò a dire che jo andassi alla Sua Villa d[e]l Poggio alla Guar- 
dia, ed jo Sola, ma consaputa di mia Madre ci andai. Il d[ett]o Sig[nor] Gius[eppe] mi disse 


andiamo a MonteCatini, e lì Ci sposeremo!*, 


aggiungendo i nomi dei già ricordati testimoni e di seguito, nell'intento forse 
di a in lei non tanto una coercizione, ma una inconsapevolezza di ciò che 
stava per avvenire, e cioè “Se questa gita la facesse volentieri, o contra genio, 
sapendo che cosa andava a fare!" mostrando una determinazione che toglieva 
ogni dubbio, quasi risentita, rispondeva: “Se non ci fossi andata volentieri, non ci 
sarei andata, anzi ci andai volentierissimo”!5. Anche lei, poi, ripeteva sostanzial- 
mente la versione delle vicende della giornata data dal Franceschi e, per quanto 
riguarda la parte serale, anche quelle date dai testimoni. Inoltre, dalla risposta 
della ragazza all’ultima domanda riguardante il tempo trascorso con il giovane 
successivamente alla manifestazione del reciproco consenso alla loro unione: “La 
sera stessa, e la notte si passò insieme in d[ett]a Villa di MonteBuono, e ci se- 
parormo al punto che da d[ett]o Sig[nor]e Giuseppe, e altri, fui posta in questo 
Luogo” !5, che confermava la dichiarazione fatta due giorni prima da Napoleone: 
“Io ho coabitato con d[ett]a Fanciulla che jo riguardava già divenuta mia Moglie, 
pler] circa 24 Ore, e fino al momento che jo ne fui separato”!57 si ha contezza 
della rapidità con cui le autorità avevano operato dopo la denuncia del parroco 
Allegri, dovendo essere stati rinchiusi dalle “Monache del Ceppo” l’una, alla for- 
tezza l’altro, come sembra di potersi dedurre da quelle dichiarazioni e da quella 
in precedenza ricordata del commissario regio Fantoni già nella giornata del 13 
agosto o, al più, in quella successiva. 

Dopo l’effettuazione, con l’esclusione di quello del prete Melani, di questi 
interrogatori, con una lettera da Firenze datata 6 settembre 1825 indirizzata, 
per quanto manchi la specificazione, al vescovo di Pistoia!5, interveniva nella 
vicenda il secondo marito di Maria Cloinda Guasco, il cavalier Filippo Corboli. 
Dopo aver premesso: “L'Interessamento, col quale non io soltanto, ma molte 
Persone di Relazione della Famiglia Franceschi prendono parte al luttuoso Affa- 
re d[e]l disgraziato Giovine, Sig[nor]e Giuseppe”!9, passava a lamentare il fatto 
che si intendesse ‘escludere l’Intervento a Causa d[e]lla Madre d[e]l rammentato 


132 Ivi, “In Seguito d[e]lla Commissione ingiunta [...]”, 30 VIII 1825, B. Venturi e C. Peruzzi per 
conto di M. Marraccini. 

133 Ibidem. 

134 Ibidem. 

15. Ibidem. 

1360 Ibidem. 

137. Ivi, “In Seguito d[e]lla Commissione ingiunta [...]”, 29 VIII 1825, N.G. Franceschi. 

158. Cfr. Ivi, “I[ustrissi]mo, e R[e]v[eren]d[issi]mo Monsignore Convinto, [...]”, 6 IX 1825, E. 
Corboli Scalandroni. 


139. Ibidem. 


405 


Federico Ceccanti 


Giovine”! chiudeva chiedendo nei termini che seguono che detta esclusione 


non avesse luogo: 


Nella circostanza pertanto di esservi luogo a sperare, che l’Intervento di Essa non possa 
essere d’inutile effetto al più ponderato, e savio risultamento d[e]l Giudizio, che sta preparan- 
dosi, imploro dalla Giustizia, e Saviezza di V[ostra] S[ignoria] Ill{ustrissi]ma, e R[e]v[eren] 
d[issi]ma, che voglia degnarsi non permettere L’'Omissione di tal Diligenza, onde almeno 


possasi (qualunque sia l'evento) vedere esaurite tutte quelle Premure, che l’Importanza d[e] 
Il’Affare indicava!*. 


Provvedendo a compiere gli atti dovuti per il proseguimento della causa tre 
giorni più tardi, quindi il 12 settembre, il vicario Sebastiano Maggi “inerendo 
alle Costituzioni Apostoliche emanate sopra tali materie, e specialmente a quelle 
promulgate dal Sommo Pontefice Benedetto XIV”! passava a nominare nella 
persona dell’avvocato Niccolò Nervini!* il difensore del vincolo matrimoniale, 
figura questa di notevole rilevanza introdotta il 3 novembre 1741 con la bolla 
Dei Miseratione dall’appena ricordato Sommo Pontefice ad evitare abusi in pre- 
cedenza commessi in cal cause. Il successivo giorno 13 settembre 1825 lo stesso 
Maggi, “sentiti i Sig[no]ri Consultori in Causa? Sent[ito] l’Ill[ustrissi]mo Sig[nor] 
Avwv[oca]to Niccolò Nervini Difensore deputato del vincolo del matrim[onio?”!44, 
con le parole di seguito riportate accoglieva quella preghiera che, fatta in maniera 
informale dal Corboli, era stata poi rivolta in forma ufficiale dalla Guasco attra- 
verso il suo procuratore Giovanni Maria Bozzi: 


Disse dichiarò, e Decretò essersi dovuta, e doversi ammettere conforme ammesse, ed 
ammette a causa per ogni sua giusta ragione ed? la mentovata Baronessa Guasco Ved[ov]a 
Franceschi ne Corboli Madre del Noblil]e SigIno]re Napoleone Gius[eppe] Figlio d[e]l fù 
Sig[nor]e Baron Genf[era]le Gio[van] Batista de Franceschi! 


Dopo tutto questo, proseguendosi la causa, il 24 dello stesso di settembre 
Napoleone e Maria, assistiti dal loro procuratore Ferdinando Gamberai si rivol- 
evano al vescovo e alla curia chiedendo, dopo aver in estrema sintesi ricordato 
on occorso quasi un mese e mezzo prima che fosse “dichiarata la legittimità, 
e la validità del Matrimonio come sopra contratto, e nel quale hanno persistito, e 
persistono, facendo istanza il presente Atto riceversi, ed ammettersi, ed emanarsi 


140° Ibidem, dove subito di seguito aggiungeva: “Questa esclusione, la quale sembra in qualche col- 


lisione con i diritti di quella, penetra d[e]l più vivo cordoglio la Medesima, e aggiunge nuova pena alla 
profonda amarezza in cui è immersa, tanto più, che i Sig[nor]i Assessori d[e]lla Causa avevano esternato 
la loro Determinazione di chiamare a causa la Madre stessa”. 

41 Ibidem. 

12 Ivi, “Sebastiano Maggi G[ran] Clancelliere] Nobile [...]”, 12 IX 1825, S. Maggi. 

18. Ibidem. Giureconsulto di grande valore, letterato, elegante poeta in lingua latina, Niccolò Ner- 
vini nacque a Pistoia il 17 novembre 1788 e vi morì il 20 dicembre 1861. Fu presidente dei tribunali di 
Arezzo e di Livorno e della corte di appello di Firenze: per queste notizie cfr. Capponi 1878, Appendice, 
ad vocem, pp. 423-424. 

4 AVPt, II, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], “LIl[ustrissi]mo, e 
R[everendissi]mo Monsignor Vic[ari]o Gen[era]le [...]”, 13 IX 1825, senza firma: si tratta di una mi- 


nuta, non sottoscritta. 
15. Ibidem. 


406 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


ogni opportuno Decreto nelle forme Canoniche”!%, 
A seguito di questo, Niccolò Nervini, dopo aver dichiarato di aver 


avuto stragiudicial Notizia, che per parte della Nobil Donna Sig[nor]a Clorinda Gua- 
sco vedova Franceschi ne’ Corboli Madre dello Sposo, e per parte degli Ill[ustrissi]mi 
Sl[ignor]i Gio[vanni] Batista Guasco, e Angiola Caterina Biadelli di lui Avi Materni si 
pretende nullo, ed invalido il predetto Matrimonio, e che d’altronde per parte dei predet- 
ti Coniugi sia stata presentata in Atti fin dal dì 24 Settembre cadente un'istanza perché 


sia riconosciuta, e dichiarata la validità del Matrimonio tra di Loro Contratto!”, 


chiedeva che “LIlI[ustrissi]mo, e Rev[erendissi]mo Monsignor Vescovo di Pi- 
stoja, e Prato, e sua Curia Vescovile”! ai quali si era rivolto confermassero la 
a fatta dai due giovani tre giorni prima, e nel domandare che questo suo 
atto fosse notificato alle parti protestava altresì “di non riconoscere per legittimi 
Contraddittori né la Madre, né gli Avi dello Sposo, e di non Concordare in Essi 
alcuna legittima qualità per impugnare il sud[det]o Matrimonio”!*°. 

Come si vedrà più avanti, per l'emanazione della sentenza in cui la validità 
di quel matrimonio era riconosciuta, si dovettero attendere ancora cinque mesi. 

Che il matrimonio del figlio terzogenito con una popolana non fosse stato 
gradito dalla Guasco e dai suoi familiari, che tutti di quella loro collocazione so- 
ciale raggiunta in tempi recenti dovevano avere un concetto forse esagerato anche 
per l’epoca, appare scontato ed altrettanto naturale appare la loro opposizione. 
Tuttavia, avendo evidentemente percepito che sulla regolarità del, per quanto 
clandestino, matrimonio non fosse possibile intervenire, per cercare di ottenere 
l'annullamento avevano puntato su una presunta cittadinanza francese di Na- 
poleone Giuseppe e quindi sul dovere egli essere sottoposto alle leggi di Francia, 
secondo le quali era necessario per il matrimonio il consenso dei genitori fino al 
momento in cui il figlio non avesse compiuto venticinque anni. 

Va a questo punto, seppur sinteticamente, accennato ai complessi aspetti 
riguardanti l’unione coniugale nell’ambito religioso. L'elemento fondamentale 
riconosciuto dalla Chiesa cattolica era il consenso dei coniugi, che di quell’at- 
to erano i ministri, per cui il detto consenso era sufficiente per l’istituzione del 
vincolo: anche se a ciò facevano seguito diversi problemi, legati alle famiglie degli 
sposi e ai loro beni, per cui tradizionalmente l’intenzione di stabilire una unione 
matrimoniale la si rendeva nota a tutti attraverso una serie di cerimonie familiari, 
scambi di doni e promesse, che per quanto niente di ufficiale avessero di fronte 
alla legge, rendevano appunto la cosa di pubblico dominio e quindi non conte- 
stabile. 

Questa sorta di ufficializzazione serviva ad impedire che i cosiddetti matrimo- 
ni clandestini basati su una semplice dichiarazione reciproca di volontà da parte 
dei due soggetti di unirsi in matrimonio, di per sé per la Chiesa validi per essere 
i due, come si è detto, dalla stessa riconosciuti ministri del sacramento, fossero 
però sempre dalla stessa ostacolati per la possibilità di dar luogo a incresciose 


146. Ivi, Istanza, 24 IX 1825, N.G. Franceschi. 
147. Ivi, Istanza, 27 IX 1825, N. Nervini. 

148. Ibidem. 

149 Ibidem. 


407 


Federico Ceccanti 


situazioni, qualora la volontà matrimoniale fosse successivamente venuta meno, 
per l’indimostrabilità dell'evento avvenuto senza testimoni, all’insaputa di tutti e 
di qualsivoglia autorità costituita, e questo prevalentemente per la donna, quasi 
sempre la parte più debole. 

All'origine dell’effettuazione di tal genere di matrimoni c'era in molti casi 
l'intento di eludere l'opposizione dei genitori e delle famiglie, derivante spesso, 
come nel caso in esame, da una forte diversità della condizione sociale tra i due 
contraenti. 

Il Concilio di Trento, affrontando il problema della forma del matrimonio 
anche per ribadirne il carattere sacramentale negato da Lutero, lo aveva regola- 
mentato introducendo la celebrazione, della quale i ministri erano e rimanevano 
comunque i coniugi, in chiesa dinanzi a un sacerdote e a due testimoni, facen- 
do precedere la cerimonia dalla pubblicizzazione mediante comunicazione nella 
chiesa in cui la cerimonia stessa avrebbe avuto luogo, quella parrocchiale della 
sposa, durante la messa in tre giorni festivi consecutivi antecedenti dell'evento, 
da se taluno lo avesse ritenuto opportuno, di una preventiva manifestazione 
dell’esistenza di cause ostative. Tutto ciò, deliberato nella XXIV sessione dell’11 
novembre 1563 del detto Concilio, pur condannandoli espressamente come ille- 
citi, con la formula “Tametsi dubitandum non est clandestina matrimonia libero 
contrahentium consensu facta, rata et vera esse matrimonia, quamdiu ecclesia ea 
irrita non fecit”!°9, ne riconosceva tuttavia la validità, salvo proibirli dal momento 
in cui nei vari stati, e conseguentemente nelle relative parrocchie, quel decreto 
fosse stato ufficializzato con la promulgazione: cosa questa che però sarebbe avve- 
nuta solo con il decreto Ne Temere emanato nel 1907 e il suo sostanziale recepi- 
mento, dieci anni più tardi, nel Codice di Diritto Canonico!?!. 

L'accennata disposizione a cui si rifacevano i Guasco per dichiarare nullo il ma- 
trimonio di Napoleone con Maria Marraccini era quella dell'articolo 148 del Codi- 
ce napoleonico che disponeva effettivamente la necessità dell’assenso alle nozze da 
parte dei genitori per i figli maschi che non avessero ancora compiuto i venticinque 
anni. Tuttavia, come si vedrà più avanti, essa non era applicabile al caso in questio- 
ne, e ciò diversamente da quanto avvenuto sempre nella loro famiglia l’anno pre- 
cedente, quando era giunto all’orecchio dei familiari che il secondogenito e primo 
dei maschi, “il Sig[nc] re Eugenio Luciano Franceschi Possidente nativo di corsica, 
e dimorante attualmente in Firenze”!°, si era “determinato a sposare la Sig[no]ra 
Violante Carcassi vedova del fu Giuseppe Baldini”. Nel documento indirizzato il 
12 Luglio 1824 al canonico Ferdinando Minucci, vicario generale dell'arcivescovo 
di Firenze dal loro procuratore Francesco Baldi, trascritto in calce al decreto di cui si 
dirà appena più avanti e da cui sono tratte le due citazioni appena riportate, la Gua- 
sco e i suoi genitori chiedevano l’inibizione alla celebrazione del matrimonio anche 
in questo caso riferendosi al codice civile francese, al quale asserivano dover essere 


15° Concilio di Trento, XXIV sessione, 11 novembre 1563, Canones super reformatione circa matri- 


monium, Cap. I. 

51 bttps:/lbiblio.toscana.itlargomento/Decreto%20Tametsi 

15° AVPt, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], Luciano Franceschi e V[edova] 
Baldini, 12 VII 1824, F. Baldi. 

153. Ibidem. 


408 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


sottoposto il giovane non ancora venticinquenne!’ per essere ancora cittadino di 
uel paese e manifestando in maniera esplicita i motivi dell’avversione, e cioè “la 
i natali”!, non appartenendo evidentemente la Carcassi al ceto nobiliare, 
e per altri due più concreti motivi, e cioè “la mancanza di dote”!5° della stessa, non- 
ché “la circostanza di essere essa madre di due figli senza mezzi di sussistenza”!7, 
aggiungendo inoltre “di esser’ pure il Sig[no]re Eugenio Luciano Franceschi privo 
di mezzi atti a sostenere gli oneri del matrimonio”!8, 
Il giorno stesso, quindi con estrema rapidità, a proposito di ciò il poco sopra 
des vicario generale Ferdinando Minucci, ordinandone altresì h notifica- 
zione al Franceschi, alla Carcassi e ai loro parroci!?, emetteva un decreto di tal 


tenore: 


Ved[uto] quanto era da vedersi, e considerato quanto era da Considerarsi [...] disse, 
dichiarò, e decretò doversi inibire conforme inibisce in quanto agli effetti Ecclesiastici al 
Nobile Sig[no]re Eugenio Luciano Franceschi di contrar matrimonio colla Sig[no]ra Violante 
Carcassi vedova del fu Sig[no]re Giuseppe Baldini fino a nuova dichiarazione in contrario di 


Sua Signoria Ill[ustrissi]ma, e Re[veren]d[issi]ma!9, 


salvo inviare entrambe le parti “in quanto agli effetti Civili in caso di conte- 
stazione di giudizio al Tribunal competente p[er] L'esperimento delle respettive 
ragioni!°!. 

Tale posizione piuttosto ambigua e interlocutoria dovette però in qualche 
modo portare a successive prese di posizione in ambito tanto religioso che civi- 
le che alla fine, anche se in proposito non si hanno documenti, dovette sortire 
l’effetto desiderato dalla Guasco e dai suoi genitori, come la presenza di questo 
documento nel fascicolo relativo al matrimonio di Napoleone Giuseppe e di Ma- 
ria Marraccini parrebbe attestare, pensando gli stessi che esso potesse contribuire 
a indurre anche il vescovo di Pistoia ad assumere atteggiamento analogo: anche 
se, per la verità, si trattava di due casi sostanzialmente diversi e da trattarsi in 
maniera differente anche secondo la legge francese, e cioè un matrimonio ancora 
da celebrarsi e da impedire, uno già celebrato e da annullare. 


154 Cfr. ibidem. Riguardo all’età del giovane, non essendo mai registrato in famiglia negli anni per 


i quali si conoscono gli stati delle anime in cui la stessa è descritta, essa si può desumere unicamente da 
quelli della parrocchia di San Vitale per i quattro anni, dal 1816 al 1819 comperssi, in cui fu collegiale 
presso il seminario vescovile di Pistoia ricadente appunto in detta parrocchia e da cui si ricava che fosse 
nato nell’anno 1800. Infatti nel 1816 (cfr. stato delle anime di cui alla nota 45) è indicato sedicenne, 
l’anno successivo (cfr. stato delle anime di cui alla nota 46) diciasettenne e nei due ancora seguenti 
(cfr. stati delle anime di cui alla nota 47) diciottenne, dovendosi probabilmente per l’ultimo anno es- 
sere stato commesso un errore di annotazione ripetendo il dato dell’anno precedente. Se tuttavia fosse 
quest’ultimo quello corretto, Luciano Eugenio sarebbe nato invece nel 1801. 

15. Ibidem. 

156 Ibidem. 

157. Ibidem. 

158. Ibidem. 
Cfr. ibidem., dove è precisato, senza specificare dei due quale fosse dell’uno e quale fosse dell’al- 
tra, essere quelli “di S. Michele Visdomini, e di S. Maria Novella”. 

160 AVPr, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], Luciano Franceschi e V[edova] 
Baldini, 12 VII 1824, F. Minucci. 

161 Ibidem. 


409 


Federico Ceccanti 


Tornando al processo, successivamente al ricordato documento presentato dal 
Nervini il 27 settembre 1825, il 15 del successivo mese di ottobre Ferdinando 
Gamberai e i suoi assistiti Napoleone Giuseppe e Maria Marraccini si rivolgevano 
di nuovo al vescovo di Pistoia e alla sua curia; dopo aver premesso: 


E previa solenne protesta di non voler riconoscere come legittimi Contraddittori, ed 
intervenienti in Causa né il Noblile] SigInor]Je Gio[vanni] Bat[ist]ta Guasco, né le Nobili 
S[ignor]e Angiola Caterina Biadelli ne Guasco, e Clorinda Guasco Vedova Franceschi ne’ 
Corboli, e con espresso riservo quatenus di chiedere a V[ostra] S[ignoria] Ill[ustrissi]ma, e 
Rev[erendissi]ma la reposizione del Decreto de’ 13 Settembre 1825 con Cui fu ammesso 
l'intervento di detti S[ignor]i senza l’opportuna Citazione dei Comparenti: col solo fine di 
addurre maggiori prove del buon dritto che gli assiste in questa Causa! 


e richiamata la nota denunzia del parroco Allegri riguardante il matrimonio 
del 12 agosto, i tre dichiaravano di produrre 


un Certificato rilasciato dal precitato Parroco sotto dì 27 Giugno 1825 Convalidato da 
suo giuramento e debitamente recognito nel quale si attesta avere il sud[det]o Siglnor]e Fran- 
ceschi il suo Domicilio di abitazione nel Popolo di San Pantaleone, e precisamente nella sua 
Villa di Montebuono, come pure come pure [sic] si fà fede della sua buona Condotta Civile, 


Morale, e Religiosa!, 


traendo subito di seguito la loro sintetica conclusione così espressa: “Che però 
da detti Documenti Chiara, ed evidente emerge la prova della validità del Ma- 
trimonio Contratto dai S[ignor]i Comparenti, abbenché debba, come illecito, 
riguardarsi a forma delle disposizioni d[e] Sfantissimo] Concilio di Trento sep. 
23 Cap. I de Reformat. Matrim.”!4 e di seguito argomentando la correttezza del 
comportamento del parroco. 

Poi ancora premesso essere privo di consistenza il fatto di “allegare la sudditan- 
za Francese del Sig[nor]e Franceschi, per dedurne la inapplicabilicà delle L[eggi] 
Ecclesiastiche alla questione” !9, così motivavano tale loro affermazione: 


Imperocché dato anche p[er] mera ipotesi che d[ett]o Sig[nor]e Franceschi abbia Conser- 
vato la sudditanza Francese, è un fatto incontrastabile, e i Documenti esistenti in Processo 
lo provano ad evidenza che il med[esim]o in unione con la sua Famiglia hà acquistato il 
Domicilio reale, e personale in Toscana con la Compra di rispettabili fondi, e con la dimora 
Continua che vi fù da un epoca al di là del Decennio; perciò siccome il Domicilio d’Origine 
non è attendibile per le questioni relative a ciò che accade dopo contratto il Domicilio d’a- 


bitazione!9, 


supportando ciò con una disposizione del 13 agosto 1734 e concludendo: 
“Così colle Leggi Canoniche esclusivamente, deve decidersi questa Causa”!°. 


16 AVPr, III, R, 75, 11, Processo per la validità del matrimonio [...], Repliche Produzlion]e e Riser- 
vo, 15 X 1825, E. Gamberaj. 

19° Ibidem. 

164 Ibidem. 

165° Ibidem. 

160 Ibidem. 

197 Ibidem. 


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12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


Tale posizione era pienamente condivisa dal difensore del vincolo matrimo- 
niale il quale, presentandosi anch'egli davanti al vescovo e alla curia quello stesso 
giorno, dal canto suo, premettendo: 


E seppure si verificasse nello Sposo l’impugnata attual qualità di Suddito Francese costan- 
do dal di Lui domicilio nella Parrocchia di S. Pantaleo (almeno agli effetti Matrimoniali) il 
di Lui Matrimonio dovrebbe esser regolato dalle Leggi Ecclesiastiche tanto p[er] la capacità 
personale, che p[er] la forma, e p[er] il rito! 


del pari asseriva l’inapplicabilità della legge francese al caso in questione in 
quanto 


anche secondo Le Leggi Francesi la Madre, o gli Ascendenti, avrebber potuto opporsi al 
Matrimonio d’un Figlio, o Discendente in età maggiore prima che fosse celebrato (Cod. Nap. 
Lib. I S?. V Cap. 3) ma non competerebbe Loro l’azione p[er] la nullità del Matrimonio già 


celebrato Ibid. Cap. 4!9. 


Il giorno 19 di quel mese di ottobre i Guasco, rappresentati dal loro procu- 
ratore Giovanni Maria Bozzi, rivolgendosi al vescovo di Pistoia e al suo vicario, 
contestavano la validità delle dichiarazioni del parroco Allegri in merito alla re- 
sidenza di Napoleone, altresì allegando un biglietto rilasciato nel precedente 29 
settembre dalla “Légation de France en Toscane”!7° del seguente contenuto: 


Le Ministre de France en Toscane Certifie que M[onsieur] N[apoléon] Joseph Franceschi 
fils de Madame la Baronne Clorinde Franceschi, veuve du Général Franceschi né à Aix la 
Chapelle [...] agé de 21 ans, domicilié en Toscane [...] depuis dix-huit ans, où il exerce la 
profession de Propiétaire est porté sur la Matricule ouverte en la Chancellerie de cette Léga- 
tion!”! 


e poi in questi termini contestavano le argomentazioni pochi giorni prima 
espresse dalla controparte e dal difensore del vincolo matrimoniale: 


Dissero, e Dicono in replica alle contrarie scritture de 15 Ottobre Corrente che i Docu- 
menti prodotti, e allegati non sono in modo alcuno atti a concludere la prova del supposto 
Matrimonio di che si tratta e che perciò la Domanda ex adverso diretta ad ottenere la dichia- 
razione d[e]lla validità del medesimo è di qualunque Legal fondamento destituta!”?. 


Il seguente 28 ottobre, sulla base di quanto stabilito dal vicario generale del 
vescovo di Pistoia aderendo alle richieste dei Guasco, si passò ad interrogare di 
nuovo il parroco di San Pantaleo e il giorno ancora seguente i quattro personaggi 
che erano stati testimoni al matrimonio del 12 agosto fra il Franceschi e la Mar- 


168 Ivi, Repliche e Produzione e Citazione a Sentenza, 15 X 1825, N. Nervini. 

16 Ibidem. 

170 Ivi, Allegazione di Ragioni Produzione e Istanza d'Ammiss[ion]e d'Interrogatorj, inserto, 19 X 
1825, G.M. Bozzi. 

17! Ibidem. Aix la Chapelle è la denominazione francese della città tedesca di Aachen, in italiano 
Aquisgrana: come si è visto, Napoleone Giuseppe aveva usato quest’ultima dizione. 

172 Ivi, Allegazione di Ragioni Produzione e Istanza d'Ammiss[ion]e d'Interrogatorj, 19 X 1825, GM. 
Bozzi. 


411 


Federico Ceccanti 


raccini!”?. Tuttavia da questo ulteriore interrogatorio non emerse nulla di nuovo, 
confermando sostanzialmente tutti quanto da loro dichiarato in quello preceden- 
te dell’agosto. Reso noto alle parti all’inizio del mese di novembre!”*, prodotti 
altri documenti tra cui uno il 19 dicembre in cui il Bozzi per conto della Guasco 
riaffermava la cittadinanza francese del figlio di questa'??, finalmente il 22 feb- 
braio del nuovo anno 1826 sempre l’appena ricordato vicario generale emetteva 
la sentenza, cosi precisamente formulata: 


Delib[eratis] Delib[erandis] Inerendo alle Istanze del S." Giuseppe Napoleone Franceschi, 
e di Maria Marraccini, e di M Niccolò Nervini Difensore del Vincolo Matrimoniale; Ed 
al Voto degl’Ill[ustrissi]mi Sfigno]ri Consultori in Causa Canfoni]co Arciprete Cecconi, e 
Dlotto]r Bartolomeo Venturi 

Previa la rejezione dell’Opposizione della Signora Baronessa Clorinda Guasco Vedova 
Franceschi ne’ Corboli, e dei S[ignor]i Gio[vanni] Bat[tis]ta, e Caterina Coniugi Guasco 

Diciamo, pronunziamo, e sentenziamo esser costato e costare quanto alla forma prescritta 
dal Sacro Concilio di Trento della Validità del Matrimonio contratto nella sera del 12 Agosto 
1825 nella Villa di Montebuono in questa Diocesi Pistojese fra il Signor Giuseppe Napoleo- 
ne Franceschi e Maria Marraccini con sorpresa del Parroco di San Pantaleone S[igno]r Don 
Giov[vanni] Bat[tis]ta Allegri, e dei Testimonj, qual Matrimonio perciò Dichiariamo esser 


stato, ed essere valido a tutti gli effetti di ragione!”. 


Lo stesso giorno dopo avere sempre il Maggi affermato con altro decreto 


esser costato, e costare della sorpresa del Parroco, e dei Testimoni [...] e non essere perciò 
ne il suddetto Parroco, ne i predetti Testimoni incorsi in nessuna pena, ne in alcuna Censura 


Ecclesiastica!77, 


dichiarava che lo stesso non era per i due ormai riconosciuti sposi, in quanto, 
nonostante la più volte ricordata validità del matrimonio a sorpresa, esso costitu- 
iva tuttavia per essi un illecito da sanzionare. E infatti il Maggi così continuava il 
discorso appena riportato: 


E ciò fermo stante, attesa la mortificazione sofferta dai Coniugi per parte della Potestà 
Secolare, ingiungiamo al suddetto Sig[nor]e Giuseppe Napoleone Franceschi, per modo di 
Salutar Penitenza, e di Pena Spirituale l'obbligo di recitare i Salmi Penitenziali, litanie e Preci 
una volta la settimana per un anno, computabile da questo giorno, ed alla nominata Maria 
Marraccini L'obbligo di recitare la terza parte del $.‘° Rosario una volta la settimana per ugual 
termine di un anno, con precetto ai medesimi di non coabitare quoad Horum finché non 
sia passata in cosa in giudicata la sentenza proferita da questa Curia sulla validità del Matri- 
monio!78, 


Oltre a ciò, lo stesso 22 febbraio, prima ancora di conoscere in forma uffi- 
ciale questo documento il Bozzi scriveva per conto dei suoi assistiti al vescovo 


173 


Cfr. ivi, “In conseguenza del Decreto emanato [...]”, 28 e 29 X 1825, S. Maggi. 

174. Cfr. ivi, Istanza di Pubbllicazio]ne di Deposto, ? XI? 1825, S. Maggi. 

175. Cfr. Ivi, Allegazioni di Ragioni Produzione Istanza e Riservi, 22 XII 1825, G.M. Bozzi. 
176 Ivi, Sentenza, 22 II 1826, S. Maggi. 

177. Ivi, “Sebastiano Maggi G[ran] Cancelliere] Nobile [...]”, 22 II 1826, S. Maggi. 

178. Ibidem. 


412 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


di Pistoia e al suo vicario, dando peraltro incidentalmente notizia del fatto che 
il Franceschi era nel frattempo tornato a Montebuono e la Marraccini si trovasse 
invece ancora ospite delle monache presso le quali era stata portata nell'agosto 
dell’anno precedente, che 


avendo avuto stragiudicial notizia che in questa mattina 22. d[e]l corrente Mese [di feb- 
braio] nella causa fra esse, e 

Il Nobile S[i]g[nor]Je Napoleone Giuseppe De Baroni Franceschi, e la Maria Marraccini 
abitfante] il p[ri]mo attualm[ent]e a Montebuono, e L'altra in Pistoja nel Convento delle 
Monacl[esser] del Letto di detta città, e 

Messer] Niccolò Nervini di Pistoja Difensore d[e]l vincolo Matrimoniale vertente avanti 
a V[ostra] Signoria] Ill[ustrissi]ma sia stata proferita una certa sentenza, colla quale sia stato 
ingiustamente dichiarato valido un atto di preteso Matrimonio asserito contratto trà il d[ett]° 


S[i][gnor]e Napoleone Giuseppe De Franceschi e la sudd[ett]a Maria Marraccini!?? 


Maria Clorinda e la madre 


appellarono, ed appellano avanti L' II{ustrissi]mo, e Rev[erendissi]mo Monsignor Arci- 
vescovo di Firenze, e sua Curia Arcivescovili all'effetto che la sentenza medesima venga a suo 
luogo, e tempo revocata pienamente, ed in riparazione sia dichiarato nullo il supposto Matri- 
monio sud[dett]o con tutte le dichiarazioni che saranno credute opportune, e che le S[igno] 
re? in proprio, e respettivamente? suddetti si riservano d’implorare, siccome si riservano pari- 
menti di proseguire avanti il sud[dett]o Metropolitano ai modi, e forme volute dalla Legge!*° 


Evidentemente allo scopo di procedere in tale appello, il Bozzi il 13 marzo 
successivo faceva richiesta che fossero comunicate in Da: scritta le motivazioni 
della sentenza!8!. Tali motivazioni non erano tuttavia state ancora rese pubbliche 
nel gennaio del successivo 1827, come si apprende da una lettera inviata al vica- 
rio generale Pistoia il giorno 15 di quel mese da 


Messer] Antonio Ulivieri, e M[esser] Pietro Gamberai? Fiorentini, il primo nella sua 
qualità di Promotore della Disciplina Ecclesiastica e Difensore del Vincolo nella Causa 
Matrimoniale vertente in grado di Appello avanti la Curia Arcivescovile di Firenze infra 
i Siglnor]i Franceschi, e Guasco, e la Maria Marraccini, ed il secondo come Difensore 
della detta Marraccini Parte appellata!*° 


con la quale gli comunicavano di essere 


nella necessità di portare avanti di Lei i loro giusti e rispettosi Reclami, onde nel più 
ristretto termine siano depositati in cotesta Cancelleria Vescovile i Motivi dell’appellata Sen- 
tenza de’ 22 Febblrai]o1826, ormai ritardati anche con troppa oscitanza, ed in onta dei 
vigenti Regolamenti da circa Undici Mesi!83, 


179. Ivi, Appello, 22 II 1826, G.M. Bozzi. 

180 Ibidem. 

!8! Cfr. Ivi, “I[ustrissi]mo, e Reverendissimo Monsignor Vescovo di Pistoja [...], 10 III 1826, 
G.M. Bozzi. 

182 Ivi, “LIlI[ustissi]mo, e R[everendissi]mo Monsignor Vicario [...]”, 15 I 1827, A. Ulivieri. 

18 Ibidem. 


413 


Federico Ceccanti 


In quella che per l'assenza della firma e del uo dell’appena detto mese sem- 
bra essere la minuta della missiva di risposta da inviarsi a Firenze premettendosi: 


i Motivi d[e]lla Causa Matrimoniale Franceschi, e Marraccini subirono un qualche ritar- 
do perché più oltre era stata supposta una Renunzia all’Appello, ed una Accettazione d[e]lla 
prima Sentenza. Ma dacché parve svanita questa Speranza, i Motivi furono compilati, e son 
pronti!8“, 


con tono che appare quasi irridente, si specificava però che 


Questa Cancelleria peraltro hà L'ordine di non rilasciarne Copia ad alcuno, finché non 
siano pagati tutti i diritti dovuti alla Curia per gli Atti d[e]lla Causa da tanto tempo decisa. 

Credo che Vlostra] S[ignoria] Ec[cellentissi]ma riconoscerà giusta questa proibizione, La 
quale è coerente ai Regolam[enti] Veglianti ed al sistema che si pratica anche in cotesta Curia 
Arcivescovile!9, 


Perché quelle motivazioni fossero pubblicate si dovette attendere fino al suc- 
cessivo 28 giugno. Premesso dagli estensori Sebastiano Maggi, Angelo Cecconi e 
Bartolomeo Venturi: 


Dovendo Noi emanare il Nostro Voto sulla validità, o nullità del Vincolo, dopo maturo 
esame sulle resultanze degli atti, e sulle Attestazioni delle Parti fummo nel concorde Senti- 
mento di dichiarare valido ad ogni effetto di ragione il Matrimonio del quale si disputava!8°, 


i tre, ricostruiti i fatti, argomentavano ampiamente la loro decisione, ricono- 
scendo innanzitutto effettiva la residenza di Napoleone a Montebuono e quindi 
nella parrocchia di San Pantaleo, dichiaravano pertanto che “non avendo egli 
altra abitazione che la sua Villa non può avere altro Parroco di quello, nel Circon- 
dario della cui Parrocchia trovasi situata la villa di M[on]teBuono”!#7. Dichiarato 
inoltre gli stessi che “risultava che lo Sposo avea compita l'età d’anni 21, età più 
che si secondo i Sacri Canoni p[er] la Celebrazione d[e]l Matrimonio”!88 
e a riguardo della “mancanza d[e]l Consenso d[e]lla Genitrice allo Sposo è indu- 
bitato, che niuna Legge ha prescritto il Consenso dei Genitori p[er] intrinseca va- 
lidità d[e]l Matrimonio”!*°, rigettando quello che era stato il principale appiglio 
dal quale i familiari del giovane Franceschi speravano di ottenere di 
i “annullamento chiudevano in questi termini: 


Quindi anche nel tema ipotetico in cui dovesse considerarsi tuttora come Cittadino Fran- 
cese lo Sposo, era sempre valido e Santo al cospetto della Chiesa il Vincolo Sacramentale d[e]l 
Matrimonio da Lui (sebbene illecitamente) contratto avanti il Parroco proprio, e colle forme 
prescritte dal Tridentino!”, 


184. Ivi, “Ecclellentissi]mo Sig[nor]e Questo Monsignor Vicario [...]”, ? I 1827, senza firma. 

18 Ibidem. 

186 Ivi, Pistorien[sis] Validitatis Matrimonii diei 22 Februarii 1826., 28 VI 1827 06 28, S. Maggi. 
187 Ibidem. 

188 Ibidem. 

189 Ibidem. 

190 Ibidem. 


414 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


Nessuna reazione si ebbe, essendo evidentemente stata valutata inutile la pro- 
secuzione dell’annunciata causa presso la curia arcivescovile, da Firenze a seguito 
di questa pubblicazione. 

Niente si sa di Napoleone e della moglie dopo la dichiarazione della validità 
del matrimonio, ad eccezione del fatto che ad un anno esatto dalla sua celebrazio- 
ne, il 12 agosto 1826, il giovane nobiluomo vendeva al fratello maggiore Luciano 
Eugenio la sua parte dei beni pistoiesi per la somma non indifferente di 7259 
scudi, 3 lire e 12 soldi!”!: somma da cui al primo sarebbe potuta derivare una ren- 
dita altrettanto non indifferente. E nessuna notizia di lui, salvo l’essere ricordato 
un altro passaggio di proprietà che ebbe luogo nel 1848!%, si sa neppure della 
sua vita, se non che il rapporto matrimoniale con Maria Marraccini dovette esser 
solido, come si rileva dai registri dei battesimi della cattedrale di Pistoia, dove, a 
partire dalla prima battezzata 27 settembre 1829, è annotata la nascita di tre figli, 
due femmine ed un maschio. 

Dalle succinte registrazioni dei documenti appena ricordati e appena più 
avanti descritti aa si ricavano alcune notizie, la prima delle quali re- 
lativa al fatto che i tre bambini erano nati, e quindi lì i genitori abitavano, nella 
parrocchia di San Bartolomeo!”. 

Alla prima figlia, che era nata due giorni avanti quello del ricordato battesimo 
era stato dato, forse in omaggio alla nonna paterna, il nome di Caterina! segno 
questo, che lascerebbe intendere, nonostante la sua opposizione al matrimonio 
con la Marraccini, un particolare affetto per lei. Inoltre, altro segnale di quella 
che doveva essere una solida amicizia, padrino di battesimo di quel prima figlia, 
come ancora diversi anni più tardi lo sarebbe stato per la seconda, fu il fattore 
Domenico Rossi'”, uno dei quattro testimoni al matrimonio. 

Questa seconda figlia, nata il 27 maggio 1835 e battezzata tre giorni più tardi, 
ebbe come primo nome quello di Adeltide!” il maschio, destinato a diventare 
alla morte dello zio Vincenzo Eugenio che di figli non ne aveva avuti il proprieta- 
rio di tutti i beni dei de Franceschi, era nato invece il 21 agosto 1831 e gli erano 
stati imposti i nomi di “Pietro Gio[vanni] Bat[tis]ta Luigi Romolo”!”. Il padrino 


19! Cfr. Archivio di Stato di Pistoia (d’ora in poi ASPt), Catasto Granducale, 245, Comunità di 
Porta Lucchese, Arroto di volture dell'Anno 1826, n. 25, dove appunto, dopo la descrizione di una 
parte dei beni posti nella detta Comunità fino ad allora di proprietà di tutti e quattro i fratelli France- 
schi è detto: “Dei quali beni una parte attiene ai Suddetti Eugenio-Luciano, Eugenio, e Giulia del fù 
Generale Gio[van]-Batista Franceschi come loro rata e porzione, e come prima nominati nella Posta; 
e l’altra parte è pervenuta nel Suddetto Sig[nor]e Eugenio-Luciano Franceschi D[alla] Compra fattane 
dal Sig[nor]e Napoleone-Carlo-Giuseppe-Maria d[e]l fù Generale Gio[van] Batista Franceschi di lui 
fratello, e D[el]la quota a detto Venditore spettante, D[etto] prezzo di S[cu]di 7259. 3. 12, compresovi 
i Beni descritti nella Voltura antecedente, e quelli posti nella Comunità di Pistoja come appare dal 
contratto rogato dal D[otto]r Bartolomeo Piatti di Firenze sotto di 12 Agosto 1826”. 

192 Cfr. ASPt, Arroti di volture di Serravalle, N, 51, 1848, n. 65. 

193. Cfr. le registrazioni di cui alle note 194, 196 e 197. 

19% Cfr. AVPt, Battezzati della Cattedrale, II B 671, dal 1827 al 1831, c. 76r, n. 327, 27 IX 1829, dove 
precisamente è registrata con i nomi di “Caterina, Francesca Rom[ola]” e con il cognome “Franceschi”. 

195. Cfr. ibidem, dove è detto appunto: “Complare] Sig[nor]e Domenico q[uondam] Ant[onio] Rossi”. 

196 AVPt, Battezzati della Cattedrale, II B 681, dal 1831 al 1837, c. 109v, n. 416, 30 V 1835; il co- 
gnome è qui “De Franceschi” e il padrino di nuovo il “Sig[nor]Je Domenico q[uon]d[am] Antonio Rossi”. 

197 AVPt, Battezzati della Cattedrale, II B 67r, dal 1827 al 1831, c. 134r, n. 284, 22 VIII 1831. 


415 


Federico Ceccanti 


in questo caso era stato l’“Ecc[el]I[lentissimo] Sig D[ottor] Pietro d[e]l S[ignor]e 
Luigi Matteo Piccoli”!?, non meglio conosciuto, dal quale con tutta probabilità 
era derivato, anteposto a quello Li nonno generale, il primo dei nomi imposti 
al bambino. 

A questi tre è da aggiungere un altro, di nome Tito Cristoforo, i cui dati ana- 

rafici essenziali si conoscono solo per essere riportati sulla lapide tombale; pur 
Hallo di Napoleone Giuseppe per portarne il cognome, potrebbe a rigore non 
esserlo stato anche di Maria Marraccini della cui esistenza l’ultima testimonianza 
è nell'atto di battesimo della seconda figlia, è appunto dalla lapide medesima e 
da una seconda più recente e dall’scrizione più sintetica posta nella medesima 
cappella che si apprende essere nato a Firenze il 27 settembre 1846 e morto il 
22 marzo 1926, essere stato colonnello del Regio Esercito ed essere reduce della 
guerra del 1866'?. Dai componenti della famiglia dei giardinieri erano ricordati 
i suoi soggiorni autunnali a Montebuono, nel periodo della caccia alla quale si 
dedicava nel “salvatico” della villa, e le serate trascorse vicino al fuoco sotto il 
monumentale camino della cucina della villa medesima. 

L’appena detta nascita a Firenze fa pensare, con la riserva di quanto poco sopra 
detto a proposito della Marraccini, . Napoleone Giuseppe e la moglie fossero 
andati a vivere in questa città. Dopo di che, se si esclude quella partecipazione al 
trasferimento di alcuni beni di famiglia poco sopra ricordata, anche di lui non si 
ha più altra notizia. 

La proprietà acquistata dal generale Franceschi risulta all'attivazione del cata- 
sto avvenuta nel terzo decennio di quel secolo tutta intestata a Maria Clorinda e 
al figlio minore Vincenzo Eugenio?°: anche se la prima, per la verità, nelle diverse 
volture, a meno di qualche porzione di cui risulta anche proprietaria, è indicata 
solo come usufruttuaria?”, Ella e i familiari dovevano continuare a vivere a Fi- 
renze e ad usare la villa di Montebuono per soggiorni di piacere, durante uno dei 
quali, nel 1849, il secondo marito Filippo Corboli Scalandroni morì?°. Egli fu 
sepolto nel chiostro del non lontano convento francescano di Giaccherino, sul 
quale i de Franceschi, in qualità di eredi dei fondatori Panciatichi, conservavano 
dei diritti?. Maria Clorinda, che lo seguì un anno più tardi, fu sepolta invece a 


198° Cfr. ibidem. 

199. Asportata la prima delle due lapidi dall’ignota sua sede originaria, essa è conservata all’interno 
della cappella gentilizia dei de Franceschi posta nel cimitero pistoiese della Misericordia. Un tempo visibile 
anche dall’esterno, oggi non lo è più, ma si ha contezza del contenuto da una non troppo chiara immagine 
fotografica pubblicata in Balleri & Piccioli 2021, p. 102, che tuttavia consente la lettura dell’epigrafe, 
ma non, se si eccettua il luogo della nascita, i dati anagrafici, i quali però sono riportati, solo per quanto 
riguarda le date, nella seconda, anch'essa nota per essere riprodotta nell’appena ricordata opera (ivi, p. 98). 

200 Cfr. ASPt, Vecchio Catasto Terreni, Comunità di Porta Lucchese, Sezione C, Tazzera, S. Pan- 
taleo e Montebuono, f. 3, Zavola indicativa dei Proprietarj e delle Proprietà respettive, cc.n.nn, e ASPt, 
Vecchio Catasto Terreni, Comunità di Serravalle, Sezione H, Nievole, Tavola indicativa dei Proprietarj 
e delle Proprietà respettive, cc.n.nn, dove sono elencati gli appezzamenti posseduti nelle dette comunità. 

20! Cfr., ad esempio, quanto citato nelle note 190 e 191. 

Come si apprende dalla lapide sepolcrale, il decesso avvenne precisamente il 21 novembre, 
all’età di sessantanove anni. 

20. In proposito cfr. ASFi, Notarile moderno, Protocolli, 29379, 1811, Notaio Giovanni Domenico 
Angiolucci, C, n. 93, 5 ottobre 1811, cc. 39r e v., dove precisamente è detto: “Parimenti la detta Signora 
Tommasa Venditrice cede, e trasferisce allo stesso Signor Generale Franceschi , tutti, e singoli i diritti, jus, 


202 


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12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


Firenze, dove aveva trascorso la vita e dove l'aveva trovata la morte, nel chiostro 
della chiesa di Santo Spirito in cui dal 1835 si trovava la madre Angela Cateri- 
na?0. 

A questo punto tutti i beni, non più gravati dal peso dell’usufrutto, rimasero 
a Vincenzo Eugenio?”, e ciò fino al primo gennaio 1876, giorno in cui venne 
a morte? Senza figli, evidentemente scomparsi prima di lui i fratelli Luciano 
Eugenio e Napoleone Giuseppe, fu il primo dei due maschi di quest'ultimo, l’in- 
gegnere Pietro Giovan Battista, ad ereditare l’intera proprietà?”. 

La laurea dovette da lui essere stata conseguita presso l’Università di Pisa, città 
alla quale dovette sempre rimanere legato; dell'impiego, almeno negli anni giova- 
nili, di quel suo titolo è dato conto dalla presenza del suo nome negli anni 1858 
e 1859 nel “Ruolo [...] dei soggetti specialmente approvati all'esercizio delle in- 
cumbenze d’Ingegnere d’Acque, Strade e Fabbriche Civili, in servizio dello Stato 
e delle Comunità”, dal quale anche risulta essere domiciliato, evidentemente 
per svolgere il servizio in quella città, a Firenze”. In un ulteriore elenco, succes- 
sivo all’annessione della Toscana al regno di Sardegna, quello datato 2 gennaio 
1861, tuttavia il de Franceschi non compare più?!°, avendo evidentemente rinun- 
ciato a quell’incarico o essendo dallo stesso stato rimosso; negli anni seguenti, 
poi, tali elenchi, probabilmente a causa delle modificazioni organizzative di quel 
genere di servizio derivanti dalla costituzione del nuovo stato unitario italiano, 
non compaiono più nei repertori analoghi a quelli ricordati che li avevano con- 
tenuti in precedenza. 

Nel 1879, quando ormai da tre anni era divenuto proprietario di tutto il pa- 
trimonio di famiglia, pur continuando va risiedere a Pisa°!!, risulta far parte del 
Consiglio comunale di Pistoia?!?. Nella tabella che elenca i consiglieri, per quanto 


azioni, ragioni ad Essa in qualunque modo spettanti sopra il Convento soppresso di Giaccherino, Orto, 
Bosco, ed altre Terre, che vi sono annesse, che erano d’antica proprietà della famiglia Panciatichi, per quan- 
to però importi la porzione spettante a detta Signora Tommasa, e non altrimenti [...]”. 

204. Cfr. De Franceschi, SIUSA, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivisti- 
che: https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=prodfamiglia&Chiave=28212&Ri 
cDimF=2&RicProgetto=reg-tos 

20. Cfr. ASPt, Vecchio Catasto Terreni, Campione della Comunità di Porta Lucchese, Tomo IL, c. 373. 

206 Cfr. ASPt, Vecchio Catasto Terreni, Supplemento al Campione della Comunità di Porta Lucchese, 
Tomo XI, c. 3234. 

207 Cfr. ibidem, dove l'intestazione: “De Franceschi Barone Pietro Gio[vanni] Batt[ist]a fu Napo- 
leone Giuseppe” attesta, se ve ne fosse bisogno, la precedentemente, a quell’epoca, avvenuta morte di 
quest’ultimo. 

208. ASPt, Comunità civica di Porta Lucchese, serie III, n. 38, Ordini Ministeriali e Lettere dal 10 
Gennaio 1858 al 31 Diclem]bre 1859, cc.n.nn. 

200 Ibidem. 

210. Ivi n. 40, Ordini Ministeriali [...], cc.n.nn. L'elenco è datato 2 gennaio 1861 e il direttore non 
è più Alessandro Manetti, bensì Gaetano Giorgini. 

2! Cfr. Ottanelli 2000, tab. 1, pp. 364-365. Forse il barone Pietro Giovan Battista abitava in quel- 
la casa probabilmente pervenuta ai de Franceschi con l'acquisto della proprietà di Tommasa Panciatichi 
(cfr. la nota 5 nella quale, sempre non con certezza, ma con ragionevole probabilità, avevano abitato lo 
zio Luciano e il padre Napoleone durante i loro studi universitari (cfr. la nota 110 e il testo relativo). 


22 Cfr. ibidem. 


417 


Federico Ceccanti 


nel riportare il “valore approssimativo dei beni stabili posseduti nel Comune”?! 
nella stessa sia collocato ai vertici e molti anche assai meno ricchi di lui fossero 
indicati solo con la qualifica di “Possidente”?!*, ad indicare che traevano da vivere 
unicamente dalle rendite prodotte dai loro averi, è tuttavia indicato di professio- 
ne ingegnere?!». 

Anche in un raro biglietto da visita in cui è qualificato con il titolo nobiliare 
di barone che gli competeva dopo la morte dello zio a cui è premesso quello acca- 
demico di ingegnere ne è indicata la residenza a Pisa dove dovette, salvo più che 
probabili soggiorni a Montebuono per seguire l'andamento delle attività e, con 
ogni probabilità, per diletto e svago, continuare a vivere ancora a lungo. 

A tal proposito, infatti, il parroco di San Pantaleo lo avrebbe annotato per la 
prima volta, per poi proseguire fino a pochi anni prima della morte?!°, nello stato 
delle anime solo nella primavera dell’anno 1894 indicandolo residente nella villa 
unicamente con il figlio Carlo Giuseppe e con la moglie di quest'ultimo Nella 
Alvisi, senza però una propria consorte?!”, della quale peraltro niente si conosce, 
evidentemente all’epoca deceduta. 

Come appena accennato, il barone Pietro doveva tuttavia usare la villa di 
Montebuono anche precedentemente per le sue villeggiature, per controllare la 
gestione della proprietà da parte dei sottoposti e i per seguire i lavori di 
manutenzione e di innovazione al complesso della villa e delle sue adiacenze. A 
questo riguardo, avvalendosi senza dubbio della sua formazione di ingegnere che 
all’epoca sua, dopo un conseguimento iniziale di una laurea in scienze fisiche e 
matematiche, prevedeva vari altri insegnamenti ed esercitazioni pratiche e una 
frequentazione biennale dell’Accademia di Belle Arti?!5, mise in atto molti re- 
stauri ed introdusse impianti tecnici moderni, provvide all'ampliamento del “sal- 
vatico” mediante una attardata sistemazione all'inglese con laghetto, montagnola 
e finta grotta sottostante e ad aggiungere alla fabbrica principale un corpo più 
basso, simmetrico a quello già esistente sul lato occidentale, destinato questo ad 
accogliere i locali per le attività amministrative della fattoria e l'alloggio del fatto- 
re, fin dalle origini ospitate in locali del piano terreno della villa, arricchendo gli 
alti muri di cinta muoventisi da essi di uno stilisticamente incongruo elemento 
neomedioevale costituito da merlature guelfe e due torrini in laterizio, anch'essi 
merlati?!°, nel probabile intento di evocare le origini trecentesche della villa ri- 
chiamate all’interno da alcune fantasiose immagini volte a ricostruirne idealmen- 
te l’aspetto in quelle epoche remote. 

Il barone Pietro Giovan Battista trascorse quindi gli ultimi due decenni della 


283. Ibidem. 

24 Ibidem. 

25. Cfr. ibidem. 

216 Gli stati delle anime di quel periodo, conservati presso la parrocchia di San Pantaleo, ai quali 
non è stato possibile accedere, sono stati tuttavia pubblicati riprodotti fotograficamente in Balleri & 
Piccioli 2021, Appendice II, pp. 224-235. 

27 ADPt, Parrocchia di San Pantaleo, XXVII, Stati delle anime, 30, 1894, cc.n.nn., n. 90. 

218 Lamberti 2011, pagine non numerate. 

Per gli interventi sulla villa cfr. Gennari & Gesualdo 2004, p. 164 e per l'ampliamento del 
“salvatico” cfr. ivi, p. 167. 


219 


418 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


sua vita a Montebuono, dove morì 111 giugno 1915°°°. Tuttavia, a testimonianza 
del forte vincolo affettivo nei confronti di quella città, volle essere sepolto a Pisa. 
La sua tomba si trova nel Camposanto suburbano della stessa. La lapide sepolcra- 
le sul pavimento della cappella, nella Sezione L, Loggiato 6, contrassegnata con il 
numero 7, porta incisa semplicemente la scritta 


DE FRANCESCHI BARONE GIO BATTA 


e niente altro, né alle pareti della cappella stessa è presente, come è invece per 
molti degli altri sepolti un qualsivoglia monumento o una lapide encomiastica 
riportante gli aspetti salienti della figura defunto, quanto meno i suoi dati anagra- 
fici. Dalle pur scarse e frammentarie notizie raccolte su di lui e appena riportate, 
tuttavia, si trae l'impressione che sia stato un personaggio positivo, concreto e 
attivo. 

È, per concludere, il caso di fare un cenno all’anomala e inquietante vicenda, 
la cui memoria di quando in quando riemergeva nella famiglia dei giardinieri 
particolarmente attraverso il racconto di uno dei suoi membri che ad essa aveva 
preso parte, che riferiva di un romanzesco trasporto notturno del cadavere fatto 
in gran segreto con una carrozza nella città della Torre Pendente. 

Il figlio Carlo Giuseppe, avvocato, figura di primo piano nella vita culturale 
e politica di Pistoia, appassionato ed esperto di cose agronomiche, in questa sua 
città gli sarebbe stata dedicata la scuola agraria, oggi Istituto Professionale di Sta- 
to per l'Agricoltura e 1’ Ambiente “Barone Carlo de Franceschi”, tenne fino alla 
morte, avvenuta nel 1937, la proprietà in maniera perfetta. Passata questa alla 
sua figlia maggiore Maria Clorinda, in un periodo in cui, negli anni successivi 
alla guerra, per l'abbandono da parte dei contadini della terra Lc ne costituiva la 
fonte di ricchezza, dalla stessa ne fu con tutte le forze difesa l'integrità arrivando 
a raggiungere questo per lei primario obbiettivo, a prezzo però di un visibile peg- 
gioramento della proprietà stessa. Morta nel 1988, il suo erede ne vendette una 
quindicina di anni più tardi porzioni consistenti, tra cui la villa, oggi vuota e in 
desolante decadenza. 


220 


Cfr. ASPt, Vecchio Catasto Terreni, Supplemento al Campione della Comunità di Porta Lucchese, 
Tomo XXIV, c. 6807. 


419 


Federico Ceccanti 


Bibliografia 


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CapponI, VittoRIO (1878), Biografia Pistoiese. Tipografia Rossetti, Pistoia, 


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ville e residenze urbane, a cura di Emilia Daniele, Alinea Editrice, Firenze, pp. 
157-168. 

Il barone Carlo de Franceschi (s.d.), a cura di Rita Frosini, Istituto Professionale 
di Stato per l'Agricoltura e 1’ Ambiente “Barone Carlo de Franceschi” — Agri- 
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Lamberti, Claudia (2011), La Facoltà di Ingegneria dell’Università di Pisa tra XIX 
e XX secolo, in Fare l'Italia. Il contributo degli ingegneri, catalogo della mostra 
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ca 1813) (2011), a cura di Natale Rauty, in “Bullettino Storico Pistoiese”, 
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del forestiero a conoscere i luoghi e gli edifici più notevoli per l'istoria e per l'arte, 
Tipografia Cino, Pistoia. 


420 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


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Fig. 1: Raffigurazione pittorica tardosettecentesca della villa di Montebuono in una stanza del piano 
nobile della stessa. 


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Fig. 2: Villa di Montebuono: facciata settentrionale sul finire dell'Ottocento; la cartolina qui riprodotta 
risulta spedita dal barone Carlo de Franceschi, nipote di Napoleone Giuseppe. 


421 


Federico Ceccanti 


Fig. 3: Villa di Monibuono: facciata sul giardino nei primi decenni del Novecento. 


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Fig. 4: Veduta della campagna dalla loggia del piano nobile della villa di Montebuono antecedente alla 
costruzione dell'autostrada Firenze-Mare (fine anni Venti del Novecento). 


422 


12 agosto 1825: un matrimonio a sorpresa nella villa di Montebuono presso Pistoia 


Fig. 5: Villa di Poggio alla Guardia, già in condizioni di degrado, nella primavera del 1974. 


Fig. 6: Biglietto da visita del barone Pietro Giovanni Battista de Franceschi. 


423 


Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa 
e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


FRANCESCO FIUMALBI 


Introduzione 

I giorni che vanno dal 26 aprile al 24 maggio 1915, ovvero dal giorno in cui 
fu stipulato il Patto di Londra al momento in cui l’esercito italiano oltrepassò il 
confine austriaco, furono chiamate retoricamente le «radiose giornate di maggio». 
Col medesimo significato, spesso fu evocato il «maggio radioso». Non vi è certezza 
su chi sia l’autore di tali espressioni, benché alcuni ne attribuiscano la paternità a 
Gabriele D'Annunzio, la figura intellettuale che più di altre si spese con discorsi 
e orazioni affinché l’Italia prendesse parte al conflitto contro È Impero Austro- 
Ungarico. Tuttavia fu uno slogan di grande successo nel Dopoguerra, che ben 
si inseriva nella retorica dannunziana e ancor di più all’interno del corpus ide- 
ologico fascista. D'altra parte tanto per D'Annunzio, quanto per Mussolini, la 
guerra fu un grande evento rigeneratore. Come osservava Agostino Lanzillo nel 
1918, si sviluppò l’idea che milioni e milioni di vite non potevano essere state 
falcidiate senza che rinnovamenti prodigiosi non derivino dall'ecatombe immane’. 
È per questo motivo che fu definito “radioso” il momento in cui si era affermato 
l’interventismo, l’inizio del processo che vide la sconfitta dei conservatori e di 
tutte le forze morte della nazione da parte dei rivoluzionari e con questi tutte le forze 
vive del Paese, ovvero la fine dell’Italia liberale nata dal Risorgimento e l'ascesa 
del nuovo stato fascista, plasmato nel sangue della guerra?. E non è certo casuale 
che alla Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932 le prime due sale espositive 
fossero dedicate all'intervento nella Grande Guerra. Insomma, le radiose giornate 
di maggio furono il risultato di una retorica basata sul fatalismo storico, ma anche 
sulla costruzione di una narrazione nazionale priva di complessità e ambiguità, 
prodotta per affermare valori identitari indiscutibili e obbligatori e per rimuo- 
vere i punti di tensione e conflittualità che pure erano presenti‘. Fu un mese in 
cui l’Italia passò dalla neutralità all’interventismo, in cui il Paese si trovò diviso 
fra manifestazioni interventiste e scioperi neutralisti, culminato con il voto alla 
Camera del 20 maggio e la dichiarazione di guerra all’Austria. Nelle pagine che 
seguono si cercherà di indagare cosa avvenne fra i mesi di aprile e maggio 1915 


! LANZILLO 1918, p. 173. 

2 Mussolini pronunciò queste parole il 12 dicembre 1914 a Parma, cfr. OPERA OMNIA, VII, 
1951, pp. 78-79. 

3. FIORAVANTI 1990, p. 30. 

‘ DEI 2016, pp. Per una complessiva riflessione a proposito dei “luoghi della memoria” da un 
punto di vista antropologico si rimanda a E. Dei, Antropologia Culturale, 2° Ed., Il Mulino, Bologna, 
2016, pp. 197-203; 264-267. 


425 


Francesco Fiumalbi 


all’interno del territorio dell'allora Circondario di San Miniato? — che, oltre al 
territorio sanminiatese, comprendeva Empoli, il Medio Valdarno Inferiore e la 
Valdelsa fiorentina — non senza piccole divagazioni a Pisa e Firenze. 


Il contesto italiano 

Il 26 aprile 1915 il Governo italiano — nelle persone del Presidente del Consi- 
glio Antonio Salandra e del Ministro degli Esteri Sidney Sonnino — e i rappresen- 
tanti della Triplice Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) stipularono un accordo 
segreto, il cosiddetto “Patto di Londra”. L'Italia, che fino a quel momento si era 
mantenuta neutrale, si impegnava ad entrare in guerra a fianco dell’Intesa entro 
un mese. In cambio e in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Trentino, il Tirolo 
Meridionale (Alto Adige), la Venezia Giulia, gli altipiani carsici e isontini, VI- 
stria (eccetto Fiume), un terzo della Dalmazia, parte dell'Albania e la conferma 
della sovranità sulla Tripolitania, sulla Cirenaica e sul Dodecaneso. Sull’accor- 
do internazionale, che costrinse alle trincee gli italiani, fu determinante il ruolo 
di Vittoria Emanuele III, pur rimasto attentamente in zona d'ombra. Da quel 
momento si avviarono le manovre politiche affinché il Parlamento ratificasse gli 
impegni con le potenze occidentali, culminate con la votazione del 20 maggio 
e con il conseguente inizio delle ostilità contro l’Austria-Ungheria. Non mancò 
chi definì l'iter istituzionale come un vero e proprio colpo di stato mascherato®. 

Di fronte al deflagrare del conflitto in Europa, in Italia si svilupparono due 
grandi correnti di pensiero, fra chi riteneva che anche l’Italia dovesse prendere 
parte alla guerra e coloro che ritenevano dovesse mantenere un atteggiamento 
neutrale. Anche se i due schieramenti proponevano due posizioni nette e inconci- 
liabili fra loro — intervento vs neutralità — la loro composizione era estremamente 
variegata ed eterogenea. Gli stessi partiti parlamentari, al loro interno erano attra- 
versati da fratture e da opposti punti di vista, derivanti da posizioni ideologiche, 
pratiche e di opportunità”. 

Giovanni Giolitti, già Presidente del Consiglio e massimo esponente libera- 
le, era fermamente contrario alla guerra poiché riteneva l’Italia impreparata a 
sostenere gli sforzi che il conflitto avrebbe comportato. Era favorevole alle trat- 
tative con Austria e Germania al fine di ottenere alcune concessioni territoriali 
per mantenere la neutralità ed evitare di imbarcarsi in una guerra i cui esiti erano 
tutt'altro che scontati”. Anche la maggior parte dei Cattolici, aderendo alle posi- 
zioni di Benedetto XV, erano contrari alla guerra sia per motivi religiosi che per 
opportunità di politica internazionale: l’Austria era cattolica e poteva rappresen- 
tare un valido sostegno contro la laicità moderna incarnata dalla Francia anticle- 
ricale e repubblicana?. Infine i Socialisti, il cui pacifismo era dettato dall’amara 


°. Il Circondario di San Miniato in Provincia di Firenze era composto dal Medio Valdarno Infe- 


riore, dall’Empolese e dalla Valdelsa fiorentina. Rimase tale fino al 1925, quando, con il Regio Decreto 
del 15 novembre 1925 n. 2011 fu smembrato dell’Empolese-Valdelsa e assegnato alla Provincia di Pisa. 
6 Sul Patto di Londrae il processo decisionale nell’ambito dei vertici istituzionali si veda Asruro 
2019. Sulla lettura degli eventi come un colpo di stato si veda ZENATELLI 2014. Il testo del documento 
è stato ripubblicato anche in VERSORI 2015, pp. 199-203. 
7. Peruna sintesi complessiva si rimanda a GENTILE 2014, pp. 74-79. 
In proposito PavonE 1962; cfr. COMPAGNA 2015. 
Sulle posizioni dei cattolici e di Benedetto XV si veda Rossini 1963. 


8 


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Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


consapevolezza che a morire al fronte sarebbero stati inviati i figli dei contadini e 
degli operai. Proponevano una visione “internazionale”, da contrapporre ai par- 
ticolarismi nazionali: i proletari erano tutti “compagni”, indipendentemente dal 
loro paese di appartenenza. Secondo Lenin, la guerra era da inquadrare unica- 
mente all’interno delle logiche borghesi delle potenze europee, nonché delle mire 
imperialiste e dinastiche, concepita per creare nuovi mercati. I socialisti italiani, 
tuttavia, risolsero la propria posizione con un compromesso, sintetizzato nello 
slogan “Né aderire né sabotare”!°. 

Il partito interventista rappresentava, inizialmente, una netta minoranza nel 
Paese. Le principali motivazioni di un approccio favorevole alla guerra risiedeva- 
no nel fatto che l’Austria fosse il nemico storico, contro cui l’Italia aveva dovuto 
combattere per la propria indipendenza. Anche molti socialisti avevano dichia- 
rato la propria avversione all’ Austria: da Cesare Battisti a Benito Mussolini!!, ma 
anche Leonida Bissolati e Gaetano Salvemini che si rifacevano alla tradizione 
mazziniana. Non mancavano i socialisti rivoluzionari che vedevano nella guerra 
l'occasione per emancipare le classi proletarie. Agli ideali risorgimentali si riface- 
vano i liberali conservatori, come il Presidente del Consiglio Antonio Salandra, il 
Ministro degli Esteri Sidney Sonnino e il Direttore de // Corriere della Sera Luigi 
Albertini, esponente della borghesia industriale milanese. E poi c'erano gli mA 
lettuali avanguardisti, i futuristi e personalità come Gabriele D'Annunzio, ma 
anche lo stesso Vittorio Emanuele III: Vittorio Emanuele II aveva fatto l’Italia, il 
nipote voleva renderla grande!?. 

La prima mossa formale dopo il “Patto di Londra” avvenne il 4 maggio 1915, 
quando l’Italia dichiarò la propria uscita dalla Triplice Allenza, l'accordo sotto- 
scritto con la Germania e l'Impero Austro-Ungarico un trentennio prima. Da 
quel momento partì la mobilitazione e la campagna interventista si fece sempre 
più accesa. Nel frattempo, il 5 maggio, a Quarto presso Genova, fu inaugurato 
il monumento a Garibaldi e ai Mille che proprio da quel porto avevano dato 
avvio alla spedizione nel 1860. La memoria dell'impresa garibaldina oftrì a D’An- 
nunzio l'occasione per esortare gli italiani a scegliere la guerra, naturale seguito 
ed esito del Risorgimento. «Oggi sta su la patria un giorno di porpora; e questo è un 
ritorno per una nova dipartita, o gente d'Italia. Se mai le pietre gridarono nei sogni 
dei n. ecco, in verità, nella nostra vigilia questo bronzo comanda. [...] [Gari- 
baldi] Disse: “Qui si fa l'Italia 0 si muore”. A lui che sta nel futuro “Qui si rinasce e 
si fa un'Italia più grande” oggi dice la fede d'Italia. O primavera angosciosa di dubbio 
e di patimento, di Spina e di corrucciob"3. 

Dopo lo scioglimento della Triplice Alleanza e il discorso di Quarto, la si- 
tuazione che andava profilandosi era ormai chiara. Giolitti, tuttavia, dalla sua 
casa in Piemonte raggiunse la Capitale per sollecitare il Governo a riprendere le 
trattative con l’Austria e la Germania. Dopo essere stato a colloquio con il Re e 
con Salandra, capì che il Governo si era impegnato con le potenze dell’Intesa e 


10 AMBROSOLI 1961. 


Su Mussolini e il suo passaggio dal campo socialista all’interventismo si rimanda a GENTILE 
1996, pp. 61-110; GENTILE 2020, pp. 47-88. 

° IsnEGHI ROCcHAT 2008, pp. 99-111. 

5 D'ANNUNZIO 1920, pp. 13-33. 


11 


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Francesco Fiumalbi 


che solo il Parlamento poteva sciogliere gli accordi e rinnovare l’indirizzo neu- 
trale. 300 deputati e 100 senatori lasciarono il proprio biglietto da visita nella 
cassetta della posta dell’appartamento romano di Giolitti, in segno di solidarietà 
e concordanza di vedute. La maggioranza parlamentare era ancora “neutralista” e 
ciò indusse Salandra a presentare le dimissioni nelle mani di Vittorio Emanuele 
II, il quale le respinse. A questo punto a Roma scoppiarono molteplici disordini, 
specialmente contro Giolitti e la maggioranza dei parlamentari. Alcuni gruppi, 
diventati sempre più violenti, diedero l'assalto al Palazzo di Montecitorio!*. In- 
tanto Mussolini, ul colonne de Il Popolo d’Italia tuonava contro i neutralisti e 
contro lo stesso Parlamento, ritenuto corrotto e da estirpare. Nel clima rovente 
di quei giorni, in fervida attesa per le decisioni che sarebbero state prese dalla 
Camera convocata per il 20 maggio 1915, fece nuovamente il suo ingresso sulla 
scena Gabriele D’Annunzio. Il poeta, in diverse occasioni, incitò la folla ad usare 
anche la violenza, se necessario, per punire i traditori della Patria: «Compagni, 
non è più tempo di parlare ma di n. non è più tempo di concioni ma di azioni, e 
di azioni romane. Se considerato è come crimine l'incitare alla violenza i cittadini, 
io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo. Se invece di allarmi io 
potessi armi gettare ai risoluti, non esiterei: né mi parrebbe di averne rimordimento. 
Ogni eccesso della forza è lecito, se vale ad impedire che la Patria si perda. Voi dovete 
impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori riesca ad imbrattare e a Piese 
l’Italia»!°. Non mancarono tensioni in tutta Italia: gli interventisti si scagliarono 
contro Giolitti, mentre i neutralisti manifestavano contro il governo, attraverso 
scioperi e tumulti. 

Nella seduta della Camera del 20 maggio 1915 Salandra, dopo la crisi dei 
giorni precedenti, chiese i “pieni poteri”, ovvero i poteri di dichiarare guerra, 
come si evince dal resoconto stenografico: «Mi onoro di presentare alla Camera un 
disegno di legge per il conferimento al Governo del Re di L straordinari in caso di 
guerra. (Approvazioni). E (ig chiedo che esso sia dichiarato di massima urgenza, 
darò lettura alla Camera della relazione nella quale sono comprese le comunicazioni 
del Governo. Onorevoli colleghi! [...] In questo stato di cose, considerata la gravità 
della situazione internazionale, il Governo deve essere anche politicamente preparato 
ad affrontare ogni maggiore cimento e col presente disegno di legge vi chiede i poteri 
straordinari, dl gli occorrono. Tale provvedimento non solo è, in sé, del tutto giusti- 
ficato da precedenti nostri e di altri Stati, Li che sia la forma di Governo onde 
son retti; ma rappresenta una migliore coordinazione, se non pure una attenuazione, 
di quelle facoltà che lo stesso nostro diritto vigente di d'altronde al Governo, 
allorché ai quella suprema legge che è la salute dello Stato. (Vivissimi generali 


applausi »I7. 


4. Sul particolare momento che vide l’azione di Giolitti e l'assalto del Palazzo di Montecitorio, si 


veda De BIAsE 1957. 

GENTILE 2014, p. 79. 

!‘6 Discorso di Gabriele D'Annunzio pronunciato la sera del 13 maggio 1915 a Roma di fronte 
alla folla radunata in una piazza. Il testo fu poi pubblicato in D'ANNUNZIO 1920, pp. 73-74. Cfr. GEN- 
TILE 2014, p. 80. 

7 Come osservato da Indro Montanelli: «solo Turati si alzò a fare opposizione. I 300 giolittiani 
tacquero, e al momento del voto si schierarono col governo dandogli una maggioranza di 407 contro 74. Era 
l'abdicazione alla volontà della piazza, che a sua volta aveva abdicato alla volontà di una minoranza, come 


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Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


Il 24 maggio l’Italia varcò i confini austriaci. Era iniziata la guerra. «A voi la 
gloria di piantare il tricolore d'Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini 
della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto eroismo 
iniziata dai nostri padri». Con queste parole Vittorio Emanuele III concluse il 
proclama all'esercito e salutò l’inizio delle operazioni belliche. 


Manifestazioni, dimostrazioni e tumulti in Valdelsa 
e nel Medio Valdarno Inferiore 

Fra la fine di aprile e il maggio 1915, quando l’ingresso dell’Italia in guerra 
si faceva ogni giorno più imminente, la situazione fra Valdelsa e Medio Valdar- 
no Inferiore era particolarmente tesa. I primi movimenti di protesta sorsero in 
concomitanza della partenza dei richiamati alle armi in vista della mobilitazione 
e dei preparativi nella seconda metà del mese di aprile, ovvero nei giorni che 

recedettero il Patto di Londra. In breve tempo, le dimostrazioni antibelliciste si 
duo con le manifestazioni del 1° maggio e proseguirono, con sempre maggiore 
frequenza, fino alla formale dichiarazione di guerra. Di questo abbiamo notizie 
grazie a quotidiani nazionali come Il Corriere della Sera, La Stampa e l’Avan- 
til. Dal 24 maggio entrarono in vigore le disposizioni urgenti in materia di pub- 
blica sicurezza, emanate dal re Vittorio Emanuele III, per cui anche la stampa 
fu costretta a censurare gli episodi di protesta, le dimostrazioni e i tumulti che 
comunque si verificarono nei giorni successivi. 

La prima protesta significativa di cui si abbia notizia proviene dalla zona 
empolese. Il giorno martedì 20 aprile 1915 centinaia di donne, provenienti dal 
Montalbano, da Vinci e da Cerreto Guidi mossero verso Empoli per manifestare 
contro la guerra. Qui la folla, ingrossata da uomini e donne provenienti dai pa- 
esi vicini e dalla stessa Empoli, invasero la stazione ferroviaria che era occupata 
dall’8° Compagnia dell’87° Reggimento Fanteria, da numerosi Carabinieri e le 
autorità di pubblica sicurezza provenienti da San Miniato. Scoppiò un grave 
parapiglia, la linea ferroviaria fu interrotta e vi furono diversi feriti. Nei giorni 
seguenti la città di Empoli fu militarizzata, vennero arrestate circa 100 persone, 
ma solamente 34 di queste finirono a processo per direttissima presso il Tribu- 
nale di San Miniato. 


Di seguito l’articolo dell’«Avanti» Anno XIX, n. 110 del 21 aprile 1915, pp. 1-2: 


Contro la guerra. Violente dimostrazioni a Empoli. FIRENZE, 20 notte. 
Da Empoli si hanno le seguenti notizie: Stamane sono scesi da Montalbano, da Vinci 
e da Cerreto Guidi circa 300 donne. A queste si sono aggiunti parecchi uomini ed 
altre donne dei villaggi vicini. I dimostranti hanno transitato per le vie principali 
della città gridando: abbasso la guerra! Una imponente dimostrazione è stata sia 
a mezzogiorno in vicinanza del municipio. È stata ottenuta anche la chiusura dei 
negozi. La folla si è poi riversata in piazza e si è recata alla stazione ferroviaria, che 
era occupata militarmente da soldati e da numerose guardie di PS. E carabinieri. Il 
delegato [il delegato alla Pubblica Sicurezza sig. Adorni, n.d.r.] del paese ha arrin- 
gato la folla cercando di persuaderla a non andare alla stazione, ma la folla non ha 
dato ascolto alle parole del delegato e si è recata in massa alla stazione ove si sono date 


del vesto in Italia era sempre successo». MONTANELLI 1974, p. 238. 


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Francesco Fiumalbi 


a tumultuare. Sono avvenute gravi colluttazioni, durante le quali sono state rotte le 
cancellate della stazione. L'ira popolare si è scatenata su un carabiniere aggiunto il 
quale aveva dato una piattenata [un colpo di spada dato di piatto, n.d.r.] ad una 
donna. Il carabiniere si è potuto salvare a tempo sorretto dai suoi compagni. Sono 
avvenute altre colluttazioni con la forza pubblica e finalmente la folla numerosissima 
invase la stazione impedendo la partenza del treno merci 1650 proveniente da Firen- 
ze alle ore 1,31. La macchina venne staccata ed è stata messa attraverso al binario 
per ostacolare il procedimento del treno 1649 che da Livorno si reca a Firenze. I 
dimostranti hanno continuato per molto tempo a tumultuare. Durante un tafferuglio 
assai serio sono stati feriti mediante colpi di pietra il tenente dei Carabinieri. Alcuni 
monarchici si sono adoperati per invitare la folla a sciogliersi, ma sono stati percossi. 


Vinci (Empoli). — Dimostrazione di donne — Una massa compatta di donne si 
recò sulla piazza del Comune, allo scopo di fare una protesta contro la guerra. Solo a 
stento e per opera della minoranza socialista si poterono evitare avvenimenti gravi. È 
stato votato un ordine del giorno così concepito: «Vista l'odierna situazione interna- 
zionale e sulle voci di un'imminente entrata in campo dell'Italia: protestano contro 
la guerra e fanno voti affinché i loro figli non vengano trascinati in questo immane 


flagello» 


Il fatto destò particolare clamore e suscitò l’attenzione della stampa nazionale. 
Di seguito l’articolo de «Il Corriere della Sera», Anno XL, n. 110 del 21 aprile 
1915, p. 4: 


La stazione di Empoli invasa dalla folla. Colluttazioni e feriti. Firenze, 
20 aprile, notte. Il Nuovo Giornale di stasera pubblica il seguente fonogramma da 
Empoli: Stamane sono scese da Montalbano, da Vinci, da Cerreto Guidi circa 300 
donne. Alle donne si sono aggiunti parecchi uomini e altre donne dei villaggi vicini. 
I dimostranti hanno transitato per le vie principali della città gridando «abbasso 
la guerra”». Una dimostrazione è stata fatta alle ore 12 dinanzi al Municipio ed è 
stata imposta la chiusura dei negozi. La folla si è riversata in piazza e si è recata poi 
alla stazione ferroviaria, che era occupata dall'ottava compagnia dell’87° fanteria 

ui in distaccamento e da numerose guardie di PS. e carabinieri. Il delegato Adorni 
ia arringato la folla esortandola a non eccedere. Infine ha dichiarato che a nessun 
costo avrebbe permesso che la stazione fosse invasa. Ma le sue esortazioni sono state 
vane, poiché in vicinanza della stazione erano oltre duemila persone che si sono date 
a tumultuare e a commettere disordini. Sono avvenute gravi colluttazioni, durante 
le quali fu rotta la cancellata della stazione. L'ira popolare allora si è scatenata su un 
carabiniere che aveva dato una piattonata a una donna. Il povero carabiniere è stato 
salvato a stento dai commilitoni. Sono avvenute altre colluttazioni colla forza pub- 
blica e finalmente la folla numerosissima ha invaso la stazione impedendo la parten- 
za del treno merci 1650 proveniente da Firenze alle ore 13,40. La macchina è stata 
staccata e è stata messa attraverso i binari per ostacolare il proseguimento del treno 
1649, che da Livorno si reca a Firenze. I dimostranti continuarono a tumultuare. 
Durante un tafferuglio assai serio sono rimasti feriti da colpi di pietra il tenente dei 
carabinieri di S. Miniato e un milite. Alcuni cittadini si sono adoperati affinché 
ritornasse la calma. Ma ebbero la peggio perché due di costo e cioè Ilio Panzani e 
Ferdinando Liserani sono stati percossi e feriti. 


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Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


Anche «La Stampa», Anno XLIX, n. 110 del 21 aprile 1915, p. 6 dette risalto 
all'episodio empolese: 


Gravi disordini ad Empoli. La stazione ferroviaria invasa dai dimostran- 
ti. Un tenente, un carabiniere e due cittadini feriti. Firenze, 20, notte. Il «Nuovo 
Giornale» ha da Empoli: Stamane, sono scese da Monte Albano, da Vinci, da Cerreto 
circa trecento donne alle quali si sono uniti parecchi uomini e altre donne dei villaggi 
vicini. I dimostranti hanno transitato per le vie principali della città gridando «Ab- 
basso la guerra». Una dimostrazione è stata fatta alle ore 12 dinanzi al municipio. È 
stata imposta la chiusura dei negozi. La folla si è riversata in piazza e poi si è raccolta 
alla stazione ferroviaria che era stata occupata militarmente da una compagnia di 
fanteria, da numerose guardie di pubblica sicurezza e da carabinieri. Il delegato ha 
arringato la folla esortandola a non eccedere ed ha dichiarato infine che a nessun costo 
avrebbe permesso che la stazione fosse invasa. Ma le sue esortazioni sono state inutili, 
poiché le vicinanze della stazione erano vigilate da oltre duemila persone, che si sono 
date a tumultuare e a commettere disordini. Sono avvenute gravi colluttazioni du- 
rante le quali è stata rotta la cancellata della stazione. L'ira popolare si rovesciò su di 
un pia aggiunto, il quale aveva dato una piattonata a una donna. Il povero 
carabiniere è stato salvato a stento dai commilitoni. Sono avvenute altre colluttazioni 
con la forza pubblica e finalmente la folla ha invaso la stazione impedendo la parten- 
za del treno merci 1650 proveniente da Firenze alle ore 15,40. La macchina è stata 
staccata e messa attraverso i binari per ostacolare il proseguimento del treno 1649, che 
da Livorno va a Firenze. I dimostranti, che erano oltremodo inferociti, hanno conti- 
nuato a tumultuare per tutta la serata. Durante i tafferugli sono rimasti feriti da colpi 
di pietra il tenente dei carabinieri di San Miniato e un milite. Alcuni monarchici si 
sono adoprati per far ritornare la calma, ma hanno avuto la peggio, perché due di essi 
sono stati percossi e feriti. 


Ancora sul tumulto empolese l'articolo de «La Stampa» Anno XLIX, n. 111 del 
22 aprile 1915, p. 4: 


I disordini di Empoli. Firenze, 21, sera. Da Empoli si hanno le seguenti notizie: 
È giunto îl sotto-prefetto di San Miniato, che si è subito adoperato per pacificare gli 
animi. E pure arrivato l’on. Modigliani, il quale ha cercato di persuadere la folla, ed 
ha ottenuto la liberazione di un arrestato reclamato dalla folla. Un nucleo conside- 
revole di cittadini ha stazionato per tutta la notte fuori della stazione. La pioggia ha 
però riportata la calma e non sono avvenuti altri incidenti. Nella notte sono stati fatti 
vari arresti. Temendosi tumulti, sono stati inviati rinforzi di truppa da Siena e da 
Pisa. Stamane Empoli ha ripreso il suo aspetto normale e la calma è ritornata negli 
animi. Intanto pattuglie di carabinieri e di militari transitano per le vie principali 
della città, che pare quasi in stato d'assedio. I carabinieri ed altre persone che avevano 
riportato ferite sono stati medicati all'ospedale. 


Di seguito l'articolo de «La Stampa», Anno XLIX, n. 112 del 23 aprile 1915, p. 4: 


Un centinaio di dimostranti arrestati ad Empoli. Empoli, 22, notte. La gior- 
nata è passata tranquilla. Il mercato di oggi si è svolto normalmente. Sono stati operati 
un centinaio di arresti, che sono stati condotti parte a San Miniato e parte a Firenze. 
È stato arrestato il consigliere comunale socialista Ferruccio Paci. L'on. Masini, depu- 
tato del collegio, si è interessato per il rilascio, ma inutilmente. L'on. Masini si è recato 


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Francesco Fiumalbi 


a San Miniato per le relative pratiche presso quelle autorità giudiziarie, perché gli ar- 
restati vengano giudicati per direttissima. La stazione ferroviaria è sempre occupata 
militarmente. Sulla piazza della stazione la cavalleria fa sempre le sue evoluzioni. 


Ancora su l’«Avanti!», Anno XIX, n. 112 del 23 aprile 1915, p. 2 e p. 6: 


CONTRO LA GUERRA. Come si è svolta la manifestazione di Empoli. 
Abbiamo da Empoli: La manifestazione, di cui già avete dato notizia, prese le mosse 
dal Comune di Vinci. Scopo di essa: impedire la partecipazione dei richiamati del 
1891. Circa un migliaio di persone, in maggioranza donne, giungeva verso le 11 ant. 
ad Empoli. Qui, la popolazione tutta aderì alla manifestazione. In un attimo, senza 
nessuna imposizione, si chiusero tutti i negozi e le officine: un vero sciopero generale. 
Verso le 12.30 la folla demi manifestanti (non meno di 3000 persone) si riversò in 
piazza della stazione, ove trovavasi il delegato Adorni con grande stuolo di guardie, 
carabinieri e oltre 300 soldati di fanteria. Erano stati chiusi tutti gli accessi alla 
stazione. La folla accennò senz'altro ad entrare nella stazione. Il delegato si cinse la 
fascia e fece suonare gli squilli. Ma la vasta fiumana popolare, facendo impeto, ruppe 
il cordone e riuscì ad entrare e nell'impedire la partenza dei richiamati. Ottenuto 
questo primo risultato, la folla non volle più uscire dalla stazione e volle impedire la 
partenza dei treni successivi fino alle ore 18, paralizzando tutto il movimento. La 
polizia impotente contro quella vasta ondata popolare domandò grandi rinforzi a 
Firenze: e sul treno delle 18.30 giunse la grande armata composta: genio, cavalleria 
e tutto lo stato maggiore della Sottoprefettura di S. Miniato. All'arrivo di questi rin- 
forzi si ebbero cariche all'impazzata contro quei pochi che là ancora si trovavano e 
si ebbero quattro arresti. Fortunatamente col medesimo treno era giunto da Firenze 
l’on. Modigliani, il quale, compresa la gravità del momento, parlò alla folla, la ri- 
chiamò alla calma, e riuscì pure a far rilasciare alcuni degli arrestati. La chiusura dei 
negozii fino all'indomani, volontariamente, è la prova più eloquente della generale 
avversione alla guerra. Nella nottata furono fatti circa 20 arresti. Ormai Empoli era 
in stato d'assedio. 


La reazione ad Empoli. 

Firenze, 22 notte. Si ha da Empoli: La giornata è passata tranquilla. Sono stati 
però eseguiti 100 arresti e gli arrestati sono stati tradotti parte a S. Miniato e parte 
a Firenze. È stato arrestato anche il consigliere socialista Ferruccio Paci. L'arresto 
ha destato enorme impressione nei socialisti e dappertutto. L'on. Masini, deputato 
del collegio, si è interessato per il rilascio degli arrestati, ma inutilmente perché sono 
stati deferiti tutti all'autorità giudiziaria. Il nostro compagno si è recato anche a S. 
Miniato a far pratiche presso l'autorità giudiziaria affinché gli arrestati vengano 
giudicati per direttissima. La stazione ferroviaria è sempre occupata militarmente, 
ed Empoli si trova sempre in istato di assedio. 


Anche a Castelfiorentino, il 21 aprile si verificarono disordini durante la parten- 
za dei mobilitati. In proposito l’articolo dell’«Avanti!» Anno XIX, n. 111 del 22 
aprile 1915, pp. 1-2: 


CASTELFIORENTINO, 21. Alla partenza del treno delle ore 12 due richia- 
mati si sono rifiutati di partire perché non avevano denaro per il viaggio. L'autorità 
di PS. prima di fare loro lo scontrino ferroviario e mandarli al proprio distretto li ha 


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Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


tratti in arresto portandoli alla caserma. Contro questo abuso la folla presente al fatto 
ha protestato energicamente volendo il rilascio dei due arrestati. La massa si è andata 
ingrossando di numero, ed un migliaio di persone si sono portate davanti alla caser- 
ma, chiedendo il rilascio. Nel mentre che la folla tumultuava, sopraggiunse il delega- 
to, il maresciallo Masi e un milite, trafelati, e come iene si sono slanciati sulla folla: 
il delegato Ringoni ha tratto la sciarpa intimando alla folla di ritirarsi, e ordinando 
alla sbirraglia di caricare la massa e di fare arresti. Infatti si sono gettati addosso alla 
popolazione arrestando a casaccio chiunque capitasse sotto tiro. Poco dopo per le insi- 
stenze di compagni, il delicato accondiscese ed ha rimessi i due arrestati in libertà. La 
scena è stata commovente alla uscita dei due richiamati: i parenti e gli amici li hanno 
accolti con abbracci replicati. La popolazione, con slancio veramente ammirevole ha 
strappato dalle mani dei carabinieri i cittadini arrestati, inveendo contro tali sistemi, 
che sono degli dei codardi e compagni. È stato un avvenimento tragico, quando i 
carabinieri con violenza si sono scagliati sulla folla: solo per la pronta intromissione 
del nostro corrispondente e di altri compagni, si è evitato un conflitto. 


Nei giorni seguenti il quotidiano socialista non mancò di pubblicare aggiorna- 
menti sui fatti di Empoli. Di seguito l'articolo de l’«Avanti!», Anno XIX, n. 119 
del 30 aprile 1915, p. 2: 


Le montature della polizia. Il processo per i fatti di Empoli. EMPOLI, 28. 
Per oggi era fissato al Tribunale di San Miniato il processone per la grande protesta 
contro la guerra avvenuta in Empoli il 20 aprile. Trentaquattro sono i detenuti che 
attendono che giustizia sia fatta onde poter ritornare in braccio ai loro cari. Quando 
stamattina si è incominciato a svolgere il processo, si è capito subito che l'intenzione 
della magistratura era quella di dare una forte “lezione” ai nostri arrestati facendo 
pesare su di loro il capo d'accusa più grave, che avrebbe portato, nientemeno, che alla 
condanna dal minimo di due anni al massimo di sette anni. La difesa, composta 
dai compagni avvocati Salvadori e Pacchi, insieme al nostro deputato on. Masini 
chiamato testimone, ha giustamente compreso che era necessario domandare il rinvio 
del caso, onde potere avere il tempo di chiamare testimoni a difesa, ed aver modo di 
smontare e sgonfiare il grande pallone che dipinge Empoli come promotore del tracollo 
dell'ordinamento attuale. Tanto per averne una idea esatta, il paese era invaso da 
due reggimenti di fanteria con baionetta in canna, con grande stuolo di carabinieri 
e poliziotti, i quali hanno voluto dare lo spettacolo di far traversare la città ai 34 re- 
clusi, come se fossero stati briganti. Il processo dopo lunga discussione, è stato rinviato 
al 6 maggio: speriamo che la difesa, oltre ai due compagni succitati, sarà rinforzata 
dall’on. Modigliani, già impegnato, e da qualche altro deputato, che la Direzione del 
Partito vorrà fare un dovere di inviarci. 


Ai fatti di Empoli seguirono condanne e assoluzioni, come riportato dai quoti- 
diani. Di seguito l’articolo de «La Stampa», Anno XLIX, n. 127 del 9 maggio 
1945: Pas 


23 condannati ed 11 assolti per i fatti di Empoli. Firenze, 8, notte. Questa 
sera al Tribunale di San Miniato è terminato il processo contro i 34 dimostranti 
arrestati pei fatti di Empoli. Solo 11 vennero assolti: gli altri vennero condannati a 
pene varianti da 17 mesi a 8 mesi di reclusione. 


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Francesco Fiumalbi 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 128 del 10 maggio 1915, p. 2: 


Il processone per i fatti di Empoli. Empoli, 9. Dopo due giorni di fati- 
coso lavoro, ebbe termine al Tribunale di S. Miniato il grande processo dei 34 
arrestati per la protesta contro la guerra del 20 aprile. Impossibile descrivere 
la grande montatura che portava, per i suoi vari capi di accusa, la condanna 
da un minimo di anni due ad un massimo di sette anni. L'accusa fu sostenuta 
barbaramente da una ventina di poliziotti con a capo il delegato Adorni. Oltre 
40 furono i testimoni a difesa valendo poco o niente l'opera loro. Dopo una 
lunga e mordace requisitoria, il BM. ritirava l'accusa per soli sette, e per gli al- 
tri 27 chiedeva una pena che saliva a quattro anni, quattro mesi e 600 Di di 
multa. Difesero gli imputati disinteressatamente i bravi compagni Salvadori 
di Empoli, Pacchi di Fucecchio, Salvatori di Viareggio e l'on. Pescetti, ai quali 
vada a nome di tutti il nostro sentito ringraziamento. Terminate le splendide 
quanto emozionanti difese, il Tribunale si ritira in Camera di consiglio, e 
dopo tre lunghe ore rientra pronunziando sentenza di assoluzione per 12 e 
condannando altri 22 da un minimo di due mesi a un massimo di 10. E così 
con questo il grande pallone ci sembra in parte sgonfiato, e finirà di sgonfiarsi 
in Corte d'appello. 


Nei medesimi giorni gli studenti universitari di Pisa si mossero verso l’interven- 
tismo. Di seguito l'articolo de «Il Corriere della Sera», Anno XL, n. 113 del 24 
aprile 1915, p. 5: 


Lo sciopero anche a Pisa (Per telefono al Corriere della Sera) 

Patriottiche parole d’un senatore. Pisa, 23 aprile, notte. Anche a Pisa è stato 
accolto l'appello degli studenti del Politecnico di Milano. Un centinaio di nostri goliar- 
di deliberava ieri sera l'astensione dalle lezioni, ma le prime lezioni ebbero principio 
stamane ugualmente. Verso le ore 10 però, le aule sono state invase dalla studentesca 
tumultuante che ha ottenuta la solidarietà dei colleghi per la cessazione delle lezioni. 
Dopo qualche incidente fra professori e studenti, il rettore ha deciso di chiudere l’Uni- 
versità fino a lunedì. La studentesca, prima della chiusura, teneva però un comizio in 
un'aula dell'Ateneo votando un ordine del giorno, riaffermante la solidarietà con gli 
studenti milanesi e invitando il Governo a prendere seri provvedimenti contro i pro- 
pagandisti stranieri. Usciti dall'Università, al grido di «Viva l'Italia! Fuori i nemici 
d'Italia!» gli studenti si sono imbattuti nel venerando prof. sen. Buonamici, il quale, 
acclamato e invitato a parlare, ha detto con voce commossa: «Gioventù italiana! Or- 
mai è passata l'ora delle discussioni per dar luogo a quella dei fatti. E l'ora di agire ed 
io, con sicura coscienza, vi dico che l'Italia sta per ridestarsi ed affermarsi». 

Le parole del venerando senatore suscitarono un applauso caloroso, cui rispose il 
grido di «Viva l'Italia». Quindi gli studenti seguirono il professore al canto dell’Inno 
di Mameli, pure intonato dal prof. Bonamici, a capo scoperto. Giunto presso la se- 
greteria dell’Università egli fu nuovamente acclamato, al grido di: «Guerra al nemico 
eterno!» Il prof. Buonamici a questo punto, commosso, in e baciò gli studenti 
vicini. Gli studenti in corteo si sono poi recati ai vari Istituti secondari ottenendo la 
cessazione delle lezioni. Si è verificato un lieve incidente: un gruppo di studenti ha 
rotto i vetri delle finestre del seminario in piazza Santa Caterina. E intervenuta una 
compagnia di fanteria a tutelare il seminario e la folla si è dispersa. 


434 


Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


L'articolo de «La Stampa, Anno XLIX, n. 113 del 24 aprile 1915, p. 7: 


A Pisa. Una sassaiola contro un Seminario. Pisa, 23, notte. Ieri ed oggi gli 
studenti dell’Università hanno proseguito nell'agitazione. Al palazzo Universitario 
comparve un manifestino, a firma di alcuni studenti, col quale si invitano tutti i com- 
pagni indistintamente a cessare le lezioni. Stamane il cortile maggiore della Sapienza 
era popolato di studenti, la maggior parte di Ingegneria, e così hanno avuto luogo i 
primi tumulti. La studentesca, gridando, invase alcune aule, in cui si faceva lezione, e 
si ottenne che cessassero. In qualche aula nacquero contestazioni tra studenti, dei vetri 
vennero frantumati e volarono dei pugni. Finalmente gli scioperanti hanno avuto il 
sopravvento. Giunse intanto la notizia che il rettore dell’Università ha dichiarato di 
sospendere le lezioni fino al prossimo lunedì. A questa notizia gli studenti si riuniscono 
in un'aula, dove tengono un breve comizio. Hanno parlato due goliardi, che hanno 
concluso invocando la solidarietà coi colleghi di Milano. Dopo ciò, venne approvato 
un ordine del giorno, col quale, mentre si afferma la solidarietà ai colleghi di Milano, 
si protesta contro i tedeschi d'Ttalia, e si invita il Governo a prendere i provvedimenti 
del caso. Terminato il comizio, gli studenti si sono quindi recati a varii istituti secon- 
dari, chiedendone la chiusura. Un increscioso incidente è avvenuto al Seminario di 
Santa Caterina, Qui circa un centinaio di studenti delle secondarie inferiori ha fatto 
contro l'Istituto una fatta sassaiola frantumando tutti i vetri. E rimasto ferito un ser- 
vente dell'Istituto. Nessun altro incidente. 


In occasione del 1° maggio le proteste anti-interventiste ripresero vigore in tutto 
il Valdarno Inferiore e in Valdelsa. Così su l’«Avanti!», Anno XIX, n. 121 del 3 
maggio 1915, pp. 1-2: 


CASTELFIORENTINO. Manifestazione imponente. Corteo interminabile, con 
donne e bimbi: le Associazioni coi vessilli, musiche. Davanti al marmo che ricorda 
Andrea Costa, il compagno Innocenti ha parlato fra vivo entusiasmo. 


EMPOLI. Astensione dal lavoro completa. All’Arena Nuova ha parlato il compa- 
gno on. Giulio Masini, davanti ad oltre duemila persone. Non si è verificato nessun 
incidente, malgrado l'enorme e provocatore sfoggio di forza pubblica. 


S. CROCE SULL’ARNO. Astensione generale dal lavoro. Nel comizio pubblico, 
oratore il candidato politico avvocato Luigi Salvadori, si è votato un ordine del giorno 
contro la guerra. Numeroso uditorio. 


CERTALDO. Il popolo certaldese si è affermato solennemente contro la guerra. Il 
deputato Masini e l’avv. Pacchi hanno parlato applauditissimi davanti ad un uditorio 
imponente. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 122 del 4 maggio 1915, p. 2: 


PISA Astensione sul lavoro. Nella mattinata si è tenuto un comizio ben riuscito 
nella piazza di S. Giovannino, per iniziativa dei socialisti, degli anarchici e della 
Camera del Lavoro. Non è intervenuto l'on. Merloni, delegato dalla Direzione del 
Partito. Hanno parlato Montanari pei socialisti e Castrucci per gli anarchici. Nessun 
incidente. 


435 


Francesco Fiumalbi 


MONTECALVOLI Le organizzazioni politiche ed economiche riunite in solenne 
comizio nel giorno del Primo Maggio nei locali della Società Cooperativa hanno vota- 
to un ordine del giorno riaffermando la propria avversione alla guerra. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 123, del 5 maggio 1915, p. 2: 


CASTELFIORENTINO. Corteo di Associazioni. Interminabile. Comizio 
nell’Arena del Circolo operaio. Oratore l’avv. Gaetano Pacchi, davanti ad una folla 
enorme, imprecante alla guerra. 


MONTESPERTOLI. Nei locali sociali hanno parlato Bini e Verdiani. Sono 
state fatte manifestazioni per le vie al grido di abbasso la guerra e viva il socialismo. 


Il processone pei fatti d’Empoli EMPOLI, 4. Domani sinizia il processone per 
i fatti d'Empoli. Il collegio di difesa è composto dagli onorevoli Pescetti e Modigliani, 
e degli avv. Salvadori e Pacchi. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 124 del 6 maggio 1915, p. 2: 


Poggibonsi. Comizio contro la guerra alla Casa del Popolo; oratore il compagno 
avv. G. Sbaraglini. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 126 dell’8 maggio 1915, p. 2: 


Montaione. Comizio. Oratori Chiti e Orfato, e corteo con musiche. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 130 del 12 maggio 1915, p. 2: 


Gli arrestati di Castelfiorentino Castelfiorentino, 11. Gli arrestati sono stati 
trasportati al carcere di S. Miniato a disposizione dell'autorità giudiziaria. Si è recato 
a S. Miniato l'on. Masini, per ottenere la scarcerazione della ragazza Lombardi Pie- 
rina e degli altri due. Non sono valse le esortazioni di nessuno a persuadere la locale 
autorità di PS. a venire a più miti riflessioni e rilasciare gli arrestati, ma tenta invece 
di impressionare maggiormente la nostra popolazione col far venire continuamente 
truppe e carabinieri. L'autorità di PS. vuol far passare queste dimostrazioni per la 
partenza dei richiamati (dimostrazioni calme e pacifiche, che non hanno dato luogo 
neppure ad un minimo incidente) per dimostrazioni di malviventi e di teppisti! Il 
Primo Maggio migliaia e migliaia di persone convennero alla nostra manifestazione, 
e, poiché truppa e carabinieri erano consegnati, non successe nulla e la giornata passò 
tranquilla. Continuando di questo passo, col perseguitare e tenere il nostro paese in 
un continuo stato d'assedio, si avrà che la popolazione perderà la calma, e se non si 
prenderanno, da chi sta in alto seri provvedimenti per levare le cause si avranno le 
naturali conseguenze! Intanto si sta montando un processo per il 20 maggio contro gli 
innocenti arrestati, ed il processo è montato da quell'autorità di PS. che è l’unica sola 
responsabile! 


La censura sulla stampa in azione! Pisa, 10. La legge marziale non è ancora 


proclamata. Ma cè odore di stato d'assedio in Italia! L'Unione socialista pisana ha 
voluto pubblicare un altro «numero unico» dedicato agli avvenimenti di questa vigi- 


436 


Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


lia; e l'aveva intitolato: “Abbasso la guerra!”. Il titolo ha dato noia al questore, che ha 
vietato l'uscita del giornale. Si è dovuto correre alle trattative, e il giornaletto è potuto 
uscire col titolo di “Scintilla”. Ma Scintilla ha dovuto subire la usa brava castrazione, 
ed ha veduto la luce col suo “pezzo in bianco” censurato come ai tempi che sembrava- 
no ormai superati. Eccovi il trafiletto incriminato: “Sono morti in Libia nell'ultima 
carneficina più di 1500 uomini (pensate che le nostre scuole i: e non ne contano 
tanti) e nessuno, né il Governo, né D'Annunzio presente, né il re... assente, ha avuto 
una parola per ricordare l'inutile sacrificio. C'è una bestiale noncuranza nel paese per 
gli italiani mandati a morire in Tripolitania e in Cirenaica. Indifferenza che rivela 
tutta la criminosità degli incoscienti e dei degenerati che vogliono una più grande 
guerra. Delinquenti!”. 


Nei giorni seguenti e con frequenza sempre maggiore fino al 24 maggio 1915, si 
intensificarono le dimostrazioni e le prese di posizione contro l’intervento italia- 


no in guerra. Così l’«Avanti!», Anno XIX, n. 132 del 14 maggio 1915, p. 2: 


Ai lavoratori fiorentini. FIRENZE, 23. Da qualche giorno, nella nostra neu- 
tralissima città, un gruppetto di sfaccendati e di “viveurs” cerca di inscenare dimostra- 
zioni a favore dell'intervento. E doveroso che il proletariato socialista e tutti i compa- 
gni si trovino dopo le 21 in piazza Vittorio Emanuele, per impedire che quei gruppetti 
di mentecatti possano dire che rappresentano la volontà di Firenze. Il Consiglio della 
Sezione urbana avverte dunque i compagni affinché lavorino a questo scopo, e gli 
interventisti abbiano la lezione che meritano. 


COLLE VAL D'ELSA Il Primo Maggio si tenne un riuscitissimo comizio, oratore 
l’avv. Giuseppe Sbaraglini. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 133 del 15 maggio 1915, p. 2: 


Rivolta socialista a Firenze contro la commedia interventista. FIRENZE, 
14. L'altra sera i nazionalisti fiorentini, uniti ai “rivoluzionari” della guerra fascina- 
trice, essendo certi che i lavoratori a quell'ora erano completamente assenti causa la 
stanchezza del lavoro quotidiano, inscenarono la solita pagliacciata al grido di Viva 
la guerra! I nostri compagni hanno risposto all'invito del nostro giornale, di contrap- 
porre dimostrazione a dimostrazione, recandosi in numero rilevante in piazza Vitto- 
rio Emanuele, che è diventata il covo della masnada patriottico-criminale. I bollenti 
guerrieri sono stati incontrati nelle adiacenze di via Montebello. Ne è nata una furiosa 
colluttazione, la quale ha trascinato dalla parte nostra i soldati, donne e ragazzi che 
con una fitta sassaiola hanno fugato e disperso i figli di papà. Cinque interventisti 
piangenti e invocanti la madre sono stati condotti all'ospedale Amerigo Vespucci, feriti. 
La gazzarra di pochi sfaccendati che vogliono imporre la guerra al popolo d'Italia deve 
assolutamente finire. Socialisti fiorentini, i nostri principi ci impongono di scendere 
tutti in piazza, dimostrando anche la violenza, quando occorra, la nostra avversione 
alla guerra! 


I socialisti di Empoli per lo sciopero generale. EMPOLI, 14. Veduta la gra- 
vità della situazione politica odierna, la Sezione socialista ha dato incarico al rappre- 
sentante provinciale al convegno di Bologna (16 corr.) di proporre lo sciopero generale 
in caso di mobilitazione. 


437 


Francesco Fiumalbi 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 134 del 16 maggio 1915, pp. 1-2: 


Sciopero contro la guerra. PONTE A EGOLA, 14. In seguito alla deliberazio- 
ne presa nella riunione popolare d'ieri sera, oggi gli operai di tutte le concerie di pelli, 
non hanno ripreso il lavoro del pomeriggio. Tutti i negozi sono stati spontaneamente 
chiusi, e alle ore 15,30 sono state fatte chiudere pure le scuole comunali. Alle 17 è 
stata fatta riunione alla lega fra pellettieri ed è stata organizzata la dimostrazione. 
Nel contempo, ad unanimità è stato votato un ordine del giorno di protesta contro la 
guerra. Il numeroso corteo di dimostranti in colonna serrata ha percorso tutto il paese 
col grido di abbasso la guerra. 


Dimostrazioni di interventisti abortite a Pisa. PISA, 13. Gli interventisti — 
pochi in verità — hanno voluto dar prova di loro vita per reclamar, anche da Pisa, la 
guerra. All'Università, sono state disertate in mattinata le lezioni, e un forte gruppo 
di studenti, ai quali si erano uniti molti altri delle scuole secondarie, si sono recati a 
dimostrare sotto la Prefettura, acclamando al ministero dimissionario e gridando: Ab- 
basso Giolitti! Naturalmente, ai giovinetti si è liberamente concesso di dimostrare. Ma 
all'avvicinarsi di un forte gruppo di popolani neutralisti, che si erano riuniti nei pressi 
di Piazza Garibaldi, la polizia ha tirato fuori i cordoni attraverso il ponte di mezzo, 
volendo dare aiuto paterno agli scolari interventisti. Cionondimeno, sono avvenuti 
violenti tafferugli, finiti con la peggio degli interventisti, che sono stati picchiati e volti 
in fuga. Qualche interventista ha dovuto rifugiarsi nelle botteghe, e le saracinesche 
sono state in fretta calate in Ponte e in Borgo. Fra i dimostranti più violenti, si mo- 
stravano le donne dei richiamati anziani, che tiravano giù pugni tremendi. A sera, il 
centro della città è stato continuamente occupato dai neutralisti, pronti a far tacere 
ogni intervento di dimostrazione in favore della guerra: ma dei neutralisti, nessuno si 
è fatto vivo. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 135, del 17 maggio 1915, p. 2: 


POGGIBONSI. In questi giorni sono avvenute delle sintomatiche dimostrazioni 
di richiamati. Passando da questa stazione treni carichi di questi giovani lavoratori, 
strappati al lavoro proficuo dei campi e delle officine, hanno Li gridato: 
Abbasso la guerra, al quale grido ha risposto la massa di popolo che si trovava presente. 


L’appello ai socialisti della provincia di Firenze. Firenze, 16. Il Comitato 
provinciale socialista fiorentino ha lanciato un appello a tutte le sezioni ed a tutti i 
compagni della provincia per invitarli a controdimostrazioni alle chiassate interventi- 
ste. Se noi — conclude il manifesto — lasceremo libere le piazze alla violenza teppista del 
variopinto interventismo italiano, la nostra astensione potrebbe significare implicito 
assentimento, viltà e rassegnazione dinanzi al manifestarsi di questo tragico evento. 
Facciamo quindi viva preghiera a tutte le sezioni della provincia di rendere larga- 
mente consapevoli dei doveri che in questo momento incombono sul nostro Partito e 
le invitiamo a convocare pubbliche riunioni, perché il giorno in cui verrà riaperto il 
Parlamento, si sappia, in questo altro consesso, qual è la ferma volontà del proletariato 
italiano. Compagni! Il popolo è ancora in tempo a scongiurare il pericolo. Smuovete, 
agitate quel sentimento d'opposizione alla guerra, che è latente nell'anima della classe 
proletaria e fate sì che alle grida inconsulte dei guerraioli ad ogni costo, faccia eco la 
vibrante protesta del popolo, al grido ammonitore di “Abbasso la guerra!” 


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Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


CASTELFRANCO DI SOTTO, 16 Sono partiti altri giovani richiamati sotto 
le armi, insieme coi richiamati di S. Croce sull'Arno, onde unirsi a quelli di Castel- 
franco. “Abbasso gli assassini del popolo! Abbasso la guerra!” sono stati i gridi emessi da 
essi. Molte botteghe hanno chiuso le saracinesche in segno di protesta, mentre i partenti 
salutavano le madri e i figli al grido di “Viva la rivoluzione! Viva l'Internazionale!” 


L'«Avanti!» Anno XIX, n. 136 del 18 maggio 1915, p. 2, 5: 


Esasperazione di popolo nel Fiorentino. Firenze, 16. Il solito gruppetto di faci- 
norosi guerraioli, sapendosi alleato e protetto dalla polizia, continua la solita indecente 
gazzarra in piazza Vittorio. Da parte nostra, continua ininterrotta la propaganda 
fra il popolo, che è unanimemente contrario alla guerra, e che ormai è esasperato. Ieri 
parecchi interventisti sono stati bastonati sonoramente; è stato ferito pure un delegato 
di polizia. La popolazione si vendica delle continue sopraffazioni che le vengono fatte 
da pochi sconsigliati protetti dalla polizia, 0 comincia a mettere in pratica la teoria 
dell'occhio per occhio, dente per dente!”. Anche nei paesi vicini è intensa l'agitazione 
contro la guerra. La partenza dei richiamati ha dato origine a fatti gravi al Galluzzo, 
a Sesto Fiorentino e a Signa, dove si è perfino staccata la locomotiva che doveva partire 
coi richiamati. 


MONTELUPO FIORENTINO. Alla partenza dei richiamati, che il giorno 
prima si rifiutarono di partire, per iniziativa della Sezione socialista e del Gruppo 
anarchico, è stata fatta una imponente dimostrazione contro la guerra. Una numerosa 
colonna di dimostranti ha percorso le vie del paese al canto degli inni rivoluzionari fra 
le imprecazioni delle madri e delle spose colpite dal militarismo furibondo di sangue 
nei loro affetti più cari. 

Tutte le botteghe erano chiuse e portavano un cartello colla scritta: “Chiuso per 
protesta contro la guerra”. Alla stazione, durante la dimostrazione è stato arrestato 
l’anarchico Rovai Vincenzo, ma la folla enorme ha imposto la sua scarcerazione. Ha 
parlato il compagno Scotti imprecando alla follia che le classi dirigenti stan per com- 
mettere e di cui un giorno dovran render conto al popolo che è decisamente contro la 
guerra. 


La folla a Signa stacca la locomotiva di un treno. FIRENZE, 17. Si ha no- 
tizia che a Signa sono avvenuti gravissimi disordini, ma i giornali tacciono, perché 
si tratta di dimostrazioni interventiste. Anche la popolazione di Signa è esasperata 
per la situazione attuale e per il periodo che si presenta in Italia. Tale esasperazione 
ha esploso in una tumultuosa manifestazione. Una folla di circa due mila persone, 
in gran parte donne, si è raccolta in Piazza ed in colonna serrata si è diretta verso 
la stazione, invadendola ed occupando tutto il piazzale interno. Le donne si sono 
sdraiate sui binari allo scopo di fare fermare i treni. Così infatti è avvenuto quando 
è sopraggiunto un treno militare, che è stato fermato alcune centinaia di metri prima 
della stazione. Sono stati fatti discendere il macchinista, il fuochista e tutti i soldati, 
poi la locomotiva è stata staccata dal treno. Sono sopraggiunti i sei carabinieri, che 
si trovavano nel paese, ma hanno dovuto ritirarsi per non essere sopraffatti. Il milite 
Angelini ha sparato alcuni colpi di rivoltella, che fortunatamente sono andati a vuoto; 
ma costui è stato fatto poi bersaglio di una fitta sassaiola ed è rimasto ferito. La folla è 
rimasta padrona della stazione fino a quando non sono arrivati da Firenze rinforzi di 
truppa e carabinieri, che dopo numerose cariche sono riusciti ad allontanare il popolo, 
che è tuttora eccitato. 


439 


Francesco Fiumalbi 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 138 del 20 maggio 1915, p. 2, 5: 


CASTELFIORENTINO, 18. È bastato che la Sez. socialista indicesse nell’Arena 
del Circolo operaio una riunione perché accorressero da ogni parte del nostro comune 
ogni ceto di persone, dove non mancava l'elemento femminile e giovanile. Hanno 
parlato i compagni Innocenti e Ricciardi, fra il più entusiastico consenso. Dopo la 
riunione si è (ross un grandioso e interminabile corteo di oltre tremila persone, con 
alla testa un cartello dove era scritto: “Abbasso la guerra!”. La massa ordinata, calma 
e compatta al canto di “Bandiera rossa” ha girato le principali vie del paese emettendo 
grida di Abbasso la guerra. Così imponente manifestazione di popolo Castelfiorentino 
non aveva mai vista! Nel comizio si è votato un ordine del giorno analogo. 


PISA, 19 notte. Per il pomeriggio di oggi la cittadinanza pisana era stata invitata 
ad una manifestazione pubblica in piazza dei Cavalieri, contro la guerra... (interrotto 
dalla censura). 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 139 del 21 maggio 1915, p. 2: 


Sciopero generale a S. Croce. S. Croce sull'Arno, 19. La Sezione socialista, udi- 
to il parere delle Organizzazioni locali, d'accordo con esse ha proclamato lo sciopero 
generale per tutta la giornata; nessuna defezione è avvenuta e la massa operaia ancora 
una volta ha dimostrato la sua avversione all'infame guerra. Nel pomeriggio tutti gli 
esercizi pubblici sono stati chiusi con la scritta: “Chiuso per protesta contro la guerra!” 
Il comizio che doveva essere tenuto alla Casa dei socialisti, è stato sospeso per mancan- 
za dell'oratore, avendo la censura fermato il telegramma diretto all'avv. Salvatori. Le 
associazioni locali, Sezione Socialista, Cooperativa di consumo, Cooperativa operaia, 
Lega pellettieri, Lega raffinatori, hanno inviato telegrammi al deputato del collegio 
on. Guicciardini, perché informi il suo voto alla volontà del proletariato santacrocese, 
che non vuole la guerra. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 140 del 22 maggio 1915, p. 2: 


MONTELUPO FIORENTINO. Si è rinnovata una dimostrazione contro la 
guerra e contro i suoi fautori; domenica furono gli uomini a gridare tutto il loro odio 
antiguerresco, ora sono state le nostre donne. Sono convenuti dai paesi vicini, dalla Torre, 
da S. Quirico, da Pulica, le madri, le spose, le sorelle di coloro che col loro sangue do- 
vranno fare domani per il re e per la borghesia, non per sé, la più grande Italia. Ad esse si 
sono aggiunte le donne del paese e tutte insieme hanno percorso le vie, dopo che i negozi 
erano stati chiusi. Il manifesto del prefetto minacciante lo stato d'assedio... è stato letto 
come un programma cinematografico, e dd le baionette dei soldati hanno intimidi- 
to le nostre La Esse hanno fatto intendere che non disarmeranno contro coloro che le 
straziano nei loro affetti più sacri. 


BUTI. Buti si è unito al proletariato italiano nella protesta contro la guerra con 
una solenne dimostrazione. Le botteghe sono state chiuse per solidarietà coi dimo- 
stranti, ed il sindaco Pardini, richiesto dal popolo, ha spedito i seguenti telegrammi: 
“Prefetto Pisa. — Popolo butese odierna imponente manifestazione protesta guerra 
incaricandomi esprimere vossignoria tali sentimenti — Sindaco Pardini.” “Deputato 
Sighieri, Roma. — Popolo butese odierna imponente dimostrazione protesta contro 
guerra. — Sindaco Pardini. 


440 


Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


PONTE A EGOLA. Fu ripetuto lo sciopero di protesta contro la guerra. Doveva- 
no aver luogo comizio, corteo e dimostrazione, ma furono impediti dall'ordine mini- 
steriale come in altri posti. Fu telegrafato all'on. Guicciardini, deputato del collegio, 
in senso contrario alla guerra. 


Il comizio di Pisa impedito dalla Questura. Pisa, 20. Impedito di trasmettere 
telefonicamente dalla censura, vi mando le seguenti notizie. La cittadinanza pisana 
era stata invitata ad una manifestazione pubblica in piazza dei Cavalieri contro la 
guerra imminente. L'annunzio di tale manifestazione aveva messo la febbre addosso 
all'autorità politica locale. Il prefetto aveva fatto affiggere ieri un manifesto con cui si 
minacciava l'immediato passaggio del servizio di Hi pubblico all'autorità milita- 
re. Il questore aveva ieri stesso voluto diffidare personalmente socialisti ed anarchici, 
promotori della radunata. All'ora indicata, la piazza dei Cavalieri è stata bloccata 
dalla truppa. Pattuglioni armati erano in giro per la città, che era stata posta addi- 
rittura in istato d'assedio. I neutralisti, dinanzi alla violenza dell'autorità politica, 
avevano protestato con un manifesto dell'ultima ora, declinando ogni responsabilità. 
La forza pubblica, senza che vi fosse segno di comizio 0 dimostrazione, si è data a fare 
arresti a casaccio. Chiunque si attardasse per via, era afferrato e tradotto nelle guardi- 
ne. Si è perfino proceduto all'arresto di una Commissione di socialisti e Dalia che 
si stava portando dal prefetto per chiedere il rilascio di molti arrestati. In complesso, 
sono stati incarcerati 25 persone. Gli atti di inconsulta reazione hanno prodotto, natu- 
ralmente, un fermento vivissimo nella classe lavoratrice. Sono state fatte pratiche attive 
per il rilascio degli arrestati; il rilascio verrà ad impedire deliberazioni assai gravi, che 
potrebbero essere prese dalle organizzazioni operaie. 


L'«Avanti!», Anno XIX, n. 142 del 24 maggio 1915, p. 2: 


Improvvisa dimostrazione a S. Croce sull'Arno. Abbiamo avuto un’altra 
dimostrazione contro la guerra, determinata dal fatto che maestri e maestre avevano 
detto ai propri alunni di fare firmare un foglio in favore della guerra. I piccoli bimbi 
hanno narrato il fatto ai genitori, e questi — specialmente le donne — alla ripresa della 
lezione del pomeriggio di sono recate all'edificio scolastico per protestare contro tale 
abuso. In pochi minuti l'edificio scolastico è stato circondato da tutta la popolazione 
imprecante; tutti i vetri sono stati rotti. Sono state sospese le lezioni e rimandati gli 
alunni, ma, poiché il popolo non pensava ad allontanarsi, sono intervenuti truppa e 
carabinieri col delegato, il quale, cinta la sciarpa, ha fatto suonare oltre dieci squilli, 
ma il popolo non si è mosso ed ha continuato a gridare: “Abbasso la guerra!”. Sono stati 
operati due arresti, che più tardi furono rilasciati. E lodevole il contegno dei militari 
richiamati, e ancor degno l'atto delle nostre donne che hanno dimostrato di essere vere 
e proprie madri. Mi consta che molti padri stanno iniziando un'agitazione contro il 
personale insegnante, perché non vogliono che si serva della scuola per sfogare le proprie 
passioni politiche e... qualcos'altro! 


Anche nei giorni successivi l’inizio delle ostilità contro l’Austria- -Ungheria con- 
tinuarono, sebbene più sporadiche, le manifestazioni di contrarietà al conflitto. 
Le notizie si interrompono a causa dei provvedimenti straordinari per la pubblica 
sicurezza emanati da Vittorio Emanuele II. Da quel momento la censura si ab- 
batté sui quotidiani. Solo un episodio suscitò particolare clamore poiché vedeva 
coinvolto un sacerdote e fu pubblicato su «Il Corriere della Sera», Anno XL, n. 
157 del 8 giugno 1915, p. 4: 


441 


Francesco Fiumalbi 


L’arresto d’un parroco che predicando si è dichiarato favorevole all’Au- 
stria. ROMA, 7 giugno, notte. La Tribuna ha da San Miniato: oggi i carabinieri di 
Montopoli hanno arrestato e condotto nelle carceri di San Miniato il parroco di Buc- 
ciano don Carlo Caponi, per avere, predicando al popolo di Bucciano, parlato contro 
le patrie istituzioni e contro la guerra, e per essersi dichiarato favorevole all'Austria. Si 
aspetta un'esemplare e rigorosa punizione dell'indegnissimo prete. 


Bibliografia 


AstuTO G., La decisione di guerra: dalla Triplice Alleanza al Patto di Londra, Rub- 
bettino, Soveria Mannelli, 2019. 


AmBRrOsOLI L., Né aderire né sabotare, Edizioni Avanti!, Milano, 1961. 


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Zenatelli M., Breve storia di un colpo di stato dalla Triplice al Patto di Londra. L'in- 
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442 


Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


Ah!... Se costei non mi tenesse! 


Fig. 1: Una cartolina di propaganda interventista 


Fig. 2: Una cartolina di propaganda neutralista 


443 


Francesco Fiumalbi 


Fig. 3: Gabriele D'Annunzio a Quarto durante l'inaugurazione del Monumento ai Mille 


, dei si %y 


Fig. 4: Eugenio Baroni, Monumento ai Mille, Quarto, Genova, 1915. 


444 


Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


Anno 40 — Num. 130 Milano — Mercoledì, 12 Maggio 1915 Edizione del I pomeriggio 


CORRIERE DELLA SERA 


ri Italia @ Colonie, centesimi 5 — Un numero arretrato, centesimi 10 


avi tazioni = 
î fa| az 
2 ci fa | ‘45 ! Le pubblicazioni che il CORRIERE DELLA SERA offie ai suoi abbonati sono: 


cu puoi i DI 
rta ei 
St Pr arti fer » 


siornata di fermento dopo l'atteggiamento di Giolitti 
Salandra e Somino fermi n loro programma - Ripercussioni nella pubblica opinione 


IT aspra fatica del Governo 
tes i imultà, pese italiani hanno hevu- pueste, fi altre simili, non sono che fan- 


Il NUOVO a888Ìt0 = nr a fatica del 
na situazione insestenibile di fronte ab |ilonie: fandonio create e messe ta giro, si ‘8 lè minaccie dell'ultima ora 
to alla fonte straniera senza accorgersi del | | isti. 


uomo come l'arbitro della nostra sorte. 

mala Fanno stampare dai oro giornali che. il hilterra, alla Fra lussia e | CAPISCE, ad arte, dai neutra sua 

fi Governo «alia ha Tiirovalo ogni Dal | N RA RFI FINE I] | LISA ISEIITINON Ala Aeree ua 24 onor del vero. non gono: pochi, a cu “ear SN 
forme diverse, un elenco delle offerti De OTIO aai S0Re Diet TOETa RA La 


sante | La Lettura A Corriere dei Piccoli 


teteto monstlo itustrata 3 Ca anco veto 1 15 0 opuimana | "9%! pio ricamate Mera 


e O 
IE tr Ps a una sese rime | FS ie gia pena die ce 


Tee cammino, quell'appostamento che Re e il Capo del Governo hanno invocato n 
tra volta aveva saputo sventare col solo fl suo consiglio, mentre già sì sa che l'on. La quistion» politica italiana deve esse. | esprimono a viso uperio ue la loro ri-| 11 Giornale d'Italia lica stasera un 
Austria avrebbe fatt all'Italia. Quas- | re esaminata nel complesso dei suoi rap: | provazione, tutto li loro per le pic: | articolo dal titolo «Parole chiare» nel 
ti non hanno creduta, che le cose {oss#F | porti nazionali e internazionali, non lsche-| colo manosre di una parte 0 dd tati, pe | quale gi Feroca tulta Topera che_il G> 
così semplici come gli elenchi indicavano! | letrita © vuotata di ogni senso Ideale e vÈ te ‘argomentazioni che si cazione Pasocte, | Ve masi per superare le dileotà interna: 

Perchè Govemo non ha ceduto tl di ij come nelle formule, che sembrano fit-| pesco srincienti perielio cun dl | onli citerne Lardeoto comincia: 
ridu le ir si tei Luancorini te per il baratto delle merci, alle quali ab- “ cho Sedera corrono pi alcuni circoli uffi. E cuiala Fili un quetesanio pig] per 
crediamo che : esitato: cialme o Sitsa? realizzare con qualunque. mezzo 
cho sarebbe stat, | biamo accennato più innanzi Pro pil emegni neutrali sì rilevano |Îe prote asfimizioni nazioni mai preserie 
L'Italia si trova a dover affrontare e ri. [e lettere e i telegrammi che qualcuno da | ‘+ Pe dimenticate, malerado merzo secolo 

solvere un problema complesso e formida. | Rousa invia « deputati sul cul neutrali. Lo -- 

bile nelle sue difficoltà. Il dilemma è: ri.| SM0 " ‘credo di poter contare per ingroa ro. | 


Saggio della sua attitudine risoluta. Do- | Salandra non domandò ma accettò un 
tun lavorio che si rivelava In forme sotto | €©vegno — opportuno nel solo caso che 
"ni aspetto equivoche, la fazione incondi- | SVesse avuto per leale fondame de 


Smutmento neutralista che nun apparte. | Sdero patriottico di aggiungere e non cià 


"ul alcuna chiara tendenza nazionale, | 'ogliere forza al potere respon: 
1 Hire d'un ricordo nostalgico di onnino- | 8t0r0 dimenticano Il valore del 
fia parlamentare e si sccentra in un uo. | ducla per ricordarsi soltanto di 
A, ha scoperto il suo giuoen e st. è messa | la loro forza e sopra tu 
idacemente di traverso sulla strada se-| E in giorni supremi an 


Tila nfemazioni ella 


dd fondamento that sti ata ar rappo de i gia onili [Cf de cifrato 
val del destino della PAT Limo | cori ment 1 che lo celoni pico, povere, i. | olterb nella son realtà conraa, tr [FIS Pare gi uno del più stavi te questi [tft ic dee ton 
Prima di sospendere, ultimamente, i suoi | #°* sufficienti, non sarebbero state fatte all'1. Meo "1: SEIUrO, 900 -20 una | cercatori di rinforzi sia un noto deputato | Mento e del 
ser.Îl Parlamento areva votato la idu- | nale e fino a qual grande Potenza, ma una Potonza riapt-|clerialo fombardo. fa masgioranza del Press 


las S 
cablimenie, |‘ninterrottamente, ron tenacia, 
‘con fede, con verò spirito di sarrifiio. 


pon dopo la fine della guerra: 
TI. che erano subordinate ad una W-|!8!%- RIVER ta aa di na 


a nel Governo. L'autorità che il Governo 


.5: Giornata di 1 da l'atteggiamento di Giolitti. Salandra e Sonnino fermi nel loro programma. 
«Il Corriere della Sera», anno 40, n. 130, 12 maggio 1915. 


Due memorabili sedute del Parlamento - Le dichiarazioni di Salandra 
= I deputati cantano l'inno di Mameli - Tutto il Senato inneggia 
alla più grande Italia - La’ presentazione del “Libro Verde,, 


. di difesa n'eni dovevano necessariamente] ci erano consigliati dalla necessità del | anche dimostrare al mondo che la co: {to ad esso le sue più sacre arpirezioni na-| rose regioni + vi è stato un lunghisaime 
ute StoriChe]|farem i nea” Enpare i corno! pren dtt eur trarne. | siena cata dona dela oetra cnav |siont, mo ha dvuto ae, con | MP 

salino, co» appare dle doman 10 1 pg tr verno dn nos ua e mo i cl quando e rio dlre i mati met n 

presentavano una soluzione im stria maggiori offerte, e anche nellà |affermaria occorrono i grandi sacrifizi. - | condotti di sopprimere quei caratt 
proble nazio, sl dimen ona i Festo este de pat || 3 dlcono dell, Slindra ha avio| ani che La natura 1a seria a 
so a tonde  ientar dì sare Ta | ellIila, quos moggiori ere ven [Il ino che mago si coneta è quat | impresso ide su genere 

no Dà dle Iralr sica sà | ato dio ola pine. 1 Cap del |. L'limatum che, ne 

sola n {manto. Nè poteva €8-| preocciipato di cooparara con [a Germania | della libertà adriatica, che costituiscono 1|Governo si è dimostrato anche wi , | Impero austro-ungarico 
sere altrimenti, pers fo vert i è tn | L manie? in vito a Triple Alanta| bisogni onori du pass cha vsol vs [e nell'ora capitale. l'terpite sti del [ly annie dé un 
tito in questi ultimi lempi che il Risor-|sopprimendo, non tutte, ra AImeno le |vere in pace e per ciò poter difendere la |Ia volonta italiana, con parole nobili e | lungo aforso durato, vi 


La\Camera e-iî Senato hammo lemuto oggi 
seduta che rimarranno nella storia d'Ita- 
lia aceamto a quelle dei periodi più lumi- 


buca, ‘al dimosirava persino "lesene |nevano SEO atte pn 


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È giorno 4 maggio 1 G icon 
Gemumelava fl trattato di allanman sala 


indo il patto che 


Fig. 6: / pieni poteri al Governo ru la guerra. Due memorabili sedute del Parlamento — Le dichiarazioni 
di Salandra. I deputati cantano l'inno di Mameli — Tutto il Senato inneggia. alla più grande Italia — La 
presentazione del “Libro Verde”. «Il Corriere della Sera», anno 40, n. 139, 21 maggio 1915. 


445 


Francesco Fiumalbi 


i \ OMENICA pe ORRIERE | 


% Mo rn Si pubblica a Milano ogni Domenica hi 7. ital del giatanar EDI 
ii L.8- L10- > Rien n st; 
AURA “ 2,50 - s- © Supplemento illustrato del “ Corriere della Sera Via, @ol ie A 


© artistica, secondo le leggi e 1 trastati internazionali. 
23 - 30 Maggio 1915 


Fig. 7: D'Annunzio parla al popolo di Roma nel teatro Costanzi. «La Domenica del Corriere», anno XVII, 
n. 21, 23-30 maggio 1915. 


446 


Le giornate tutt'altro che radiose in Valdelsa e nel Medio Valdarno Inferiore nel maggio 1915 


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Fig. 8: Le trattative. Vignetta di Giuseppe Scalarini su «L’Avanti» del 15 maggio 1915. 


447 


Francesco Fiumalbi 


_Aono 40 — Num. 145 Milano — Giovedì, 27 Maggio 1915 Edizione del mattino _— 


CORRIERE DELLA SERA 


Prbo anse ti pe mir, - | La Domenica del Corriere { Ò } ir Corriere dei Piccoli 
ES i ste pane E smi rata | n ie | { dim © pg cime mu fi creo sl 


I Re parte per campo e lancia un rockna lle truppe 


L'avanzata generale oltre il confine dallo Stelvio al basso Isonzo 
la Luogotenenza del Regno al LE di E IL biogeo ci SI 


Il proclama del Re È }i 


ROMA, 26 maggio sera. 
Sua Maestà il Re, assumendo il comando supremo delel 
forze di terra © di mare, ha emanato il seguente ordino del 
giorno: 
SOLDATI DI TERRA E DI MARE? 

Dora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. 
Seguendo l'esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il co- 
mando supremo delle forze di terra e di mare con sicura 
fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazio- 
ne, la vostra disciplina sapranno conseguire. 

Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e 
degno di voi, Favorito dal terreno e dai sapienti appresta- 
menti dell'arte, egli vi opporrà tenoce resistenza, ma il vo- 
stro indomito slancio saprà di certo saperarlo. 

SOLDATI! 

A voi la gloria di piantare il tricolore d'Italia sui termini 
sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A 
voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto eroi | 
smo iniziata dai nostri padri, 

Gran Quartier Generale, 24 maggio 1915. 
VITTORIO EMANUELE. 


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Fig. 9: // Re parte per il campo e lancia un proclama alle truppe. L'avanzata generale oltre il confine dallo 
Stelvio al basso Isonzo. «Il Corriere della Sera», anno 40, n. 145, 27 maggio 1915. 


448 


La “Grande Mostra Campionaria Nazionale” 


del 1907 a Empoli 


ANTONELLA BERTINI 


Empoli, già agli inizi dello scorso secolo, è una città operosa, costituita da una 
comunità vivace sul piano della cultura, dell'impegno civile e sociale e su quello 
lavorativo; ne è prova l’allestimento della “Grande Mostra Campionaria Nazio- 
nale” del 1907. 

Le esposizioni campionarie e industriali iniziano in Inghilterra che, per prima, 
ha dato vita alla rivoluzione industriale, ma si diffondono in diversi stati europei; 
a Parigi nel 1798 ne viene allestita una che propone un modello seguito in tutta 
l'Europa. Anche l’Italia, durante l'età napoleonica, si distingue per questo tipo di 
iniziative che vengono realizzate soprattutto a Milano con le “Esposizioni annuali 
d’arti e mestieri”, a partire dal 1806. 

Il Granducato di Toscana, di cui Empoli faceva parte, è l’ultimo stato a pro- 
grammare le manifestazioni espositive, tanto che la prima “Esposizione di arti e 
manifatture toscane” viene organizzata dall’Accademia dei Georgofili nel 1838, 
seguita da altre a cadenza triennale fino al 1857. 

Il tema delle esposizioni di prodotti industriali diventa sempre più attuale e 
viene affrontato anche nei congressi degli scienziati italiani. Si comprende, infat- 
ti, l’importanza di utilizzare le mostre per divulgare la cultura tecnologica met- 
tendo in risalto il lavoro e la creatività di tanti artigiani. 

Con le esposizioni si evidenzia lo spirito del Positivismo e se ne diffondono i 
valori, nello stesso momento il nuovo Stato italiano, sul piano politico e cultura- 
le, trova in tali esposizioni la maniera per sottolineare i princìpi su cui si fonda e 
di aiutare la formazione dell’identità nazionale. In tal modo si dava la possibilità 
agli Italiani di incontrarsi, in particolare agli imprenditori ed agli intellettuali, ma 
anche agli artigiani e ai funzionari pubblici; si tesseva così una rete di relazioni che 
contribuiva al diffondersi dello spirito nazionale. Questo accadeva non soltanto 
nelle grandi città infatti anche un centro più piccolo come Empoli non era nuovo 
ad organizzare delle mostre. Si ricorda che nel 1882 si era tenuta l’“Esposizione 
circondariale artistica-industriale ed agricola” progettata dai dirigenti della Socie- 
tà operaia per far conoscere e apprezzare adeguatamente /e ua e i prodotti 
dell'industrioso paese. Le “classi” alle quali potevano partecipare gli espositori era- 
no dodici e nessuna rimase deserta. Vennero presentati manufatti dell’industria 
della paglia, dell’arte vetraria, della pellicceria, della ceramica e dell’agricoltura. 
Queculina superò qualsiasi aspettativa dato che i concorrenti erano trenta ed 
in particolare parecchie collezioni facevano parte del conosciuto giardino di Bib- 
biani, realizzato dal Marchese Cosimo Ridolfi 

Nel 1904 si inizia con grande entusiasmo a lavorare in vista della “Grande 
mostra” che diventa una rassegna popolare ed opera per il bene di tutto il territo- 


449 


Antonella Bertini 


rio del circondario di Empoli ed oltre. Con spirito fattivo e innovativo vengono 
predisposte le varie attività, un lavoro che richiede circa tre anni e costituisce 
anche un modo per unire i ceti popolari e per favorire gli incontri fra i borghesi 
locali. Molte persone danno il loro contributo per far fronte alle varie necessità. 

Al proposito viene costituito un apposito comitato che lavora fin dal 1904 ed 
è composto dal Presidente onorario Onorevole Sarnelli, dal Presidente Vincenzo 
Chianini e dal Segretario generale Guido Manetti. Questi rappresentanti, coa- 
diuvati da alcuni volontari e sostenuti da diversi rappresentanti della borghesia 
locale, sono incaricati di raccogliere i fondi e di organizzare l'allestimento della 
mostra e degli eventi ad essa connessi. 

Il Comitato si impegna per trovare le risorse necessarie e si rivolge al Monte 
Pio', al Comune, alle famiglie benestanti e a tutti gli Empolesi che dovrebbero 
sentire il dovere di concorrere alla spesa. 

Numerosi sono i cittadini che contribuiscono ma, fra i tanti benefattori, pri- 
meggia Isabella Rondinelli Buoncompagni, Principessa di Piombino, che dona 
duecento lire. 

Per convincere i benefattori vengono evidenziati i vantaggi per la cittadinanza, 
come si legge in una lettera inviata al Monte Pio ed in una istanza molto circo- 
stanziata rivolta al Sindaco e ai componenti del Consiglio comunale in qualità 
di amministratori del Monte Pio. Nell’istanza viene spiegato che la Pubblica As- 
sistenza sta per iniziare la costruzione di una nuova sede rispondente ai criteri di 
impegno filantropico e di miglioramento dell’igiene pubblica; a questo proposito 
vengono elencati i benefici ci gli abitanti riceveranno. Nei nuovi locali, infatti, 
sarà possibile organizzare diversi servizi oltre a quelli già praticati come le due 
squadre di pompieri e di infermieri. Verrà instituito un pubblico dormitorio per 
viandanti miseri di cui il Comune risentirà positivamente da un punto di vista 
economico ed igienico e della sicurezza pubblica. Saranno aperti dei bagni pub- 
blici e sarà organizzato un servizio speciale di disinfezione a domicilio. Si precisa 
inoltre che il guadagno netto sarà interamente devoluto alla costruzione dell’edi- 
ficio che ospiterà la Pubblica Assistenza. 

La richiesta viene esaminata nella seduta pubblica del Consiglio comunale il 
20 giugno 1906 e l'erogazione di un contributo viene approvato all'unanimità, 
così da migliorare la sanità in modo più rispondente ai bisogni della odierna vita 
civile. 

La deliberazione viene resa nota il 28 dello stesso mese, nel giorno del mer- 
cato, cioè in un giorno in cui c'è un notevole movimento di persone che posso- 
no leggere le affissioni. Il mercato empolese infatti era molto frequentato già al 
tempo del Granduca, poiché Empoli costituiva uno snodo essenziale per le merci 
che provenivano dal porto di Livorno o vi venivano inviate e continua ad esserlo 
anche durante il Regno d’Italia. 

L'allestimento della grande mostra dura tre anni durante i quali vengono con- 


! Il Monte Pio era un “ente prestatore”, il solo tra Pisa e Firenze. Rivestiva perciò, come precisa 


S. Soldani, notevole importanza nel territorio per i crediti e i pegni a breve e medio termine e di piccola 
entità. Questo Ente aumenta sempre di più le sue funzioni: riceve depositi, acquista e vende titoli pub- 
blici, esercita il cambio, fornisce mutui ed altro ancora tanto da divenire una delle maggiori istituzioni 
empolesi. 


450 


La “Grande Mostra Campionaria Nazionale” del 1907 a Empoli 


tattati molti imprenditori e artigiani, ma anche rappresentanti della cultura e 
funzionari pubblici, in modo da diffondere le conoscenze che nelle manifesta- 
zioni ubi he divengono visibili e possono stimolare le persone a valorizzare 
il proprio talento. In un'apposita cartella vengono conservati gli elenchi degli 
imprenditori che hanno aderito all’iniziativa, suddivisi per settori, meccanico, 
tessile, agricolo e via dicendo. Ciascun partecipante aveva compilato una scheda 
di adesione appositamente predisposta. In tale modulo venivano brevemente de- 
scritti i prodotti da esporre e lo spazio necessario per farlo. 

Diverse ditte vengono premiate per i prodotti innovativi e di qualità che han- 
no presentato; anzi si può affermare che i premi assegnati costituivano una delle 
spinte maggiori per stimolare i produttori a partecipare alla manifestazione. I 
premi portavano lustro e prestigio alla ditta vincente che poteva ricevere nume- 
rose commesse. 

Il programma della mostra è molto nutrito e si svolge nell’arco di due mesi: 
maggio e giugno. 

La mostra, il 19 maggio 1907, viene aperta in nome del governo dall’ Ono- 
revole Sanarelli che poco prima si era recato a Montelupo, a Capraia e a Limite, 
ed aveva visitato anche una fabbrica di ceramiche della ditta Fanciullacci. Alle 
15 e trenta viene ricevuto in Comune dal Sindaco e dal Presidente del Comitato 
promotore e dal comm. Paolo Del Vivo, deputato provinciale; con loro si reca 
ad inaugurare gli spazi espositivi. Questi sono costituiti da quattro padiglioni, 
addobbati elegantemente con festoni e bandiere, predisposti da Dario e Alberto 
Manetti nell’odierna piazza Giacomo Matteotti, al loro interno è esposta la mag- 
gior parte dei prodotti presentati?. 

Per primi parlano il Sindaco cav. avv. Gregorio Chianini e alcune autorità lo- 
cali, poi interviene l'Onorevole il quale pronuncia un discorso molto apprezzato 
dai presenti che, con grandi applausi, ne sottolineano le frasi più significative. 
Ripercorre brevemente la storia di Empoli e valorizza lo spirito fattivo dei suoi 
abitanti che non si sono dedicati soltanto al commercio, ma si sono impegnati 
per migliorare l'assistenza e per dare alla città un ospedale moderno e funzionale, 
grazie anche alle generose donazioni della famiglia Del Papa e di altre famiglie 
locali come Antinori e Martelli. 

Il quotidiano “La Nazione”*, l'indomani, ne parla in prima pagina riportando 
alcune sue parole riguardanti la città, parole che valorizzano l'operosità mercantile, 
e sottolineano il fatto che Empoli ha rovesciato le mura per accogliere le industrie 
moderne ed ha riprodotto in piccolo, riflettendole in tutti i suoi maggiori momenti, 
la vita di Firenze. 

Nel medesimo articolo si evidenzia anche la mondanità con la partecipazione 


Piazza G. Matteotti e le abitazioni circostanti vengono realizzate a partire dalla seconda metà 
del 1800 dopo l’interramento di un ramo dell'Arno. Il terreno così ricavato viene messo in vendita e 
acquistato da alcuni possidenti locali. In pochi anni nasce un quartiere residenziale, immerso nel verde 
e adatto alle necessità della borghesia empolese. Nel frattempo il nuovo spazio viene usato come per il 
mercato del bestiame che fino ad allora si svolgeva al “Campaccio”, oggi piazza della Vittoria, mentre 
nella vicina via Rozzalupi venivano venduti cesti, bigonce ed altri accessori adatti al lavoro nei campi. 
ASCE, Regolamenti comunali, Allegati al regolamento di Polizia municipale per il Comune di Empoli, 
1897. 

3. “La Nazione” di Firenze, 29 maggio 1907, anno XLVIII, N° 140, Edizione del mattino. 


451 


Antonella Bertini 


delle signore e signorine eleganti e belle, mogli o sorelle dei notabili e dei borghesi 
più in vista. Il giornalista non riesce a distinguerle tutte, ma nota la sorella dell’O- 
norevole Sanarelli, signora Eva Lampredi, la bella e gentile signora del Sotto pre- 
fetto di San miniato e tutte eleganti e piene di grazia le signore e signorine Fucini, 
Del Vivo, Manetti, Sedoni, Vannucci ed altre ancora. 

Appena terminato il discorso inaugurale si forma un corteo con tutte le Auto- 
rità cittadine, accompagnato dalla banda di Limite sull’Arno che suona la Marcia 
Reale e preceduto dai Carabinieri. Il corteo è diretto verso l'ospedale per valoriz- 
zarne la struttura, da poco rinnovata. Dopo l'ospedale viene visitata la Biblioteca 
e successivamente il corteo si sposta presso la nuova sede della Pubblica Assistenza 
per l'inaugurazione. 

Vari sono gli eventi in programma legati all'esposizione. 

Si comincia il 29 maggio quando l'onorevole Rosati, con un suo discorso, 
presenta il concorso ginnico rivolto alle scuole secondarie delle province toscane 
che allora erano otto. Questa data non è stata scelta casualmente, infatti, in quel 
giorno, si commemorava la battaglia di Curtatone e Montanara, alla quale pre- 
sero parte anche volontari toscani. Lo scontro, avvenuto durante la prima guerra 
d'Indipendenza, ebbe un esito infausto, ma consentì all'esercito piemontese di 
evitare l’aggiramento delle forze austriache e di riorganizzarsi per la vittoriosa 
battaglia ti Goito. 

Il concorso ginnico viene presieduto dal Comm. D'Ambrosio coadiuvato 
come responsabile esecutivo dal Preside della Scuola pareggiata di Empoli, Dott. 
Prof. Angiolo Signorini. 

Vi prendono parte diversi istituti come il Ginnasio e le scuole tecniche di San 
Miniato, la Reale Scuola Tecnica di Fucecchio e quella di Pistoia, il Ginnasio di 
Pontedera e quello di Pisa, il Collegio M. D'Azeglio di Firenze, tutti gli Istituti 
di Empoli ed altri ancora. 

Sempre il 29 maggio si gioca a tombola in piazza Vittorio Emanuele, l'odierna 
piazza della Vittoria, ed il ricavato viene dato in beneficenza. 

Queste iniziative si concludono con un concerto al quale partecipano due in- 
signi musicisti empolesi il violinista Fanfulla Lari ed il baritono Arturo Romboli. 

Nel medesimo giorno ed in quello successivo, allora festivo, ha luogo in piazza 
Guido Guerra una corsa di cavalli alla romana; una corsa che ha richiesto notevo- 
li preparativi ai quali ha dato man forte anche il Comune concedendo l’uso della 
piazza e fornendo il supporto dei propri cantonieri per i lavori necessari. 

Un altro evento si svolge la domenica del 23 giugno ed è il concorso dei pom- 
pieri presieduto dal signor Antonini e dall'ingegner Fonio, fondatore del corpo 
dei pompieri presso la Pubblica Assistenza. 

Il sabato seguente il signor Pistolesi, con il patronato del Touring club, Rou- 
tier e Audax organizza una competizione ciclistica ed una motociclistica con il 
conferimento di medaglie ed altri premi. 

Il Re stesso sottolinea l’importanza dell'evento inviando una medaglia d’oro 
da consegnare all’associazione vincitrice della gara di moto. 

L'esposizione ha un successo rilevante e permette a Empoli di confermare, 
sotto ogni punto di vista, il proprio ruolo di città centrale nell’area del Medio 
Valdarno. Molte sono le persone che visitano i vari padiglioni, vengono fatti nu- 
merosi affari e stipulati contratti e vendite. 

Anche lo Stato fa la sua parte in quanto la mostra, avendo carattere nazionale, 


452 


La “Grande Mostra Campionaria Nazionale” del 1907 a Empoli 


costituisce un fattore importante per ribadire l’unità d’Italia e per questo, tramite 
il Ministero dei Trasporti, stabilisce che le Ferrovie dello Stato e la Società di na- 
vigazione e ferrovie di Sardegna facciano pagare un prezzo simbolico a chi utilizzi 
questi mezzi per recarsi a visitare l’esposizione. 

La “Grande Mostra Campionaria Nazionale” è stata, per la città toscana, 
un'occasione per farsi conoscere e la possibilità per la Pubblica Assistenza di ve- 
dere realizzata la sede in via Curtatone e Montanara, nei pressi della stazione, cioè 
in una posizione assai favorevole agli spostamenti e alla prestazione dei servizi. 
Pochi anni dopo la sede, proprio per l'apprezzamento dei cittadini e l'aumento 
delle loro necessità assistenziali, ha bisogno di un maggior numero di locali e 
verrà spostata in via XX settembre dove si trova attualmente. 


Fonti inedite 


La ricerca è basata su documenti, non catalogati, conservati nell'Archivio delle 
Pubbliche Assistenze Riunite di Empoli e Castelfiorentino, sede di Empoli. 


Bibliografia 


Bullettino Storico Empolese, Anno V, N° 4, 1961/62, Empoli, Associazione Turi- 
stica Pro. 


LastRrAIoLI G., (2014), Empoli Mille anni in cento pagine, Empoli, Edizioni 
dell’Acero. 


MARCONCINI S. ET AL., (2013), Quaderni d'Archivio, Anno III, n. 3, Empoli. 


Pinto G., Greco G., SOLDANI S., (2019) Empoli nove secoli di storia, Tomo II, 
Età Contemporanea, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura. 


SALVADORI C. (2002 a cura di), Storia delle Pubbliche Assistenze Riunite, Empoli, 
Ibiskos Editrice. 


Tappe M., “La Nazione”, anno XLVII, N° 140, 29 maggio 1907, Edizione del 


mattino. 


453 


Antonella Bertini 


Fig. 1: Alcune ditte aderenti all’“Esposizione Campionaria Nazionale”. 


454 


La “Grande Mostra Campionaria Nazionale” del 1907 a Empoli 


Fig. 2: Lettera della ditta Maccantelli per ricevere il diploma e la medaglia d’oro del Ministero dell’A- 
gricoltura e Industria. 


455 


Antonella Bertini 


Fig. 3: Ingresso della Mostra (in alto) ed un padiglione. 


456 


La “Grande Mostra Campionaria Nazionale” del 1907 a Empoli 


Fig. 4: Espositore Fattoria di Lucignano. 


457 


Antonella Bertini 


Fig. 5: Oggettistica esposta all’interno di un padiglione. 


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Fig. 6: Ditta di maioliche premiata. 


458 


Pittori a San Miniato. 


Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


ANGELO FABRIZI 


Ugo Manaresi 

In casa Cheli a San Miniato (Piazza del Popolo 21) sono conservate ben tredi- 
ci opere del postmacchiaiolo Ugo Manaresi (Ravenna 1851-Livorno 1917)'. Egli 
visse soprattutto a Livorno, andando spesso ad Antignano, dove poteva contem- 
plare il suo soggetto prediletto, il mare, popolato di barche. Tre quadri ritraggono 
persone della famiglia Cheli, dieci sono dipinti di piccole dimensioni eseguiti su 
coperchi rettangolari di legno di scatole per sigari. Tutti i dipinti sono ad olio. 
Comincio dai piccoli, che raffigurano dieci vedute marine e una natura morta. 
Una tavoletta e 1) di cm. 24x14 ha quattro dipinti in una faccia, ciascuno 
di cm. 11x5,50. La faccia porta la scritta: U. Manaresi Aprile 1910. Ha quattro 
vedute marine, una notturna con lume di luna, due viste di giorno con scogli sul 
mare e qualche figura umana, una con cielo scuro e mare in tempesta. 

Abbiamo poi una tavoletta (fig. 2) di cm. 17,50x8,50, che raffigura il mare 
calmo e una barca ferma e due donne sulla riva, firmata U. M. Questa è l’opera 
più bella del gruppo. 

C'è un’altra tavoletta (fig. 3) di cm. 26x14,50 che raffigura una barca sballot- 
tata dalle onde, mentre è colpita da un fulmine. 

Una tavoletta (fig. 4) porta la scritta: U. Manaresi - Livorno 1910 Aprile, scrit- 
to a sinistra in verticale. Sulla destra in verticale è scritto: L. 25 ogni bozzetto L. 
100 tutti e quattro. Ha quattro vedute marine con velieri e barche, col mare in 
tempesta una, altra colta di notte al lume della luna. Colpisce la minuziosità de- 
scrittiva e la delicatezza dei colori. 

Infine c'è (fig. 5) una natura morta di cm. 22,50x15. Su un tavolo sono un 
fiasco impagliato alquanto rovinato, una bottiglia e un bicchiere. Quest'opera 
non è firmata. Secondo me potrebbe anch'essa appartenere a Manaresi: ma non 
ho prove. 

Ci sono poi grandi ritratti della famiglia Cheli. 

Un quadro e, 6) di cm. 77x93 ritrae Angiolo Cheli (1798-1870). La cornice 
dorata è fittamente decorata, con molti piccoli ovali racchiusi entro due cornici. 
Il quadro deve essere stato eseguito alcuni anni dopo la morte di Angiolo (1870), 
e non prima di questa data. Infatti Manaresi era allora un ragazzo non ancora 
ventenne. Come allora usava il dipinto fu tratto da una foto. Sullo sfondo è un 
foglio di grande formato, che di un viadotto a tre piani, con molti archi. 
Essa allude all’attività dell’effigiato, grande impresario edile fiorentino. 


! — Sudilui vedi Ferdinando Donzelli, Pittori livornesi 1900-1950. La scuola labronica del Novecen- 
to, Bologna, Cappelli, 1979. 


459 


Angelo Fabrizi 


Un altro quadro (fig. 7), di cm. 189x147, rappresenta un gruppo: da sinistra 
Angiolo Cheli (1798-1870), il figlio Amerigo Cheli (1835-1892), un figlio di 
Amerigo, Alfredo Cheli (1863-1948), la moglie di Amerigo, Enrichetta Scaffai 
(1836-1921), l’altro figlio di Amerigo, Arturo Cheli (1859-1934). Per la cronaca 
Arturo percorse la carriera militare fino a divenire generale. Partecipò alla prima 
guerra mondiale. La tradizione militare fu continuata dal secondo flo di Alfre- 
do, Arrigo (1906-1984), arrivato al grado più alto di generale di corpo d’armata, 
e che partecipò alla conquista dell'Etiopia e alla seconda guerra mondiale. Il pri- 
mo figlio di Alfredo, Angiolo (1905-1976), fu farmacista a San Miniato. Le età 
approssimative e facilmente intuibili dei due bambini effigiati nel quadro datano 
la rappresentazione a prima del 1870. Ma il quadro fu eseguito verosimilmente 
alcuni anni dopo. ui in questo caso il modello dovette essere una foto. Angio- 
lo è seduto e poggia la mano destra su un foglio, su cui è un compasso. Accanto 
a lui, in piedi, è il figlio Amerigo, con catena d’oro sul panciotto. In piedi è poi 
il figlio Arturo, dall’aria decisa, L moglie Enrichetta, seduta e con sulle paia 
un volume di grande formato, aperto su una pagina che illustra una grande ope- 
ra dell'impresa edile Cheli. Segue Alfredo, loro secondo figlio. Sullo sfondo un 
grande specchio con lussuosa cornice e uno splendido dl Il quadro vuol 
essere la celebrazione di una famiglia molto ricca dell’alta borghesia e orgogliosa 
della propria condizione. L'eleganza degli abiti non è un elemento secondario del 
quadro. Enrichetta ha un abito di colore rosso chiaro e un gioiello al collo. Anche 
i bambini portano un cravattino. La cornice è massiccia e molto decorata, larga e 
sormontata da uno stemma. 

A questo quadro si accompagna un quadretto (fig. 8) di cm. 25x18,50, che fu 
il suo lavoro preparatorio. La cornice è dorata ma senza decorazioni. Manaresi, 
prima di eseguire il quadro grande, ne provò in piccolo la composizione. 


Anton Luigi Gajoni 

Per gli sui che si occupano del pittore Anton Luigi Gajoni (1889-1966), 
fattosi sanminiatese dal 1940 alla morte, basti rinviare al saggio di Luca Macchi?. 
Qui intendo occuparmi solo di tre quadri del Gajoni, di cui due poco noti e uno 
del tutto sconosciuto. Si tratta di tre opere presenti in collezioni private. 

La prima (fig. 9) misura cm. 38x31,50, è ad olio su masonite. Si trova nella 
casa di Piera e Paola Cheli, in San Miniato, piazza del Popolo 21. Raffigura detta 
piazza vista dall’abitazione del Gajoni, che si trovava in cima di detta piazza. Sulla 
sinistra si vede il palazzo Gucci, di fronte la casa Ceccherelli, poi la chiesa dei san- 
ti Jacopo e Lucia detta di S. Domenico. Al piano terreno della casa Ceccherelli è 
la farmacia, allora gestita da Angiolo Cheli (1905-1976), poi dal figlio Amerigo, 
nato nel 1936. Da tempo essa si è trasferita di fronte, nella porta che precede la 
libreria-edicola Catarcioni e il bar Cantini. Dopo la farmacia al piano terreno 
di casa Ceccherelli si vede il negozio di frutta e verdura, tenuto allora da Tina 
Valori. La chiesa ha la facciata in laterizi con al centro il portale sormontato da 
una finestra. Il portale ha una lunetta bianca. Il 31 maggio 1959 fu inaugurata la 
medesima lunetta affrescata dallo stesso Gajoni, raffigurante la Madonna in trono 


Nel «Bollettino della Accademia degli Euteleti della città di San Miniato», n. 84, 2017, pp. 227-238. 


460 


Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


con il Bambino tra i Santi Domenico e Caterina. 

Giorgio Giolli data il quadro al 1959-1960. Evidentemente il quadro è al- 
quanto anteriore a questi anni. Questo quadro è riprodotto in un articolo di 
Giorgio Giolli*. Nella piazza, bagnata dalla pioggia, sono parcheggiate tre auto 
nere e un autobus azzurro; una quarta auto è sotto palazzo Gucci. Nella piazza 
sono quattro persone. Gajoni coglie i più minuti particolari dello scorcio citta- 
dino: la bacheca a fianco della farmacia, la merce colorata dell’ortolana offerta in 
cassettine, l'orologio posto a metà altezza dell'angolo del palazzo che si trova a 
destra della chiesa, il luccichio dell'asfalto bagnato e delle auto parcheggiate. Il 
fascino del quadro è nei colori sfumati degli edifici e dell'asfalto, una vera sin- 
fonia di colori tutti diversi tra loro e tutti attenuati. Sembra che il Gajoni gusti 
affettuosamente le pareti delle case, l'asfalto, il cielo grigio e nuvoloso. 

Altro dipinto a olio (fig. 10), che misura 24x31, si trova ancora in casa Cheli, 
ed è finora inedito. Raffigura tetti al di sopra dei quali svetta la torre di Matilde, 
ovvero il campanile del duomo. Non ci sono figure umane, solo tetti, un comi- 
gnolo, panni stesi. I colori sono al solito sfumati e tenui. Deve risalire agli anni 
del precedente dipinto. 

Il terzo quadro (fig. 11) è riprodotto dal Giolli nell'articolo già citato. Egli 
lo data al 1950 con punto interrogativo. Il quadro fu commissionato al Gajoni 
dall'ingegner Bruno Gozzini e da Anna Baccetti in occasione delle loro nozze. 
Esse furono celebrate nel gennaio 1951. Credo di ricordare una testimonianza 
offertami da Anna Baccetti anni fa. Mi disse che per il suo matrimonio non aveva 
voluto foto, ma solo un quadro eseguito per l'occasione dal Gajoni. I coniugi 
Gozzini abitarono nel palazzo Gucci, piazza del popolo 21 a 
posto sotto quello dei Cheli). Il quadro è sempre in casa Gozzini, ove risiede ora 
la loro figliola Maria. Il quadro raffigura la piazza del Popolo di San Miniato, 
mentre gli sposi, lei in completo bianco con lungo velo, lui in abito nero, stanno 
per entrare nella chiesa dei santi Jacopo e Lucia detta di S. Domenico. Attorno ad 
essi fa corona una folla di curiosi. In primo piano sono tre auto parcheggiate. Al 
solito Gajoni rispetta i particolari minimi del paesaggio cittadino. Invece le per- 
sone sono una serie infinita di colori accennati. Guardando queste opere viene in 
mente una celebre affermazione di Pablo Picasso: Il pittore fa una macchia gialla 
ed è il sole, l’imbrattatele fa il sole ed è una macchia gialla. Gajoni è un pittore. 


Dilvo Lotti 

Anche per il sanminiatese Dilvo Lotti basti rimandare ai molti studi sulla sua 
pittura dovuti a Luca Macchi). 

Presento qui cinque opere del Lotti appartenenti a Paola Cheli e tre apparte- 
nenti a Piera Cheli. . 

Comincio con queste ultime. E un olio (fig. 12) inedito del Lotti. Misura 


3 


Vedi Luca Macchi, Un contributo al catalogo di Anton Luigi Gajoni: due opere per la chiesa dei 
Domenicani di San Miniato, «Bollettino della Accademia degli Euteleti della città di San Miniato», n. 
84, dicembre 2017, pp. 227-238. 

4 Giorgio Giolli, 2 dipinti inediti di Antonio Luigi Gajoni, messo su internet il 3 luglio 2014. 

© Ardengo Soffici a Dilvo Lotti. Lettere inedite 1940-1963, Prato, Pentalinea, 2002; Dilvo Lotti. 
L'arte e la fede, Pisa, ETS, 2003; Dilvo Lotti, un maestro della pittura, Pisa, Pacini, 2007. 


461 


Angelo Fabrizi 


cm 29x19. Risale al 1969. Fu da lui regalato a Piera Cheli in occasione del suo 
matrimonio col sottoscritto. Raffigura un grande albero sulla sinistra e la torre 
federiciana a destra. Ai piedi dellla un bambino fa volare nel cielo un aquilo- 
ne. Tutto il dipinto si avvale di poche robuste pennellate dai colori accesi. Colori 
dominanti sono il verde dell’albero, l'azzurro chiaro che sfuma nel giallo del cielo, 
il caldo arancione della torre. 

C'è poi una incisione (fig. 13) in bianco e nero. Misura cm 46x13. Alla base 

Di scritto a lapis A. 10/20 e la firma Dilvo Lotti 70. San Miniato è vista da 
ontano, con le torri svettanti di Matilde e di Federico. A sinistra in basso sono 
due figure umane con le braccia alzate vero il cielo, dal quale piovono forse bom- 
bardamenti. 

C'è un'altra incisione (fig. 14), colorata. Misura cm 31x12,5. Porta in basso 
scritto a lapis B 5/10 e la firma Dilvo Lotti 71. L'incisione raffigura la torre fede- 
riciana, detta comunemente la rocca. In basso è effigiato lo stemma della città di 
San Miniato. Lo scudo è bipartito. A sinistra è un leone armato di spada, a destra 
colli sormontati dal sole. La prima parte corrisponde allo stemma di San Minia- 
to5. Colori dominanti sono l'arancione della torre, l'azzurro del cielo, il rosso di 
metà dello stemma. 

Sono tre testimonianze del culto che il Lotti ebbe per San Miniato, per i suoi 
paesaggi magici, le sue colline, l'incanto dei suoi monumenti, il fascino antico 
della rocca. Questa gli affiorava sotto i pennelli, sotto la penna, dovunque e in 
ogni occasione. 

Un altro quadro (fig. 15) del Lotti di grandi dimensioni è in casa Cheli a San 
Miniato. Misura cm 64x48. E un ritratto acquerellato in bianco e nero di Olga 
Pugi Cheli (1909-2003), moglie di Angiolo Cheli (1905-1976). In basso Lotti 
scrisse: Per Olga e Angelo Cheli / il 24 Aprile 1960 D. Lotti. 

In casa Cheli sono ancora del Lotti quattro piccoli oli, raffiguranti con vivi co- 
lori nature morte e un bellissimo arlecchino colorato (di cm 69x49). (fig. 16-20) 


In casa Cheli c'è infine un disegno (fig. 21) eseguito a inchiostro rosso su carta 
di cm 17x23, raffigurante due cavalli, di Bissietta”. 

5. E poi c'è una testa di bambina in terracotta (fig. 22), di delicata fattura. 
Raffigura Luisa Ceccherelli (4.9.1881-19.2.1969), Li di Angiolo Cheli. Sulla 
destra in basso porta la scritta incisa: £ Gabbanini. A sinistra in basso ha la scritta 
incisa: S. MINIATO 4 Agosto 1885. Lo scultore è Ezio Gabbanini, che operò atti- 
vamente nel secondo Ottocento a Pisa. Fu specialista di ritratti dal vero®. 


6 Vedilo in San Miniato nel Settecento. Economia, Società, Arte, a cura di Paolo Morelli, Pisa, 


Pacini, 2003, p. [21]. 

7. Sono già riprodotti in Bissietta, Giuseppe Fontanelli. La vita e l'arte, il ritorno a San Miniato, 
A cura di Luca Macchi, Prefazione di Nicola Micieli, Pontedera, Bandecchi & Vivaldi, 2019, p. 9. A 
p. 16 Macchi spiega il nome d’arte Bissietta: proviene da storpiatura infantile della parola bicicletta in 
brissietta o bissietta. Fu adottato negli anni trenta del secolo scorso. 

8. Vedi Stefano Renzoni, Pittori e scultori attivi a Pisa nel XIX secolo, Pisa, Pacini, 1997. 


462 


Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 1: Ugo Manaresi, Tavoletta con quattro dipinti. 


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Fig. 2: Ugo Manaresi, Tavoletta con dipinto. 


Angelo Fabrizi 


Fig. 3: Ugo Manaresi, Tavoletta con dipinto. 


464 


Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 4: - Ugo Manaresi, Tavoletta con quattro dipinti. 


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Angelo Fabrizi 


Fig. 5: Ugo Manaresi, Natura morta. 


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Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 6: Ugo Manaresi, Ritratto di Angiolo Cheli (1798-1870). 


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Angelo Fabrizi 


Fig. 8: Ugo Manaresi, Ritratto della famiglia Cheli. 


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Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 9: Anton Luigi Gajoni, San Miniato, Piazza del Popolo. 


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Angelo Fabrizi 


Fig. 10: Anton Luigi Gajoni, San Miniato, Tetti. 


470 


Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 12: Dilvo Lotti, L’aquilone. 


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Angelo Fabrizi 


Fig. 13: Dilvo Lotti, San Miniato, veduta. 


472 


Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


tali 


Fig. 14: Dilvo Lotti, San Miniato, la rocca. 


473 


Angelo Fabrizi 


Fig. 15: Dilvo Lotti, Ritratto di Olga Pugi Cheli (1960). 


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Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 17: Dilvo Lotti, Natura morta. 


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Angelo Fabrizi 


Fig. 18: Dilvo Lotti, Natura morta. 


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Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 19: Dilvo Lotti, Natura morta. 


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Angelo Fabrizi 


Fig. 20: Dilvo Lotti, Arlecchino. 


478 


Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 21: Bissietta (Giuseppe Fontanelli), Cavalli. 


479 


Angelo Fabrizi 


Fig. 22: Ezio Gabbanini, Ritratto di Luisa Cecchereli. 


480 


Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


Fig. 23: Arturo Cheli, Luisa Ceccherelli e Alfredo Cheli. In piedi Arrigo Cheli. 


481 


Angelo Fabrizi 


Fig. 24: Bruno Gozzini e Anna Baccetti, fotografati nell'ottobre 1944. 


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Fig. 25: Olga Pugi Cheli. 


482 


Pittori a San Miniato. Ugo Manaresi, Antonio Luigi Gajoni, Dilvo Lotti 


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Fig. 26: Luisa Ceccherelli. 


Il cavaliere della Chiecina 


CLAUDIO BISCARINI 


E mentre marciavi con l’anima in spalle 
Vedesti un uomo in fondo alla valle 

Che aveva il tuo stesso identico umore 
Ma la divisa di un altro colore 

Sparagli Piero, sparagli ora 

E dopo un colpo sparagli ancora 

Fino a che tu non lo vedrai esangue 
Cadere in terra a coprire il suo sangue 


(La guerra di Piero, Fabrizio De Andrè) 


Provincia di Cuneo, terra di partigiani. Uno di essi, ex ufficiale del 5° reggi- 
mento Alpini in Russia, nel dopoguerra divenne un famoso scrittore: Benvenuto, 
detto Nuto, Revelli'. Uno dei suoi lavori raccontava una storia che, a ogni abi- 
tante della zona di San Miniato, sarebbe parsa accaduta nel nostro territorio. E, 
invece, no. O non solo. 

In un articolo sull’/ndice del dicembre 1994, Rossana Rossanda, a proposito 
di questo fatto di guerra, scriveva: 


Vent'anni fa, mentre raccoglieva materiale per il Mondo dei Vinti, Nuto Revel- 
li sè imbattuto in un ricordo non suo ma di un amico partigiano, Marco. Parlando 
del 1944 nel Cuneese e degli umori contadini, fra sostegno alla guerriglia e paura 
della rappresaglia, d'improvviso Marco aveva evocato una rappresaglia che non 
c'era stata, dopo un'azione che non sapeva da chi compiuta e in quale data, contro 
un ufficiale tedesco che aveva lasciato di sé un'immagine sorprendente. Costui ogni 
mattina usciva a cavallo, da solo, scorrendo tranquillamente le rive del fiume Ges- 
so, scambiando un saluto con i contadini che incontrava, offrendo una sigaretta 
dove abbeverava il cavallo e forse dicendo qualche parola gentile ai bambini. Una 


! Era nato a Cuneo il 21 luglio 1919. Tenente volontario in Russia con la 2a divisione Tridentina, 


5° reggimento, battaglione Tirano. Fu decorato di Medaglia d'Argento e partecipò alla lunga ritirata 
del gennaio 1943. Dopo l'armistizio, con in spalla una pistola mitragliatrice MP 40 tedesca e un mitra 
sovietico PPsh 41 che aveva riportato dalla Russia, salì in montagna creando e comandando una banda 
partigiana. Diventerà, alla fine, comandante della Brigata Valle Stura “Carlo Rosselli”. La sua formazio- 
ne riuscì a sfuggire a diversi rastrellamenti tedeschi. Revelli scrisse la nota canzone della Resistenza Pietà 
l'è morta (Bandiera nera) e la Badoglieide, una sarcastica presa in giro del maresciallo d’Italia. Diventato 
scrittore, Revelli divenne presto noto per il suo stile scarno. Morì il 5 febbraio 2004 nella sua Cuneo. 
Decorato con tre Medaglie d'Argento, una Croce al Merito di Guerra, Medaglia Commemorativa della 
guerra 1940-1943, Medaglia Commemorativa della guerra di Liberazione 1943-1945, Distintivo d’o- 


» 


nore per i patrioti “Volontari della Libertà”. 


485 


Claudio Biscarini 


mattina il cavallo era ritornato in caserma senza di lui, i tedeschi erano usciti 
a cercarlo, il corpo non è mai stato trovato. E non cera stata rappresaglia. Tutto 
insolito”. 


Revelli era rimasto stupito da questo ufficiale così diverso dallo stereotipo che 
si era portato dietro dalla Russia, del tedesco arrogante e violento. 
La Rossanda scrive ancora: 


Il disperso di Marburg è prima di tutto un tedesco, ucciso da partigiani, 0 da 
sbandati, o meglio da “colpisti” (quelli del “vado e ammazzo”, partigiani sbrigativi 
e non illuminati dalla coscienza e dalla ragione, invisi all'autore), in una imbosca- 
ta 0 in un incontro-scontro casuale. 


Ma il morto è così fuori dallo schema consueto, che in primo tempo non si è 
ben certi nemmeno della sua nazionalità forse è slzvo, alcuni pensano. 


Era comunque uno che osava aggirarsi da solo, la mattina, su un cavallo 
(bianco? Grigiastro?) in mezzo a lande scoperte ai piedi della gran chiostra delle 
Alpi, verso San Rocco, tra Cuneo e Borgo, e salutava i contadini al lavoro, era gen- 
tile. Era un bell'uomo. Ma di vent'anni? di trenta? di quaranta? Era un “cavaliere 
solitario” che nascondeva chissà cosa, che era diverso in chissà che modo dagli altri 
tedeschi, dagli altri nemici. Quando fu ucciso, e il cavallo fuggì e tornò in caserma, 
e i commilitoni vennero a setacciare e a fermare, non vi fu la solita ritorsione con 
la strage di ostaggi. Il corpo imputridì in una radura nel fiume, finché le acque 
non lo portarono via. Chi sapeva della sua esistenza, chi l'aveva visto non volle 


seppellirlo per paura. 


Questo racconto colpì Revelli che, grazie a storici comuni amici, come Carlo 
Gentile dell’Università di Colonia, che ci onora della sua amicizia, decise di sco- 
prire chi era quell’ufficiale così anomalo. E ci riuscì. Si trattava di Rudolf Knaut, 
nato a Marburg il 18 settembre 1920, sottotenente della riserva, studente in leg- 
ge, ufficiale d'ordinanza dell’Ost-Bataillon 617°, abitante a Marburg Am Griin 
15. Aveva un fratello, caduto in Russia. Il 30 giugno 1944, il suo capitano co- 
municava alla famiglia che il figlio era stato catturato dai partigiani il 16 giugno 
1944. In realtà, Jens Petersen, in un articolo del 25 gennaio 1995 sul Frankfurter 
Allgemeine Zeitung, scriveva: 


Importante punto di passaggio si rivela la data dell'attentato: il 14 giugno 
1944. Revelli trova due dei partigiani (rimasti anonimi) che vi parteciparono. 
Veniamo così a sapere che il gruppo si imbatté per caso nel cavaliere solitario e 
che, in quella situazione d'emergenza, lo disarmò. Quando il cavallo tornando 


Cfr. NUTO REVELLI, // disperso di Marburg, Torino, Giulio Einaudi editore, 1994, p.V. 
Ibidem. 

Articolo ne’ L'Unità, 31 ottobre 1994, a firma di Goffredo Fofi, Ibidem, p. XII. 
L’Ost-Bataillon 617 era formato da ex militari dell’Armata Rossa che si erano arruolati nella 
Wehrmacht, comandati da ufficiali e sottufficiali tedeschi. Alcuni reparti di questo battaglione, parteci- 
parono alle seguenti stragi di civili: 10 maggio 1944, Castelnuovo Pinasca, 12 vittime; 10 maggio 1944, 
Rifugio Geat, San Giorio di Susa, 5 vittime; 13 maggio 1944, Sant'Antonio di Susa, 17 vittime; Forno 
di Coazze e Grange Garida, Coazze, 28 vittime; 1 dicembre 1944, Échallod Arnad, 2 vittime. Atlante 
delle stragi nazifasciste in Italia. 


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486 


Il cavaliere della Chiecina 


indietro diede l'allarme e rese indispensabile la fuga, non restò altro che giustiziare 
il prigioniero su un isolotto del fiume. 


La figura di questo ufficiale, come quella dell’altro di cui ci occuperemo a 
breve la cui storia ha numerosissime analogie con quella di Knaut, apriva un di- 
scorso che oggi, la storiografia più avanzata, ha cominciato a sciogliere: la figura 
del cattivo tedesco rispetto a quella del buono italiano’, l'italiano, brava gente. 


Dalle colline del Cuneese, spostiamoci ora a quelle del Samminiatese. 

Un giorno di giugno. Un soldato a cavallo. Un fiume e dei partigiani. Una 
sensazione di déjà vu, di già sentito, già letto. 

Era un venerdì quel 16 giugno 1944. La Chiesa ricordava San Aureliano. Il 
sole si levava alle 4,35 e tramontava alle 19, 46. Quel giorno, però, una persona 
non avrebbe visto il tramonto. 

Un solitario cavaliere risaliva il torrente Chiecina?, come faceva ormai da gior- 
ni, quella piccola via d’acqua che, nascendo dalle parti di Collegalli in località 
Piscilli, scivola per 20 chilometri e va a sfociare nell’Arno a Casa Chiecina presso 
Castel del Bosco. Andava piano, il cavaliere, al passo, non aveva fretta. Il suo era 
un viaggio nel silenzio, lontano dalla guerra per un po’, pensando a casa, a quello 
che aveva passato e a quello che si aspettava dal futuro. Forse pensava anche alla 
giovane donna italiana, nipote di una signora sfollata da Genova e che parlava 
tedesco, con la quale aveva iniziato una certa confidenza!°. Forse era stanco della 
guerra!!, come erano stanchi quei giovani che lo avrebbero di lì a poco incontrato. 
Quel giorno, infatti, sarebbe stato diverso. A volte, il destino è una pagina bianca. 

Scrive Enzo Cintelli, riportando una testimonianza di Giulio Zingoni: 


Tre giovani che scendevano da Collegalli verso il Chiecina senza, forse, nessuno 
scopo preciso, per caso si imbatterono nel tenente tedesco che tutto solo, cavalcava 
per diporto la cavallina nera conosciuta da tutti noi per quella del fattore Paoli 


6 NUTO REVELLI, op. cit., p. XIX. 

7. Cfr. FILIPPO FOCARDI, // cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della 
seconda guerra mondiale, Bari, Laterza editori, 2013. 

8 Dal film Italiani, brava gente di Giuseppe De Santis del 1964. 

°. Le azioni ricordate in questo studio, si svolsero a poca distanza dal luogo dove, a luglio del 
1944, furono piazzate le batterie del 337° US Field Artillery Battalion i cui obici da 105 mm furono 
indirettamente responsabili dell’eccidio del Duomo di San Miniato del 22 luglio 1944. 

!° L'amore per una donna poteva portare alla diserzione, come accadde al capitano delle Ge- 
birgstruppe Victor Demetrio Christomannos Hermann, per gl italiani Cristomanno, che mentre era 
addetto alla costruzione della linea Gotica al Passo della Collina sopra Pistoia, si innamorò della bella 
Olga Signorini e, prima dell’arrivo degli Alleati, fuggì con lei. Si sposarono e vissero assieme fino al 
1977, quando morirono entrambi a poca distanza di tempo l’uno dall’altra. Cfr. Di guerra e di genti. 
100 vacconti della Linea Gotica, a cura di Andrea Marchi, Gabriele Ronchetti, Massimo Turchi, Bolo- 
gna, Edizioni Pendragon, 2020, pp. 172-175. 

!! Si è anche parlato della sua intenzione di disertare perché avrebbe saputo del trasferimento della 
sua unità sul fronte russo. La cosa ci appare improbabile. Solo il 15 luglio, il comandante della Hermann 
Gòring ricevette il telegramma che diceva: Rompere immediatamente il contatto con il nemico e riunire la 
vostra divisione nel settore di Bologna. Come avrebbe fatto Wiinsche a saperlo un mese prima? Cfr. JEAN 
MABIRE, La Panzerdivision Herman Goering, Parigi, Edition Grancher, 1992, p. 143. 


487 


Claudio Biscarini 


della Casaccia!”. 


In effetti, era vero: la cavallina apparteneva al fattore Pietro Paoli, come ci 
conferma l’amico Daniele Benvenuti. Daniele è rimasto particolarmente colpito 
da questo fatto, tanto da dedicare ad esso il suo tempo per una ricerca e raccolta 
testimonianze. Andiamo avanti. Un testimone, Savino Savini, riporta che l’uf- 
ficiale era solito passare e anche acquistare del cibo, lui parla di uova, pagando 
regolarmente. Quel 16 giugno, intorno alle 11-11,30, dopo che era passato il 
cavaliere, si sentirono degli spari verso una zona detta /4 capanna ma nessuno ci 
fece caso. La zona si trova a circa 5 Km dalla fattoria della Casaccia. Quel che era 
accaduto lo racconta Enzo Paroli che si trovò al fatto, dopo essere stato a Buccia- 
no ad incontrare il capitano Loris Sliepizza: 


Ero nel bosco insieme ad un gruppo di partigiani della Formazione Mori Fio- 
ravante!3. [...] Eravamo nei primi giorni di giugno 1944 verso le 11. [...] Tutto 
cambiò in un attimo quando in lontananza avvistammo un cavallo risalire di lato 
al Rio Chiecina, era cavalcato da un militare tedesco, inconfondibile per la divisa 
che indossava**. 


L'arrivo del cavaliere mise tutti in subbuglio. Enzo Paroli, essendo l’unico che 
aveva esperienza militare, dovette decidere che fare. Il tedesco poteva essere una 
spia e allora il nascondiglio che, a suo dire, i partigiani si erano scelti in quel tratto 
di terreno, sarebbe stato in pericolo. Qui occorre porsi delle domande. È possibile 
che nei giorni seguenti, nessuno dei combattenti alla macchia, non avesse notato 
quel soldato? Le spie, di solito, agivano in borghese per cercare notizie utili e que- 
sto “servizio” spesso lo facevano i membri degli Uffici Politici Investigativi della 
Guardia Nazionale Repubblicana, che il 16 giugno 1944 erano in ripiegamento 
verso il nord. Di solito, un ufficiale tedesco non si impiegava in questo ruolo, 
ma certamente i partigiani non potevano saperlo. Enzo, quindi, dette l'ordine di 
prendere il soldato: 


[...] Saranno stati una ventina i patrioti presenti, chiesi a tre di loro di accom- 
pagnarmi, si scese il tratto del poggio rapidamente e andammo a nascondersi tra le 


piante del rio, il resto del gruppo rimase nel bosco. 


Tutto andò secondo i pieni, la cavallina si mostrò docile e così anche il mi- 
litare tedesco che scese tranquillamente dalla sella. Ora, i partigiani avevano un 
problema: che fare del prigioniero visto che il fronte era ancora molto lontano? 


1? Cfr. ENZO CINTELLI, San Miniato, settant'anni dalla Liberazione, Pontedera, Tagete Edizio- 
ni, 2014, p.235. 

!5 Fioravante Mori era nato a Montelupo Fiorentino nel 1893, antifascista, nella relazione che 
scrisse dopo la guerra, dichiarava che aveva creato ufficialmente la sua formazione il 27 marzo 1944. 
Cfr. Miscellanea Storica della Valdelsa, Antifascismo e Resistenza in Valdelsa, Società Storica della Valdel- 
sa, Castelfiorentino, 1971, anni LXXIV- (nn.1-3) Gennaio-Dicembre 1968-70, Della Serie 189-197, 
Dalla Relazione della Formazione Partigiana comandata da Mori Fioravante, pp. 240-249. 

14 Cfr. ENZO CINTELLI, op. cit., p.236. 

!5 Era tenente del Regio Esercito. 


6. Cfr. ENZO CINTELLI, op. cit., p.236. 


488 


Il cavaliere della Chiecina 


Continua il racconto di Enzo Paroli: 


Per prudenza pensai di procedere alla bendatura del prigioniero con un pezzo 
di stoffa di fortuna, in quel momento avvenne la svolta, successe l’imprevisto la 
bendatura fu interpretata come una condanna a morte, il militare ebbe una rea- 
zione fulminea, con un gesto di rabbia e di orgoglio si liberò della benda e di noi, 
cominciò a correre disperatamente fra la fitta vegetazione che costeggiava il Rio. 


Il dramma stava per compiersi. Il tedesco scappava tra le piante ma, in dire- 
zione sbagliata, stava andando verso il gruppo di partigiani che era rimasto nel 
bosco. Forse non li vide e cercò riparo proprio in quest'ultimo, ma una serie di 
colpi lo raggiunse al petto e l’ufficiale morì. 

Enzo Paroli non sa dire, nella sua testimonianza, se il tedesco morì subito o fu 
finito da un colpo di grazia. Le ultime sue considerazioni sono per chi lo uccise: 


Quello che successe poteva essere evitato forse, nel caso che il gruppo di partigia- 
ni avesse avuto una preparazione militare all’altezza"*. 


I partigiani pare che se ne andassero, lasciando il corpo del militare lì, dove 
era caduto. Un vero dramma per le popolazioni vicine al luogo dell’agguato. Ben 
si sapeva quello che i tedeschi facevano in quei casi. Fu una donna a salvare la 
situazione. Ricordava Savino Savini": 

I miei ricordi di ragazzo sono legati a una donna coraggiosa a cui tutte le fami- 
glie della valle della Chiecina furono riconoscenti, si chiamava Elverina Fiaschi, 
una vera eroina, con lucidità e freddezza si rese conto del pericolo che rappresenta- 
va avere quel morto vicino casa, si mise da sola a scavare una buca nel letto del Rio, 
per poi sotterrare il corpo del militare. Con tutta la famiglia se ne andò per sfollare 
da un parente sulla collina di Balconevisi. Quella sera la cavallina fece ritorno da 
sola in fattoria alla Casaccia senza il Tenente. 


Come non concordare con Savini: questa donna meriterebbe almeno una 
medaglia al valor civile alla memoria perché salvò una intera comunità da una 
terribile rappresaglia. Diversa, e interessante, la versione di Nino Bini. Secondo 
lo scomparso autore di un volume sulla guerra nel Valdarno, i partigiani si erano 
insediati nel bosco di Calibindoli dove erano state costruite delle capanne di 
frasche, passando il 20 maggio 1944 alle dipendenze del 23° battaglione d'assalto 
“Guido Boscaglia” della Brigata Garibaldi, che operava nel Volterrano?®. Secondo 


Ibidem, p. 236. 

!8 Ibidem, p. 237. 

!° Ibidem, p. 239. 

20 Cfr. NINO BINI, // Valdarno Inferiore nel 1944. Diari e memorie, Firenze, Edizioni Polistampa, 
2013, p. 244. In realtà, si trattava della 23a Brigata Garibaldi Guido Boscaglia ( dal nome del partigiano 
Guido Radi detto Boscaglia, caduto 18 maggio 1944) che operava a cavallo delle provincie di Pisa, Siena 
e Grosseto sul massiccio delle Carline. Era comandata da Alberto Bargagna, nome di battaglia Giorgio, 
e solo dopo lo scioglimento della Brigata, avvenuto il 20 luglio 1944, alcuni partigiani della formazione 
si diressero verso l'Arno dove fecero da staffette e guide per gli americani, avendo anche delle perdite, 


e verso Empoli con gli ex membri della III Compagnia, comandati da Aldo Giuntoli, mom de guerre 
Marco. 


489 


Claudio Biscarini 


Bini, il tenente tedesco venne prima colpito da distanza e ferito a un braccio. 
Caduto da cavallo, venne circondato dagli armati ai quali avrebbe cercato di 
trasmettere le sue buone intenzioni, essendo anche disarmato”'. I partigiani lo 
avrebbero spinto verso il bosco lungo il Chiecina e lui, visto come si stavano 
mettendo le cose, data una grossa spinta al personaggio che aveva al suo fianco, 
scappò nel torrente. Una scarica di arma da fuoco lo fece cadere a terra e venne 
finito con un colpo alla testa. E molto interessante leggere quanto scriveva Nuto 
Revelli a proposito del “suo” tedesco: 


Ed è lì che vi siete imbattuti in quel tedesco? VITTORIO: No, poco più in giù 
verso Cuneo. Ce lo siamo trovato di fronte all'improvviso, e l'abbiamo bloccato. 
Tutto è successo in un attimo. Lui come ha reagito? VITTORIO: È rimasto senza 
sangue, come di pietra. Siamo stati lesti a disarmarlo, poi l'abbiamo fatto scendere 
da cavallo. Ma non aveva ancora posato i piedi per terra che il cavallo è partito 
al galoppo. “Adesso cosa facciamo?- ci siamo detti- Tra pochi minuti il cavallo è in 
caserma e ci arrivano addosso”. Siamo scesi lungo una ripa, e abbiamo raggiunto la 
sponda del fiume. Lì c'era da attraversare un piccolo corso d’acqua, ma quel tedesco 
non voleva saperne di bagnarsi. Si è tolto gli stivali, pur di guadagnare tempo. Ho 
dovuto spingerlo, gli ho rifilato anche un calcio nel sedere”?. 


Il ia n continua a raccontare a Revelli che l'ufficiale cercava di con- 
vincerli a lasciarlo libero, cercando, nel frattempo, di guadagnare tempo nella 
speranza di un aiuto dai suoi, fino a che: 


A un certo punto abbiamo sentito alcune raffiche vicine. Lui ha dato una 


spinta ad Andrea, e allora Andrea l’ha ucciso®3. 


Pare la fotocopia di quanto riportato da Bini. 

Sempre quest'ultimo afferma, grazie al racconto che gli fece un suo amico che 
era stato partecipe dei fatti, che a sotterrare malamente i corpo sarebbero stati gli 
stessi partigiani e che a lavare via sia il sangue che i segni del sommario seppellimen- 
to, sarebbe stato un forte acquazzone estivo che ne avrebbe cancellato le tracce?“ 

Il cadavere del tenente, ci scrive l’amico Daniele Benvenuti: 


Il corpo venne sepolto vicino al torrente Chiecina quasi in secca a qualche 
metro dove inizia il bosco e venne malamente no nel terreno e ricoperto 
alla meglio con arbusti. I partigiani fuggirono immediatamente. La notte venne 
un forte temporale che allagò la zona e smosse molta terra e sabbia che per fortuna 
ricoprì il cadavere o per lo meno l’evento fece sì che nessuno lo trovasse. La ricerca 
inizia già dal mattino presto successivo alla scomparsa, mentre pioveva ancora. 
Sembra che una trentina di soldati si inoltrassero armati risalendo la valle per 
cercarlo. ogni abitazione venne scandagliata e quelle poche famiglie che non fecero 
a tempo ad andar via vennero minacciate di rappresaglia qualora il corpo venisse 


trovato. Per fortuna non fu cosi! 


2! Questo particolare appare veramente strano. Che Wiinsche non si portasse almeno la pistola 


d'ordinanza, sembra quasi inverosimile. 
2 Cfr NUTO REVELLI, op. cit., pp.133-134. 
2 Ibidem, p. 134. 
% Cfr, NINO BINI, op. cit., p. 246. 
2 Email all’autore, 26 agosto 2022. 


490 


Il cavaliere della Chiecina 


Fu una vera fortuna, anche perché i soldati di quella unità che effettuò il ra- 
strellamento, appartenevano a una divisione che, fin dall’agosto 1943, non si era 
fatta scrupolo di segnare il suo passaggio da una lunga scia di sangue?°. 

Giulio Zingoni dedica a questa storia due capitoli del suo libro. Dopo aver 
raccontato che aveva conosciuto il tenente, e che anche per lui era una brava per- 
sona, Zingoni si lancia in una descrizione del rastrellamento dove non mancano, 
come da copione, le famigerate SS: 


Sul tardo imbrunire, circa ottanta SS, divise in due file, in pieno assetto di 
guerra, una lungo la sponda destra, una lungo la sponda sinistra, risalirono il 
torrente Chiecina a monte, setacciando ogni angolo, ogni campo, ogni casolare 
in cerca del tenente. Io, i signori Binismaghi ed altri, stemmo all'aperto l’intera 
notte, in disparte, ad osservare dall'alto il viavai delle SS e solo all'alba, essendoci 


convinti che le SS avevano lasciato la Casaccia, rientrammo in casa”. 


Zingoni, purtroppo, non brilla di precisione, pur riportando episodi che a 
volte lo hanno visto protagonista. A parte le sempre presenti ( ma mai effetti- 
vamente di stanza i territorio) Waffen SS, a proposito del mese e dell’orario 
dell’agguato, egli, a differenza di chi cita giugno e le 11 o le 11,30°8, scriveva: 


[...] Di poco erano passate le tre del pomeriggio quando lo scorsi vicino al 
Chiecina a cavalcioni della cavallina nera del fattore. In mezzo a quella serra di 
verde, di rosso e di giallo, cera solo lui in quel caldo pomeriggio di luglio”. 


Secondo Zingoni, il fattore? aveva avvertito Wiinsche di non andare oltre un 
certo punto, perché poteva essere pericoloso, ma l'ufficiale ignorò l’avvertimento. 
Walter non era un novellino, aveva alle spalle diversi anni di guerra e, quindi, cosa 


26 La 1. Fallschirm-Panzer-Division Hermann Gòring, aveva segnato il suo passaggio in Sicilia, 


quando ancora eravamo alleati, con le stragi di Mascalucia e Castellone di Sicilia. Proseguirà la sua opera 
nella zona di Napoli e, in Toscana, a Civitella della Chiana, Meleto, Castelnuovo dei Sabbioni, Cavriglia 
e in altre località. Il 4 luglio 1944, elementi di questa divisione, effettueranno l’unica strage di civili in 
provincia di Siena, Palazzaccio di Arceno in Comune di Castelnuovo Berardenga. Spesso, alcuni autori 
la citano come SS Division Hermann Gòring a causa del fanatismo dei suoi uomini, ma la divisione non 
apparteneva alle Waffer SS ma alla Luftwaffe e i suoi ufficiali provenivano sia dall'esercito (eer) che 
dall’aviazione militare (Luftwaffe). L'unità era nata, il 23 febbraio 1933, come Polizeiabteilung Wecke ai 
comandi esclusivi del ministro prussiano degli Interni. Negli anni, il reparto si era ingrandito, sempre 
sotto il controllo del Reichsmareschall Hermann Goring, finché all’epoca dei fatti che narriamo, era pas- 
sato da Panzerdivision Hermann Gòring a 1. Fallschirm-Panzer-Division H.G. Secondo Mabire, il passag- 
gio era avvenuto il 1 maggio 1944, con l'assunzione del comando divisionale da parte del Gerera/major 
Wilhelm Schmaltz al posto di Paul Conrath. Secondo Kurowski, invece, il cambio di denominazione, e 
di comando, c'era stato il 15 aprile 1944. Cfr. JEAN MABIRE, op. cit., p.140; FRANZ KUROWSKI, 
The history of the Fallschirm Panzerkorps Hermann Gòring, Winnipeg, Manitoba, J.J. Fedorowicz Publi- 
shing Inc., 1995, p. 243. 

27 Cfr. GIULIO ZINGONI, La Terra di San Miniato, San Miniato, Tipografia Palagini, 1987, p. 
126. 

28. Nino Bini parla delle 17. Cfr. NINO BINI, op. cit., 2013, p. 246. 

2 Ididem, p. 125. 

3°. Un altro particolare che emerge dalla storia narrata da Nuto Revelli è che il tenente Wiinsche 
regalava al fattore due sigarette ogni volta che prendeva il cavallo, mentre Knaut a chi gli preparava la 
cavalcatura, regalava un sigaro. 


491 


Claudio Biscarini 


lo portò a sottovalutare l’avvertimento dell’italiano? È stato anche adombrato 
che volesse disertare, ma di ciò non ci sono prove. E, sinceramente, ci crediamo 
poco. Ci sono stati, e oggi la storiografia se ne sta facendo carico, diversi ufficiali 
e soldati tedeschi che disertarono e si unirono ai partigiani in tutta Italia. Magari 
portavano con se uniforme e armi, ma non certo andavano a disertare a cavallo?!. 

È anche interessante notare che, nella Relazione della Formazione Mori Fio- 
ravante, non si fa menzione di questo episodio. L'unico accenno si fa in data 7 
giugno 1944, quando una pattuglia partigiana, in località Porcareccia a sud di 
bi e di Corazzano, si era scontrata con una di collegamento tedesca di 
cinque o sei uomini, e nel combattimento era morto un tenente tedesco”. 

Più avanti, Mori ci rende edotti che il: 


12 giugno 1944. Disarmo di un maresciallo di marina avvenuto nella propria 
abitazione e disarmo di due repubblichini. 

17 giugno 1944. Cattura di un ufficiale repubblichino. 

17 giugno 1944.Disarmo di un tenente colonnello della finanza e del suo 
attendente transitanti in motocarrozzella sulla Via Costa, provenienti dal fronte. 


Per il 16 giugno, nemmeno una parola. 

Differentemente, i tedeschi dettero notizia del fatto nel Namentliche Ver- 
lustmeldung®*, Fallschirm-Panzer-Nachschube Trupp Hermann Goring del 16-6-44 
dove dichiaravano che il tenente Wiinsche, della 3* Compagnia Rifornimenti, era 
stato dichiarato disperso forse ucciso dalle bande”. 

Il corpo del cavaliere fu riesumato e probabilmente sepolto, a fine guerra, nel 
piccolo cimitero di Toiano della Brota con altri soldati sconosciuti. Poi, agli inizi 
degli anni ’50, il Vo/ksbund Deutsche Kriegsgriberfiirsorge e. V., l'ente tedesco che 
si occupa dei cimiteri di guerra, lo traslò al Deutsche EA Futa Pass, 
in una delle tombe del blocco 13, numero 365,366,433,435 che recano la scritta 
soldato sconosciuto, dove riposa assieme ad altri 36.680 corpi di soldati tedeschi in 
gran parte ignoti. 

È venuto il momento di svelare l'identità del cavaliere del torrente Chiecina. 
Daniele Benvenuti ci aveva inviato questa scheda sintetica: 

KONRAD WALTER WUNSCHE nato a Kleinzschocher® (Lipsia) il 28 
marzo 1908, ed ivi residente in Lipsia N 24, Taubestrasse 163° come ultimo do- 


3! Tra gli altri studi su questo argomento: Cfr. CARLO GREPPI, Il buon tedesco, Bari, Laterza, 
2015.; Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana, a cura di Mirco Carrattieri 
e Lara Meloni, Calendasco (PC), edizioni Le piccole Pagine, 2021. 

è. Cfr. Miscellanea storica della Valdelsa, op. cit., p. 243. 

3 Ibidem, p. 245. 

Rapporto nominativo delle perdite, non dei dispersi come scrive Bini. 

5 Cfr, NINO BINI, op. cit., p.249. 

Qualche anno fa, chi scrive con Giuseppe Chelli e Daniele Benvenuti, ci siamo recati su queste 
tombe di soldati sconosciuti, in una delle quali riposa Walter Wiinsche. 

#7. Cittadina di 10.472 abitanti, al marzo 2022, vicinissima a Lipsia. 

38. In Tauberstrasse 16, a Lipsia, oggi c'è un bellissimo palazzo restaurato imbiancato di rosa, con 
un ingresso al n.16 sormontato da due putti che sorreggono una ghirlanda per tutta la lunghezza della 
porta. Il palazzo, molto grande, è elegante nello stile, con una torretta su un lato della facciata che dà 
sulla via. Anche tutta la strada appare contornata da palazzi eleganti e restaurati, con un selciato stradale 


492 


Il cavaliere della Chiecina 


micilio sembra con la madre CAMILLA e deceduto in Italia il 16 Giugno 1944 
all’età di 36 anni durante la seconda guerra mondiale in qualità di tenente della 
Hermann Goering. . 

Figlio unico di FRIEDRICH FERDINAND WUNSCHE nato il 7.10.1874 
(padre) e deceduto il 23.1.1938 e di CLARA CAMILLER SCHUBERT nata a 
Oschatz il 20.06.1875 (madre) e deceduta IL 19.10.1941. 

Tenente (Oberleutnant) appartenente alla 3% Fa/lschirm-Panzer Korps- Na- 
chschub Trupp Hermann Goering in Einsatz raum Montopoli b. Pisa? addetto ai 
rifornimenti delle truppe di sussistenza i 

I dati delle unità militare sono strani. La divisione di Walter non era denomi- 
nata 3. Fallschirm-Panzer-Korps ma 1. Fallschirm-Panzer-Division*!. Corpo d’ar- 
mata corazzato, la Hermann Goring lo diventerà nell’ottobre 1944. Il 3. Panzer 
Korps, inserito nel Gruppo di armate centro, combatteva sul fronte orientale, 
in Curlandia nell'ottobre 1944. Il reparto esatto di Walter ci riporta a una unità 
trasporti (Nachschub Trupp) della sussistenza. Probabilmente, un distaccamento 
rimasto in zona dopo la partenza della divisione" che, il 16 giugno 1944, opera- 
va nella territorio a cavallo tra l'Umbria e la Toscana inserita nella 10. Armee del 
Generaloberst* Heinrich von Vietinghoff Schell. Occorre, qui, un breve sunto 
dell’attività di questa grande unità. Dopo aver combattuto sulla Gustav-linie e 
sulla testa di ponte di Anzio, a metà marzo 1944, la divisione fu spostata a riposo 
e difesa n nella zona di Pisa- Lucca-Livorno. Alcune sue unità arrivarono 
fino a Santa Croce sull'Arno. Quando iniziò l’ultimo assalto alleato dalla testa di 
Tana di Anzio, 23 maggio 1944, la divisione fu sbrigativamente dirottata sul 
ronte di Anzio a difesa della zona nevralgica di Valmontone. Per farlo, le sue uni- 
tà furono costrette a viaggiare anche di giorno e divennero preda dei cacciabom- 
bardieri alleati. Su questo punto, è interessante quanto scrive Franz Kurowski: 


La divisione si sarebbe diretta a sud su tre strade di avanzata: a) La strada 
costiera a destra attraverso Cecina, Grosseto, Tarquinia, Vetralla, Bracciano, peri- 
metro stradale di Roma: b) La strada attraverso i monti Poggibonsi, Siena, Acqua- 


a sampietrini quadrati. Nel 1940, Lipsia era la 6? città più grande della Germania, con i suoi 700.000 
abitanti. Venne ripetutamente bombardata dalla R.A.F,, il bombardamento più grave ci fu il 4 dicembre 
1943 con 1.800 morti, seguito da quello del 20 febbraio 1944. Nel maggio 1944 risultavano colpite, 
specie nel centro città, 10.000 abitazioni delle quali 4.000 totalmente distrutte. Lipsia era sede della 
fabbrica Erla Machinewerk a Heiterbrick, che produceva aerei da caccia Messerschmitt BF 109 e la cui 
produzione venne ridotta del 65%. 

3. Area operativa di Montopoli presso Pisa. 
Nino Bini, all’inizio del capitolo che parla di questo episodio, dice che si trattava di un robile 
prussiano, come gli aveva raccontato un amico passeggiando per il Giro d'’Empoli. La cosa non ci viene 
confermata dai documenti. Tra l’altro, Lipsia non è in Prussia ma in Sassonia. Ibidem, p. 241. 

i! Dal 24 luglio 1944. 

4 Pz Armeeoberkommando 3/ Heeresgruppe Mitte, Curlandia. 
Nel maggio 1944, le unità di rifornimenti della Hermann Goring spaziavano da Pontedera, a 
Palaia, a Peccioli, Capannoli e Ponsacco. 

4 Colonnello generale. 
Mentre la nostra zona faceva parte della 14. Armee del General der Panzertruppe Joachim Lemelsen. 
La divisione perse circa il 30% dei trasporti motorizzati e il 20% dell’armamento, compresi 
18 cannoni del reggimento artiglieria corazzato e dei 60 carri armati del Panzer-Regiment, arrivarono a 


Valmontone solo in 11. Cfr. FRANZ KUROWSKI, op. cit., p. 245. 


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Claudio Biscarini 


pendente, Viterbo, Roma. C) La Firenze, Arezzo, Orvieto, Roma. Sulla strada a 
sarebbero transitate unità con reparti cingolati: il Panzer-Regiment, il reggimento 
artiglieria corazzato e un battaglione di artiglieria contraerea; sulla strada b sareb- 
bero transitati il Panzer-Grenadier-Regiment 1., il Panzer-Grenadier-Regiment 
2., il battaglione corazzato Pionieri e un battaglione di artiglieria contraerea; 
sulla strada c sarebbero transitati Il comando divisione, il battaglione trasmissioni 
corazzato, il battaglione corazzato da ricognizione e un battaglione di artiglieria 
contraerea leggera. Le truppe di rifornimento sarebbero state assegnate in maniera 


proporzionale sulle tre direttrici”. 


Difesa Valmontone, la Hermann Gòring si spostò nel settore centrale del fron- 
te, combattendo a cavallo di Umbria e Toscana, a Chiusi, dove il 22 giugno 1944 
causò grosse perdite ai soldati alleati, Rapolano e Castelnuovo Berardenga. A 
metà luglio 1944, la divisione fu trasferita sul fronte orientale. Quindi, il reparto 
di Wiinsche era rimasto, per qualche motivo che ignoriamo, in zona mentre il 
resto della divisione era da tutt'altra parte. Ma chi era, in realtà, L’Oberleutnant 
Walter Wiinsche, il cavaliere del Chiecina? La scoperta, in Germania, del suo 
fascicolo personale ci permette di dare ulteriori informazioni’. 

Iniziamo con un primo documento che ci informa sulla carriera militare di 
Walter. Si tratta di un rapporto del reparto dove prestava servizio nel 1940, 22 
compagnia del battaglione cacciacarri 187: 


Posto comando 15.6.1940 

Truppe da campo 2. Kompanie, Panzer Jiger Abteilung 187 

Unità regolare Panzer Jiger Abteilung 24, BORNA, posta da campo n. 27151 

Nome Wiinsche Dottor Walter 

Grado: Maresciallo della riserva 

Specialità militare: Panzer-Jiiger 

Formazione professionale militare: PAK®® 

Distretto militare: Lipsia II nato il 28.3.1908 a Lipsia, religione evangelico- 
luterana 

Indirizzo di casa: Lipsia 24, Taubestrasse 16, II 

Posizione familiare: scapolo 

Professione: Assistente al l'Istituto Geografico dell’Università di Lipsia 

Stato di servizio: 

come fuciliere dal settembre 1933 presso Jiger-Regiment 11° a Lipsia 

come fuciliere dal 14.12.1936 al 24.2.1937 presso la 16. Kompaniel (E) ].R. 
11 a Wittenberg 

come caporale dal 12.4.1937 al 23.5.1937 presso il Panzer Abw. Abteilung 
24° a Borna 

come sergente della riserva, comandante di plotone cacciacarri dal 16.5.1938 


47. Cfr. FRANZ KUROWSKI, op. cit., pp244-245. 

8. Da questo momento, tutti i documenti si ritengono provenienti dal Bundesarchiu, BArch PERS 
6/225597. 

4 In Sassonia. 
Contrazione della parola Panzerabwehrkanone. Wiinsche si era specializzato su un cannone 
controcarro. 

9! 11° reggimento cacciatori. 
Battaglione corazzato di sicurezza. 


50 


52 


494 


Il cavaliere della Chiecina 


al 11.6.1938 presso Panzer Abw. Abteilung 24. a Borna 

Come comandante di plotone dal 1.8.1939 al 25.8.1939 presso il Panzer 
Abwehr. Abteilung 24. a Bona proposto per maresciallo 

Come maresciallo, comandante di plotone dal 16.8.39 al 14.11. 39 presso la 
3. Kompanie/ Panzer Jiger Abteilung 187.. 

Come maresciallo comandante di plotone presso la 2. Kompanie/ Panzer Jiger 
Abteilung 187.. 

Promozioni 

24.2.37 caporale della riserva e allievo ufficiale 

23.5.37 sergente della riserva 

11.6.38 maresciallo della riserva 

Impiego in guerra: 

Protezione del confine occidentale tedesco dal 1.9.39 al 25.1.40 come coman- 
dante di plotone. 

Utilizzato nella zona di guerra in Germania dal 26.1 al 12.3.1940 come 
comandante di plotone. 

Utilizzato nelle operazioni del fronte ovest dal 13.3 al 10.5.1940 come co- 
mandante di plotone. 

Avanzata e distribuzione in Belgio e Francia come comandante di plotone dal 
11.5.40 a oggi come comandante di plotone. 

In data 17.6.1940 dal Panzer Jiger Abteilung 187 (87. ID”) 


Prove di approvazione extrabiologica? Si 


A queste prime informazioni, si allegava un giudizio sintetico del personaggio: 


Valutazione 

Aspetto tozzo di taglia media. Un comportamento modesto e amabile gene- 
ralmente non gli viene naturale. Popolare con superiori, compagni e subordinati; 
inizialmente un po timido e impacciato al fronte, si è sviluppato molto bene nel 
corso dei 10 mesi in cui è stato al reparto. 

Sempre coscienzioso, guidò il suo plotone con prudenza ed energia, soprattutto 
davanti al nemico, e fece un lavoro particolarmente buono. E° all'altezza della sua 
posizione. Promette di essere un valido ufficiale di riserva. 


Quindi, il sottufficiale Winsche veniva ritenuto un buon elemento, tanto da 
passare al grado superiore: 


Ufficio personale dell'esercito 

(Gruppo Ufficiali d.B.) 

Az. 21 P 10 P (1) B7c. Berlino W 35 13 luglio 1940 

Da leggere immediatamente 

Al Comando Militare Distrettuale II a Lipsia 

Maresciallo della riserva Dr. Wiinsche Walter, Lipsia N 24, Tauberstrasse 16, 
nato il 28.3.1908 

fu proposto dalle sue truppe da campo per la promozione a tenente nella riser- 
va. Si richiede di fornire quanto prima informazioni sul fatto che il comando di- 
strettuale militare abbia documenti che indichino che vi sono preoccupazioni sulla 
promozione al grado di ufficiale. La risposta non dovrebbe attendere che siano stati 
ottenuti tutti i documenti per la determinazione in tempo di pace dell'idoneità 
fuori servizio. Questo è riservato per un momento successivo. 


53 


La Panzer-Jiger-Abteilung 187., apparteneva alla 87. Infanterie-Division. 


495 


Claudio Biscarini 


Il 15 luglio 1944, il Comando Militare Distrettuale Lipsia II rispose, elencan- 
do i passaggi di reparto e di grado del soggetto. Per il momento, Wiinsche era 
ancora nell'esercito. Ma il 19 luglio 1941, pare fare un cambiamento: 


Comando Supremo dell'Esercito 

21 s HPA/Ag PI/6. Abt. (4.1) 

Berlino W 35, 19 luglio 1941 

Oggetto: Ufficiale in stato di aspettativa. (d.B des Beurlaubtenstandes) 
Riferimento: Documento del 17.4.41 LPA (21) 0 13 10 Nr. 13017/41 

Al Ministro del Reich per l’Aviazione e al Comando Supremo della Luftwaffe (LPA) 


Il tenente della riserva dott. Wiinsche, Walter, Panzer Jiiger Battalion 24, RDA 
(grado di anzianità di servizio dal n.d.a.) 1.7.40 (1757), Lipsia II, documento 
segreto HPA/Ag P1/6 secondo il decreto del 12.741 n. 2290/41. Il dipartimento 
(d) lasciò il comando del comandante in capo dell'esercito con effetto dal 12 ottobre 
1940 e si trasferì nell’area di comando ivi con effetto dal 13 ottobre 1940. I docu- 
menti del personale che si trovano qui sono allegati per riferimento. 


Quindi, era passato alla Luftwaffe. Ce lo conferma un altro documento in data 
successiva, questa volta non dell’esercito ma dell’aviazione, che riporta un'altra 
valutazione: 


Comando di zona aerea Tempelhof* 

Berlino SW 29 14 dicembre 1942 

(Ufficio, unità militare) 

Posta da campo n........ 

Nota di valutazione 

Sul tenente (Kr.O.) e ufficiale di compagnia Dr. Walter Wiinsche nato il 28.3.08 

Scapolo, Ufficiale di Compagnia 

Valutazione attitudinale: carattere impeccabile e aperto. Estremamente co- 
scienzioso. Cerca sempre di risolvere i compiti assegnati con piena soddisfazione dei 
suoi superiori. Sempre entusiasta e si sforza di essere il miglior modello per coloro 
che muoiono. Fisicamente fresco e agile, è all'altezza di tutte le esigenze del servizio 
sul campo. Mentalmente molto attivo. Buone doti di leadership e di iniziativa 
personale. Familiarità con le idee nazionalsocialiste. Apprezzato nel corpo degli 
ufficiali come amabile compagno. 

L'attuale posizione è ben occupata? Si Molto bene. 

Idoneo per la promozione al grado successivo più alto? Sì quando ci si avvicina 
(allo standar previsto n.d.a.) 

Punizioni: nessuna 

Firma (illeggibile) 

Tenente colonnello e comandante della zona aerea. Usi suggeriti: come capo unità. 

Inserimento del Comando di Area Aeroportuale 4/III (Berlino-Staaken) Con- 
cordare con la valutazione di seguito 

Berlino-Staaken 11.1.1943, maggior generale e comandante (Firma illeggibile) 


Quindi, ancora una volta Walter Wiinsche viene giudicato un buon ufficiale, 
addirittura con familiarità con il nazionalsocialismo. Veniamo all’ultimo docu- 


5. Oggi non più esistente, l'aeroporto di Tempelhof è stato uno dei più importanti di Berlino. 
Operativo dal 1928 al 2004, si trovava nella zona sud del quartiere centrale di Schòneberg. 


496 


Il cavaliere della Chiecina 


mento. La data è importante, siamo nel settembre 1943 e Walter è già alla Her- 
mann Gòring, schierata nel Napoletano: 


I. (Rifornimenti) battaglione H.G”. 

Posto comando 28.9.1943 

Valutazione di guerra del 28 settembre 1943 

Sul tenente Kr.O. (Kr. O. Krieg Offizier n.d.a.) 1.7.42 Walter Dr Wiinsche 
nato il 28.3.1908 

Occupazione da civile: Assistente universitario scientifico 

Comandante di Compagnia distretto militare Lipsia II 

Presentazione programmata il 1 ottobre 1943 


Valutazione sintetica: 

Il tenente dott. Wiinsche si è dimostrato in tutte le situazioni un leader co- 
scienzioso di una compagnia trasporti, dal carattere impeccabile. È saldamente 
radicato nel nazionalsocialismo ed è in grado di trasmettere idee nazionalsocialiste. 
In accordo con la sua professione civile, ha una disposizione intellettuale superiore 
alla media. 

Punti deboli: non spiccare. 

Giudizio complessivo: buona media 

Come viene occupata la posizione attuale? Completato molto bene 

Idoneo per la promozione al grado successivo più alto? Non si avvicina ancora 
(allo standar previsto n.d.a.) 


Firma illeggibile, capitano e vice comandante di Battaglione 


Panzerdivision Hermann Gòring Comando, 24 ottobre 1943 
Comandante” 
Concordato! 


Questo è l’ultimo documento contenuto nel fascicolo personale di Walter 
Wiinsche. Dal penultimo e ultimo giudizio, si rileva un personaggio diverso dal 
cavaliere solitario e meditativo, gentile e attento alla forma, forse avverso a Hitler, 
che si ritrova nelle testimonianze rilevate nella valle del Chiecina dai civili che 
seppero della sua morte. Qui si parla di un nazionalsocialista dalle idee radicate, 
perfino capace di trasmetterle agli altri. Paiono due persone diverse, il che ci porta 
a considerare che qualche cosa sia cambiato nel carattere e nella visione della vita, 
e della guerra, nell'animo di Walter dal settembre 1943 al giugno 1944. 

In mezzo a queste due date c'era stata tanta violenza, tanta morte e forse 
l'animo di Wiinsche non era più propenso a tramandare quelle idee naziste che 
gli attribuiva il suo comando. Non lo sapremo mai. I colpi d’ arma da fuoco che 
misero fine alla sua vita, misero fine anche ai suoi pensieri. Noi abbiamo solo 
cercato, e speriamo di esserci riusciti, di delineare meglio la sua figura che rimane 
ai più indistinta. Due uomini, due destini paralleli. Rudolf Knaut, il disperso 
di Nuto Revelli, che morì due giorni prima del nostro Wiinsche in circostanze 


55 Il comandante del battaglione rifornimenti, all’epoca, poteva essere quell’ Oberstleutnant ( te- 
nente colonnello) Julius Schlenger che salvò i tesori di Montecassino, facendoli trasportare con i camion 
a Roma. Nell’ottobre 1943, infatti, Schlenger risulta comandante di questo battaglione. 


5 In quel momento, il comandante divisionale era il Genera/major Paul Conrath. 


497 


Claudio Biscarini 


che, dobbiamo dirlo, sono la fotocopia dei fatti accaduti sul Chiecina, e Walter 
Wiinsche. Il primo assiano, il secondo sassone. Rudolf, sottotenente (Leutnant) 
di 24 anni al comando di una compagnia di ex soldati dell’Armata Rossa, Walter, 
tenente (Oberleutnant) di 36 che guidava una compagnia di sussistenza. Entram- 
bi tedeschi “anomali”, entrambi cavalieri, entrambi uccisi da partigiani”. Due 
delle tante storie di uomini di quella grande tragedia che fu la seconda guerra 
mondiale. 


Un ringraziamento all'amico Daniele Benvenuti che ci ha fatto conoscere più 
a fondo questa triste storia, alla quale ha dedicato molto del suo tempo e della 
sua emozione. 


Bibliografia 


Bini N., // Valdarno Inferiore nel 1944. Diari e memorie, Firenze, Edizioni Poli- 
stampa, 2013. 


CinteLLI E., San Miniato, settant'anni dalla Liberazione, Pontedera, Tagete Edi- 
zioni, 2014. 


Di guerra e di genti. 100 racconti della Linea Gotica, a cura di Andrea Marchi, 
Gabriele Ronchetti, Massimo Turchi, Bologna, Edizioni Pendragon,2020. 


Focarpi E, // cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della secon- 
da guerra mondiale, Bari, Laterza editori, 2013. 


Grepri C., // buon tedesco, Bari, Laterza, 2021. 
Marie J., La Panzerdivision Herman Goering, Parigi, Édition Grancher, 1992. 


Miscellanea Storica della Valdelsa, Antifascismo e Resistenza in Valdelsa, Società 
Storica della Valdelsa, Castelfiorentino, 1971, anni LXXIV- (nn.1-3) Genna- 
io-Dicembre 1968-70, Della Serie 189-197. 

Partigiani della Webrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana, a cura di 
Mirco Carrattieri e Lara Meloni, Calendasco (PC), edizioni Le piccole Pagi- 
ne, 2021. 

ReveLLI N., Il disperso di Marburg, Torino, Giulio Einaudi editore, 1994. 

Kurowski F., The history of the Fallschirm Panzerkorps Hermann Gòring, Winni- 
peg, Manitoba, J.J. Fedorowicz Publishing Inc., 1995. 

ZinconI G., La Terra di San Miniato, San Miniato, Tipografia Palagini, 1987. 


57 Sia per Knaut che per Wiinsche, alcune testimonianze li definiscono “sbandati”. 


498 


Il cavaliere della Chiecina 


THIRD EDITION 


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Fig. 1: Estratto dalla terza edizione di una carta 1:100.000, Sheet 112, Volterra, di fonte statunitense, 
dove viene evidenziato il tratto di territorio dove avvenne il fatto. (Archivio Biscarini) 


499 


Claudio Biscarini 


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Fig. 2: Carta tedesca relativa alla situazione al fronte, in data 14 giugno 1944. Da rilevare la posizione 
della Hermann Gòring nel settore della 10. Armee, LXXVI Panzer-Korps, tra Acquasparta, San Gemini, 
Massa Martana e Spoleto, in Umbria. (Deutschen Demokratschen Republik, Auftrag 166/87, WE- 
03/4632, Blatt 342. 14 giugno 1944.) 


500 


Il cavaliere della Chiecina 


Fig. 3: La tomba, presso il cimitero militare tedesco della Futa, dove dovrebbero essere stati tumulati i 
resti del tenente Wiinsche. (Foto Daniele Benvenuti, 16 febbraio 2019). 


Fig. 4: Un'immagine invernale del monumento del cimitero militare tedesco della Futa. (Foto Biscarini). 


501 


Vita dell’Accademia nell'anno 2022 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI DELLA CITTÀ DI SAN MINIATO 
COMPOSIZIONE DELLE CARICHE SOCIALI 


Il Consiglio Direttivo risulta per l'anno 2022 composto da: 


Saverio Mecca 

Maria Grazia Messerini 

Bruno Bellucci 

Francesco Fiumalbi 

Alberto Falaschi 

Lucia Catarcioni 

Alexander Carmine Di Bartolo 
Riccardo Gucci 

Luca Macchi 

Rossano Nistri 


Roberta Roani 


Presidente 

Vice Presidente 
Segretario 

Vice Segretario 
Tesoriere 
Consigliere 
Consigliere 
Consigliere 
Consigliere 
Consigliere 


Consigliere 


Tutti i componenti del Consiglio Direttivo non percepiscono alcun 
compenso derivante dalle cariche in seno all'Accademia. 


Il Presidente dell’Accademia degli Euteleti di San Miniato 


Prof. Saverio Mecca 


504 


ACCADEMIA DEGLI EUTELETI 
DELLA CITTA DI SAN MINIATO 


SOCI ONORARI 


Cristina Acidini 
Alessandro Bandini 
Luigi Bernini 

Igino Bonechi 
Giuseppe Roberto Burgio 
Giovanni Cipriani 
Marco Fagioli 
Crescenzio Franci 
Angelo Frosini 
Vittorio Gabbanini 
Renzo Gamucci 
Eugenio Giani 
Franco Giannoni 
Simone Giglioli 


Giorgio Giolli 


SOCI ORDINARI 


Anna Alessi 
Adriana Banella 
Bruno Bellucci 
Piero Bruschi 
Federico Cantini 
Lucia Catarcioni 
Giovanni Conforti 
Andrea Cristiani 
Antonia D’Aniello 
Alexander Carmine Di Bartolo 
Francesco Dini 
Alberto Falaschi 
Maria Fancelli 
Francesco Fiumalbi 
Marzio Gabbanini 


Antonio Guicciardini Salini 
Francesco Gurrieri 
Lino Lensi 

Alfonso Lippi 
Romano Masoni 
Andrea Migliavacca 
Morello Morelli 
Giorgio Rondini 
Gianfranco Rossi 
Salvatore Settis 
Mario Sladoyevich 
Fausto Tardelli 
Paolo Taviani 
Alberto Vierucci 
Luigi Zangheri 


Isabella Gagliardi 
Antonio Galanti 
Riccardo Gucci 

Luigi Latini 

Luca Macchi 

Andrea Mancini 
Saverio Mecca 

Maria Grazia Messerini 
Rossano Nistri 

Anna Padoa Rizzo 
Roberta Roani 

Renzo Rossi 

Francesco Salvestrini 
Andrea Vanni Desideri 


505 


SOCI CORRISPONDENTI 


Amedeo Alpi 

Carlo Baccetti 
Lorenzo Bacci 
Massimo Bacchereti 
Renato Baldi 

Laura Baldini 
Pierluigi Ballini 
Antonio Baroncini 
Carlo Baroni 
Nicola Baronti 
Riccardo Belcari 
Giuseppe Bellandi 
Gianluca Belli 
Antonio Bellucci 
Silvia Benassai 
Giovanni Benelli 
Giacomo Benvenuti 
Virginia Benvenuti 
Maria Pia Bertagnolli 
Antonella Bertini 
Emilio Bertini 
Daniela Bianconi 
Francesco Biron 
Claudio Biscarini 
Stefano Boddi 
Roberto Boldrini 
Adolfo Bucalossi 
Alfredo Bucalossi 
Claudia Maria Bucelli 
Adriano Buggiani 
Susanna Caccia 
Mario Caciagli 
Fabio Calugi 
Johara Camilletti 
Francesco Campigli 
Daniela Cancherini 
Andrea Capecchi 
Rosario Casillo 
Mattia Catarcioni 
Costantino Ceccanti 


506 


Susanna Cerri 
Amerigo Cheli 
Giuseppe Chelli 
Andrea Ciarini 
Ruffo Ciucci 
Giovanni Coppola 
Francesca Romana Dani 
Luca Danti 
Giuseppe De Juliis 
Giuseppe De Luca 
Andrea De Marchi 
Anna Maria Ducci 
Angelo Fabrizi 
Anna Falchi 
Michele Feo 

Alice Fiaschi 
Ludovica Fiaschi 
Michele Fiaschi 
Marco Fioravanti 
Delio Fiordispina 
Maria Antonietta Frosini 
Antonio Galli 
Vincenza Galli Angelini 
Laura Galoppini 
Graziano Ghinassi 
Alice Giani 

Aldo Giannarelli 
Benedetta Giugni 
Simone Giugni 
Fzio Giunti 
Andrea Gozzini 
Sergio Gronchi 
Alessio Guardini 
Anna Lambertini 
Giulia Lovison 
Lamia Hadda 
Renzo Lapi 

Carlo Lapucci 
Marco La Rosa 
Silvia Lensi 


Pier Giuseppe Leo 
Giuseppe Lotti 
Luca Lupi 

Pier Luigi Luti 
Fabrizio Mandorlini 
Rosalia Manno Tolu 
Emilia Marcori 
Claudia Massi 

Tessa Matteini 

Rita Mazzei 

Patrizia Mello 

Luca Menichetti 
Giovanni Meozzi 
Giulia Micera 
Nicola Micieli 
Paolo Morelli 
Barbara Mori 
Eugenio Murrali 
Maria Grazia Napoli 
Lucia Nacci 

Masao Noguchi 
Costanza Pacini 
Franco Paliaga 
Valentino Pancanti 
Manuela Parentini 
Ettore Parmeggiani 
Barbara Pasqualetti 
Rossano Pazzagli 
Ernesta Pellegrini 
Valfredo Pellegrini 
Carla Pieri 

Alfiero Petreni 
Susanna Pietrosanti 
Davide Provenzano 
Stefano Renzoni 
Francesco Ricciarelli 
Elena Riccioni 


Graziana Rocchi Giannoni 


Giuseppe Rossi 
Francesca Ruta 
Lucilla Saccà 

Sandro Saccuti 


Fausto Sacerdote 
Giulio Santini 
Alessandra Scappini 
Anna Scattigno 

Fabio Sottili 

Maria Donata Spadolini 
Ferruzzi 

Bruno Spagli 

Luigi Spezia 

Matteo Squicciarini 
Piero Taddeini 

Maria Grazia Tampieri 
Maddalena Tani 

Paolo Tinghi 

Varo Tinghi 

Aldemaro Toni 
Alessandro Ubiglia 
Denise Ulivieri 
Valerio Valori 

Daniele Vergari 
Edoardo Villani 
Cesare Viviani 
Marcello Viviani 
Claudia Weber Saglam 


Emiliano Zucchelli 


SOCI BENEMERITI 
Franco Frulli 
Lodovico Inghirami 
Rodolfo Panarella 


Ilvano Vannozzi 


Il Presidente 


dell’Accademia degli Euteleti di San Miniato 


Prof. Saverio Mecca 


507 


LE ATTIVITÀ DELL'ACCADEMIA DEGLI EUTELETI DI SAN MINIATO 


Le attività dell’Accademia degli Euteleti che già negli ultimi anni hanno dovuto 
confrontarsi con una forte riduzione delle risorse provenienti dalle istituzioni, 
sono state limitate dalla pandemia Covid19, ma le sue scelte fondamentali sono 
state mantenute: 


e il Bollettino che raccoglie contributi di ricercatori e studiosi soci e non soci 
dell’Accademia su temi articolati dalle scienze fisiche alle scienze umane, alla 
storia e all'arte. Il Bollettino si conferma come uno dei più prestigiosi contri- 
buti al dibattito culturale del Valdarno e della Toscana; 


e le mostre di arte, dalla pittura alla scultura, la grafica, la fotografia. La mostra 
di opere di Rossano Nistri è stata posticipata ian 2022 e altrettanto la re- 
lativa pubblicazione del catalogo che andrà ad arricchire la collana “Le mostre 
dell’Accademia”; 


e ilsostegno e cooperazione con altre istituzioni e associazioni presenti nel ter- 
ritorio mediante la condivisione di progetti e la messa disposizione della sede 
rinnovata e adeguata tecnicamente per lo sviluppo di mostre, seminari, con- 
vegni e conferenze. 


e ilrinnovamento dei soci componenti il consiglio, i soci ordinari e corrispon- 
denti dell’Accademia; 

® la gestione del sito web dell’Accademia; 

e il mantenimento delle attrezzature e degli arredi; 

e l’adesione al Sistema Museale di San Miniato. 


Le attività sopra riassunte sono state rese possibili utilizzando in pieno le risorse 
economiche sia quelle provenienti dai contributi del Ministero della Cultura e 
dalla Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato che dai Soci dell’Accademia. 


La continuità della attività nei prossimi anni dell’Accademia richiederà risorse 
adeguate, anche se modeste, integrate dall'impegno, dal lavoro e da contributo 
volontario di tutti i soci, che per quanto generoso non potrà essere sufficiente. 
Rivolgiamo un appello affinché da parte delle Istituzioni Pubbliche del territorio 
e della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato si possano assicurare le ri- 
sorse necessarie affinché l'Accademia possa continuare ad operare nella necessaria 
autonomia e libertà nell’interesse della comunità. 


508 508 


ATTIVITÀ DELl’ACCADEMIA DEGLI EUTELETI DI SAN MINIATO 
NELL'ANNO 2022 


L'Accademia degli Euteleti ha perseguito il suo fine statutario di “attuare iniziative 

e di lavori per la promozione degli studi letterari, storici, scientifici ed artistici”. Le 

attività si sono quindi articolate, pur nelle limitazione indotte dalla pandemia, in: 

® = promozione della cultura mediante la redazione, la pubblicazione e la diffusione 
del Bollettino dell’Accademia con periodicità annuale, e di altre opere a stampa; 

* organizzazione delle Mostre dell’Accademia 

® organizzazione di Conferenze, progetti e iniziative nel campo degli studi lettera- 
ri, storici, scientifici ed artistici; 

* attività di cura, conservazione e valorizzazione del patrimonio librario, archivi- 
stico e artistico dell’Accademia a beneficio degli studiosi e della comunità. 
L’Assemblea dei Soci Ordinari nella seduta Gennaio 2022 ha approvato il Bilancio 
consuntivo dell’anno 2021, il Bilancio preventivo dell’anno 2022, il Programma del- 

le attività per l’anno 2022 e il Programma delle attività per il triennio 2022-2024. 


Incontri dell’Accademia 


Gli incontri dell’Accademia sono stati sospesi per l’intero anno 2022 


Venerdì 16 dicembre 2022, 
Sa verio Mecca 


Ore 17,30 
presentazione e diffusione del Bollettino n° 89- anno 2022 


Ore 18,00 

Elisabetta Cerbai 

Direttrice del Laboratorio Europeo di Spettroscopia Non-linearee 
LENS: l'avventura della luce dal laser al computer quantistico 


Mostre dell’Accademia 


Le mostre dell’Accademia sono state sospese 


Pubblicazioni 


Bollettino dell’Accademia n° 89-2022 

La pubblicazione del Bollettino n. 89 ha avuto luogo Venerdì 16 dicembre 2022 
presso la sede della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato, Palazzo Grifoni, 
Piazza Grifoni 12, San Miniato. 


509 


Cura, conservazione e valorizzazione della Biblioteca e del patrimonio archivistico 
e artistico 


Con nostro rammarico il progetto di completamento della catalogazione su supporto 
informatico del patrimonio librario per la ricerca e la consultazione anche via Web 
del Catalogo della Biblioteca dell’Accademia degli Euteleti della Città di San Miniato 
anche per il 2022 è rimasto sospeso in quanto non ha ricevuto il contributo atteso. Il 
progetto di completamento della catalogazione sarà ripresentato nell’anno 2023 per 
poter mettere a disposizione della comunità e dei ricercatori l'importante archivio 
dell’Accademia. 

Per l’insufficienza dei contributi ricevuti non si è avviato il completamento dell’in- 
ventariazione dei dipinti e delle suppellettili di proprietà dell’Accademia degli Eute- 
leti. Tale operazione sarà realizzata in collaborazione con la Sovrintendenza ai Beni 
Culturali di Pisa. 

L'Accademia degli Euteleti ha partecipato al Progetto Digital Library di digitaliz- 
zazione del patrimonio musealearchivistico-bibliografico delle istituzioni pubbliche 
non statali, insieme alla Biblioteca Comunale di san Miniato. 


Sistema museale di San Miniato 


Anche per quanto riguarda l’anno 2022 l'Accademia ha aderito al Sistema Museale 
di San Miniato. 


510 


FINITO DI STAMPARE 
NELLA TIPOGRAFIA BONGI 
SAN MINIATO (PI) 
DICEMBRE 2022